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Umberto Boccioni
La città che sale (1910 - 1911) 
Officine a Porta Romana (1909 - 1910)
Ritratto di una futurista (1910) 
Idolo moderno (1911)
La madre (1910) e Materia (1912)
Dinamismo di un corpo umano (1913)

Paul Cezanne
Casa in Provenza (1885 - 1886)
La montagna di Saincte-Victoire (1905 -1906)
Natura morta con comò (1882 - 1887)

El Lissitzky
Con il cuneo rosso spezza il cerchio dei bianchi (1920) e L'uomo nuovo (1923) 
PROUN 5-A (1919)

Kasimir Malevic
Cerchio nero (1915)

Laslo Moholy- Nagy
Fotografie alla Bauhaus (1928)
LIGHT-SPACE MODULATOR (1922 - 1930)
Q1 SUPREMATISTIC (1923)

Piet Mondrian
Al lavoro sulla terra (1898)
Broadway boogie-woogie (1942 -1943) 
Composizione (1930)  

Diego Velazquez
Ritratto di Filippo IV (1624)
Ritratto dell'infanta donna Maria (1630) 
Venere e Cupido (1651)
La famiglia di Filippo IV (las meninas) (1656)


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Fotografia alla Bauhaus / Laslo Moholy-Nagy. (1928). Ancora nella Bauhaus di Dessau. Difficile dire se se si tratta di una fotografia astratta o di una composizione astratta in forma fotografica: il tema della riproducibilità scientifica del reale è affrontato senza patemi o drammi. La riproducibilità è adottata, con serenità e non manca una altrettanto serena ironia.  

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LIGHT-SPACE MODULATOR / Laslo Moholy-Nagy. (1922 - 1930). Composizione in metallo, realizzata nel periodo del soggiorno in Germania e di partecipazione alla Bauhaus di Dessau. È una costruzione che ha il compito di catturare la luce e di organizzarla. Per Moholy si è spesso scritto, con sicura riduzione delle sue intenzioni, di optical art: arte ottica. L'artista ungherese concepisce quest'opera, come molte altre, non come evento irripetibile, unico e univoco, ma come fatto ripetibile, riassemblabile e rimodulabile; costruisce una macchina visiva nella quale conta il funzionamento, la regola più che la sua realizzazione in un originale indiscutibile e definibile come 'opera d'arte'. Sono ammissibili centinaia di repliche e riproduzioni, anzi la replica e la riproduzione sono la nuova potenza dell'arte contemporanea e la frontiera con la quale si deve misurare. 

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Q1 SUPREMATISTIC / Laslo Moholy-Nagy. (1923). L'astrattismo ha una radice europea, anche se solo negli Stati Uniti ha trovato un ambiente di sviluppo naturale. Laslo Moholy- Nagy, ungherese del 1895, lascia intorno al 1920 il paese natale per Parigi, dove conosce El Lissitzky, per poi migrare in Germania, alla Bauhaus, e finire, come l'olandese Piet Mondrian, negli United States dopo il 1934. L'incontro con il suprematismo russo di El Lissitky è evidente fin nell'intitolazione di quest'opera. 

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Al lavoro sulla terra.- Mondrian.- 1898. Piet Mondrian ha trentasei anni. Ha abbandonato Amsterdam per il Brabante ed è influenzato dalle esperienze pittoriche locali. Linee, forme e colori si delineano nette, oltre la figurazione. Quattordici anni dopo, contemporaneo alla frequentazione degli ambienti parigini e soprattutto l'incontro con Picasso e Braque, è l'albero di mele che fiorisce (1912). Qui la figura inizia a divenire pretesto per un altra ricerca.



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Cerchio nero.- Malevic.- 1915. "Per suprematismo intendo la supremazia della sensibilità pura nell'arte. Dal punto di vista dei suprematisti le apparenze esteriori della natura non offrono alcun interesse; solo la sensibilità è essenziale. L'oggetto in sé non significa nulla. L'arte perviene col suprematismo all'espressione pura senza rappresentazione". Verso l'essenza, come El Lissinky, l'ucraino Kazimir Malevic (1878 - 1935), anch'egli vicino politicamente ai Bolscevichi.



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Con il cuneo rosso spezza il cerchio dei bianchi (1920) e L'uomo nuovo (1923). El Lissitzky diceva di buona parte della sua opera che era una stazione pittorica verso l'architettura. Queste due stazioni (la prima era un manifesto studiato per l'Armata Rossa impegnata nella guerra civile scatenata dall'invasione delle armate dei 'bianchi') sono contrassegnate dall'impegno rivoluzionario del pittore e il lavoro sul significato diviene più forte di quello sul significante. 





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PROUN 5-A (1919) El Lissitzky. Chiamiamo PROUN una stazione di un solo piano verso la costruzione di una nuova forma […] Da semplice pittore, l'artista diventa un creatore (un costruttore) di forme per un nuovo mondo - il mondo dell'oggettività. Questo non comporta una concorrenza rispetto l'ingegneria. L'arte non ha ancora incrociato il suo piano con le scienze. (Tesi sul PROUN, 1920)




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La citta che sale, Umberto Boccioni (1910 / 1911). Il titolo originale era Il lavoro. È una veduta della periferia milanese dove abita l'artista.  Nella parte superiore dell'opera ciminiere e impalcature, in primo piano il movimento di uomini e cavalli, il lavoro, appunto, fuso in un'unica massa plastica. Nulla di macchinico nel lavoro, per Boccioni del 1910, dunque. Alcune critiche hanno fatto riferimento al simbolismo per interpretare quest'olio su tela: probabilmente è solo un modo di mettere in rappresentazione il lavoro, a Milano, nel 1910 e secondo la sensibilità dell'autore. 

 


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La citta è una tavola di tematiche sovrapposte. Le linee della metropolitana, i semafori, i circuiti elettrici e le luci dei neon, le arterie automobilistiche e la musica urbana, il boogie, che assembla i diversi piani del quadro. Si scrive che Mondrian fuggì nel 1940 dalla guerra in Europa, è certamente verosimile; ma è ancor più verosimile che fuggisse generalmente dall'Europa.  New York era più interessante di Berlino e anche di Parigi: le linee, qui, diventavano forme. Piet Mondrian - Broadway boogie-woogie (1942 -1943)





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Linee perpendicolari nere che inquadrano i tre colori primari (rosso, giallo e blu), su fondo bianco. Piet Mondrian in Europa, ancora europeo, nel 1930 e teorico, in prassi e teoria, del plasticismo. La forma e il colore  si separano, divenendo generi diversi: la rappresentazione della realtà perde qualsiasi relazione con la realtà empirica, come nella contemporanea meccanica quantistica. Piet Mondrian - Composizione (1930)

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La casa e la collina sono presenze geometriche forti e delineate, quasi sculture. La contemporanea poetica degli impressionisti, tutta volta alla percezione della realtà e alla rappresentazione di questa percezione, è abbandonata come una sudditanza all'apparenza, quasi frivola. A Cezanne interessa la struttura del reale. Un vago richiamo a Giotto nello sfondo collinare svolto quasi in scala di grigi.



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La montagna di Saincte-Victoire / Paul Cezanne. (1905 -1906). Quasi trenta tele furono dedicate dall'artista a questo soggetto della campagna provenzale. Cezanne scriveva di ispirarsi alle linee geologiche di quel paesaggio, alla sua struttura e che solo allora iniziava a "vederlo". E, usando le sue stesse parole, il territorio, ridotto e studiato come struttura, diveniva un' assenza di luogo, un posto senza posto. Qualcuno potrebbe far pensare che la ricerca di Cezanne andasse coscientemente verso la fine del figurativo, in verità, è proprio il contrario: l'artista indagava la struttura stessa della figura e della descrizione figurativa, anche se la ricerca di Cezanne ha sicuramente fornito argomenti alla pittura astratta. 



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Natura morta con comò / Paul Cezanne. (1882 - 1887). La natura morta era un soggetto molto amato dagli impressionisti; anche se non fu una loro invenzione, con loro, però, divenne un genere e Cezanne era influenzato dalle contemporanee esperienze di Monet, Sisley e di molti altri del 'movimento'. In questa tela, dove il pittore risente fortemente delle lezioni dell'impressionismo, è strabiliante la costruzione dello spazio e la sapienza nelle scelte cromatiche.



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Officine a Porta Romana / Umberto Boccioni. (1909 - 1910).  Boccioni lavorò a quest'opera pochi mesi prima di pubblicare il Manifesto tecnico della pittura futurista dell'aprile 1910. La periferia milanese, in rapida trasformazione e opera in costruzione, è il soggetto del quadro, come nella 'Città che sale' e altre tele contemporanee. La tecnica usata è quella degli ultimi impressionisti e del divisionismo, ma è la potenza del soggetto urbano, rappresentato in tutta la sua cruda nitidezza, a evidenziare una sensibilità nuova: la città industriale e Milano sono protagoniste. Un modo figurativo di avvicinarsi alle poetiche del futurismo.  


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Ritratto di una futurista (1910) / Umberto Boccioni.  L'intitolazione di quest'opera non è univoca. Alcuni critici propongono 'la fiamma' o 'testa femminile'. Nonostante il decisivo incontro con Marinetti, Boccioni mantenne un atteggiamento critico verso l'approccio troppo 'ideologico' con il quale il poeta intendeva il futurismo. In questa tela è, in effetti,  una garbata critica alla dichiarazione di guerra ai 'chiari di luna' espressa in molte occasioni da Marinetti. Il ritratto è interpretabile anche come un chiaro di luna trasfigurato ma soprattutto come una piacevole e stupita apparizione dell'universo femminile. 



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Idolo moderno (1911) / Umberto Boccioni.  Come nel Ritratto di una futurista dell'anno precedente, il mondo femminile è nuovamente protagonista. Inutile sottolineare l'influenza dell'iconografia impressionista sulle donne nei bar o sulle vedette; questa iconografia, però, è contaminata dalla presenza costante delle nuove e imperanti tecnologie della modernità, anzi letta attraverso questa contaminazione. L'idolo è quasi un idolo elettrico, anche se una certa retorica ottocentesca innerva la rappresentazione. 

 

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La madre (1910) e Materia (1912) / Umberto Boccioni.  Tra La madre e Materia, che sono il medesimo soggetto senza esserlo, è visibile l'approfondimento delle tematiche futuriste, ancora una volta lette al di fuori dei dogmatismi del movimento. Boccioni scriveva della sua pittura di questo periodo che era una 'pittura di stati d'animo'. La madre, stato d'animo primordiale, si trasforma in una chiave descrittiva generale. In entrambe le opere la visione si sviluppa dalle mani incrociate in primo piano della madre / materia.




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Dinamismo di un corpo umano / Umberto Boccioni. (1913)  La costruzione futurista è evidente. Il pittore studia la simultaneità del movimento, abbandonando la poetica degli 'stati d'animo'; la materia  si muove nello spazio in una specie di fermo temporale. La materia,  non è, per Boccioni, completamente inanimata, ma possiede energia e vitalità proprie ed espansive: i movimenti del corpo umano , alla fine, riempono la superficie del quadro, la dominano e costituiscono uno spazio di energie in mvimento.

 


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Ritratto di Filippo IV / Diego Velazquez. (1624)  Diego è a Madrid, dove l'ho ha inserito l'intraprendenza del vecchio maestro e ora suocero, Francisco Pacheco. Rapidamente, dopo una serie di ritratti illustri, viene notato a corte e poco dopo diviene pittore di camera del re. Qui Filippo è ritratto senza nessuna idealizzazione, con un realismo che non nasconde i tratti del volto non particolarmente aggraziati e i difetti ficici. L'impostazione del quadro però è geniale e ribalta la debolezza dell'originale: uno sfondo quasi monocronatico e memore di quelli caravaggeschi, ospita una figura che nonostante l'esilità diviene solida, forte e incombente, segno dell'autorità. La prospettiva scelta da Velazquez pone lo spettatore come se si trovasse inginocchiato davanti al monarca e allo scorcio di tavolo sul quale è appoggiato il corpicapo reale. L'abito scuro e le tonalità grigie ribadiscono questa maestà senza retorica, malgrado il re sia in posa nel quadre e per il quadro: anzi viene manifestata la posa del re.

 

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Ritratto dell'infanta donna Maria / Diego Velazquez. (1630)  Nel 1629 Velazquez lascia Madrid al seguito del governatore militare dei territori italiani per la corona spagnola, il marchese Spinola. Il pittore ha già subito l'incontro con la pittura di Rubens e in Italia incontra una situazione composita tra caravaggeschi e classicisti e personaggi come Da Cortona, Poussin e Serodine. Passato per Genova, Milano e Parma, giunge, infine a Roma. In Napoli, probabilmante nello studio del pittore ufficiale del vicereame, Ribeira, e poco prima di rientrare in Spagna, dipinge questo ritratto della sorella di Filippo IV, la principessa sposata per procura al re d'Ungheria. Il ritratto ha la funzione di fornire un ricordo di Maria per il fratello. Senza negare qualche originalità nei lineamenti e abdicare al realismo, la posa della principessa è costruita su uno sfondo indefinito e quasi monocromatico, in modo da evidenziare una fierezza e contemporanea dolcezza nella figura e nell'atteggiamento. 

 

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Venere e Cupido / Diego Velazquez. (1651)  Durante il secondo soggiorno italiano, Velazquez esegue molti ritratti, alcuni famosissimi. Quest'opera, però, è quasi un unico nella produzione di Velazquez dove il nudo femminile è rarissimo. La scelta cromatica è più libera e vivace rispetto all'abitudine del pittore, e non indifferente l'invenzione del volto riflesso di Venere, abbozzato nella penombra e in maniera che si potrebbe dire impressionista. La protagonista del quadro è in verità la pittrice Flaminia Triva, che ebbe una relazione con Diego e per la quale l'artista cercò di ritardare il rientro in Spagna, provocando svariate lettere di richiamo del re.

 

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La famiglia di Filippo IV (las meninas) / Diego Velazquez. (1656)  L'opera è un complesso di opere, di ritratti, di visuali, prospettive, e spunti curiosi. Il pittore, pennello in mano, guarda i sovrani, che sono fuori campo ma, dietro lui, uno specchio ne riflette le immagini; accanto le due damigelle d'onore (meninas) intorno all'infanta Margherita e dietro la fuga prospettica della porta aperta con figura in lontananza, il cane e la nana di corte chiudono il primo piano insieme con lo scorcio di un bambino. Velazquez morì il 31 luglio 1660, poco dopo aver allestito nei Pirenei il padiglione per il matrimonio tra Luigi XIV e l'infanta Maria Teresa che suggellava la pace raggiunta tra la corona di Francia e quella di Spagna l'anno precedente. A provocarne la morte fu una febbre malarica.



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