Ai margini, annotazioni, letture, memorie (2016)
Bibliografia consultata e consigliata
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Venerdì, 1 gennaio
Annotazione. Largamente ai margini di Convenzione e materialismo di
Virno. La morale è discorso e interpretazione, l'etica esempio,
effettualità e concretezza. La morale non può che venire a posteriori
in quanto discorso sull'etica, l'etica è a priori della morale. La
morale non può che venire a posteriori in quanto discorso sull'etica.
La morale, pur avendo una narrazione universale, è fondamentalmente un
prodotto soggettivo, con minore o maggiore successo rispetto al
rappresentato e alla sua oggettività; l'etica è immediatamente
collettiva e oggettiva. Questo nella configurazione valida per il
mondo classico e moderno.
Domenica, 3 gennaio
Annotazione. Il quadro etico e politico della trasformazione sociale
degli anni settanta e ottanta, che ha traghettato verso quella che
viene definita post – modernità, disegna un cambiamento radicale e
profondo e quindi una nuova epoca.
Negri, Virno, Berardi, Foucault e Deleuze in moltissime opere
descrivono, narrano e registrano questo passaggio. Rimane, almeno per
me, il problema di quell'ormai antico, ma forse non ancora inattuale,
concetto di operaio sociale, abbandonato, lasciato lì, dato per
presupposto ma mai, alla fine, dimostrato e, soprattutto, descritto.
Dietro quel soggetto, però, potrebbe essere la vita, l'etica e la
politica di questa nuova epoca.
Rimane, inoltre, l'assenza di dati statistici, e questo limitatamente
alla mia analisi, che non per questo deve essere di impedimento
perché, spero si sia capito, l'analisi dell'operaio sociale va fatta
dal suo interno, dal di dentro della sua autopercezione, dalla
singolarità (concetto scoperto da Virno e amato da Negri).
Le statistiche le recupererò ma servono a poco; in fondo, la
statistica deve essere di tutt'altro genere.
L'idea, che si è fatta avanti con prepotenza in Italia negli anni
novanta, di appartenere a un altro genere di forza lavoro, questa idea
è la statistica: la statistica è una nuova immagine del lavoro
subalterno e salariato.
Quello che negli anni settanta era fantascienza, oggi è realtà, in
mezzo a questi due estremi è l'esperienza dell'operaio sociale, che è,
probabilmente, due cose apparentemente opposte: una figura di
passaggio, provvisoria e transeunte che contiene una tipologia
epocale.
Giovedì, 7 gennaio
Ai margini dei fatti di capodanno in Colonia. È uno schema storico
vecchio quasi quanto la civiltà: giunte a un certo livello di sviluppo
economico, politico e istituzionale, le realtà internazionalmente
egemoni cercano di rinnovare lo sviluppo esportando all'esterno le
contraddizioni più brucianti, sotto forma di sottosviluppo. L'impero
romano e bizantino sono stati esemplari in questo.
Questo avviene ancora con maggiore precisione scientifica, più attenta
e consapevole programmazione. Questa attenzione e precisione
scientifica derivano in parte dall'esperienza storica acquisita e in
parte dalla tipologia di sviluppo che si intende rinnovare. Per romani
e bizantini il problema era evitare carestie e crisi agricole,
attraverso l'uso di potenti strumenti di coercizione extraeconomica
sulle economie della loro periferia non pacificata; per i
paesi capitalisticamente egemoni il problema è esportare parte della
produzione obsoleta dal punto di vista dei paradigmi ecologici e
tecnici verso le aree non – egemoni, rinunciando anche alla originaria
nazionalità di quella produzione, quando e dove necessario.
Questo spostamento permette di ubicare l'antagonismo tra capitale e
lavoro, incarnato dal conflitto tra operaio massa e fabbrica
taylorista, al di fuori degli ambiti degli stati nazionali egemoni.
Questo spostamento permette, inoltre, di coltivare all'interno dei
confini nazionali nuovi paradigmi ecologici e produttivi e una nuova
tipologia di sviluppo, permette l'appropriazione di quello che fino a
pochi decenni fa non era un valore: del tempo di vita, dell'etica,
dell'intelligenza individuale e collettiva e della comunicazione
sociale, delegando gran parte del comando della forza lavoro manuale e
operaia e dell'estrazione del valore tradizionale agli stati nazionali
'arretrati'.
Questo spostamento non deve essere pensato come una semplice
esportazione; il capitalismo non riproduce l'operaio –
massa nel sud del mondo così come era stato nel nord del mondo:
il lavoro di fabbrica non è ora fonte di sviluppo ma sorgente e causa
di sottosviluppo, non produce, come in Europa e America tra XVIII e
XIX secolo, modernizzazione ma un suo surrogato, una sua imitazione,
per il semplice motivo che la natura dell'attuale modernità non è
quella modernità.
Il rapporto di lavoro salariato, costituito sulla legge del
pluslavoro, non riesce a egemonizzare le economie periferiche (Sud
America, Africa, paesi arabi, Cina e India) dove, pure, si sviluppa
pienamente; il fabbrichismo non determina in quei paesi i fenomeni
politici tipici delle democrazie parlamentari, poiché non si associa a
elementi che sono stati fondamentali per la formazione di quelle (un
ceto intellettuale diffuso e anch'esso vicino e limitrofo al lavoro
dipendente) e il superamento di un'identità sociale basata sulla
tribalità, la famiglia allargata e la comunità locale (l'immaginario
tribale, l'immaginario dispotico e l'immaginario collettivista
asiatico). Il fabbrichismo si presenta ed è nelle aree non – egemoni
un'appendice del capitalismo internazionale, un salario di
sopravvivenza senza ricadute sul territorio e senza un allargamento
della domanda di beni. La fabbrica è una colonia.
Allo stesso tempo e naturalmente, il modo di produzione di fabbrica
subisce, esattamente come quello che rimane operante nei paesi
capitalistici egemoni, la concorrenza del nuovo modo di produrre e
l'influenza delle sue tipologie. La concorrenza del nuovo modo di
produrre egemone nei paesi 'sviluppati' si coniuga anche nei paesi
'arretrati' al fabbrichismo e fa sentire la sua influenza non solo sul
modo di produzione di fabbrica ma anche sull'intera società,
coniugando sviluppo e sottosviluppo in forme pittoresche e inusuali,
per la gioia di qualche letterato.
Molti potrebbero interpretare questo scenario come il risultato della
resistenza degli stati nazionali egemoni allo sviluppo, al nuovo modo
di produrre e di creare valore e alla definitiva
internazionalizzazione del mercato del lavoro e della produzione; gli
stati nazionali egemoni continuerebbero, quindi, per affermarsi e
mantenere la loro identità e ruolo a esportare le loro debolezze e
criticità verso le aree nazionali deboli e sottosviluppate, verso i
figli di un dio minore. Esisterebbe un antagonismo tra stato nazionale
e capitalismo globale, una diversità di vedute, strategie e obiettivi.
Non è affatto così. Su questo terreno, il terreno della
redistribuzione dei paradigmi produttivi e tecnologici, il capitalismo
globale, il biocapitalismo, come amo definirlo, è in maniera assoluta
legato e coessenziale alle politiche degli stati nazionali. Serve,
infatti, una concertazione internazionale, istituita secondo le
vecchie metodiche del mondo diviso in nazioni, per governare e
programmare la distribuzione di sviluppo e sottosviluppo.
Certamente il capitalismo è cambiato e questo cambiamento non è tanto
recente, come invece ancora molti ritengono, ma affonda le sue radici
e i suoi elementi di fondo nel welfare state di Roosvelt. Da
allora i vecchi stati nazione hanno iniziato a essere nuovi e hanno
cessato di essere il prodotto remoto dello stato nazionale e
dinastico della modernità europea.
Il capitalismo contemporaneo attraversa le nazioni, frantuma
indiscutibilmente antiche territorialità e omogeneità, divide e separa
quello che un tempo, in nome della geografia amministrativa, appariva
inscindibile, e quindi ha costretto e costringe ancora di più oggi la
nazionalità a rinnovarsi, ma continua a riconoscere nel vecchio stato
nazionale, evoluto e non evoluto, un interessante strumento
istituzionale, politico e ideologico.
Il sottosviluppo può contribuire allo sviluppo solo se si presenta
come metro stesso dello sviluppo, la cui misura sono ancora gli stati
nazionali. Il sottosviluppo diviene il rischio di un processo esterno
allo stato nazionale che può minarne la stabilità, ma anche il timore
di qualcosa di esterno che possa diventare interno, contaminandone
l'identità; lo stato nazionale rimane indispensabile misura del
rischio economico e della mobilità culturale ed etnica. Lo stato
nazionale rimane un mappa nautica indispensabile alla navigazione,
poco importa che non sia più aggiornata, importa che rimanga come
misura per i diversi metri economici, politici e culturali.
Solo grazie al mantenimento della misura, distesa all'interno dello
stato nazionale, alla sua formazione, genesi, storia e via
discorrendo, è possibile costituire la dialettica tra sviluppo e
sottosviluppo, tra immagine della ricchezza e della povertà, della
libertà e della tirannia. È una falsa misura? Certamente. Ma è una
misura ancora in uso e dunque vera.
Qui è necessario eseguire uno scarto analitico e andare verso
l'immaginario e l'immaginazione sociale, la soggettività generica che
rivela questo processo come un processo problematico, quale
effettivamente è.
La corrispondenza tra immaginario e immaginazioni e realtà economica e
culture tecniche e produttive è un tratto distintivo della nuova
modernità, la complessità degli immaginari rispecchia la complessità
delle forze produttive e la loro disaggregazione e aggregazione
continua.
Il timore del ritorno all'economia del passato, a un economia della
privazione e della penuria, insieme con il timore di una progressiva
perdita delle politiche egualitarie tra i generi, anima questa
dialettica intellettuale tra sviluppo e sottosviluppo, che se non
trova una relazione con la nazionalità, la sua costituzione e la sua
storia, difficilmente potrebbe essere scritta; la nazionalità, le sue
conquiste storiche sono e rimangono la misura dello sviluppo. La
nazionalità, però, è animata anche da timori opposti, quelli che
paventano la fine dell'identità economica e finanziaria delle nazioni
e la dissoluzione delle economie fondate sul lavoro (fatti
inequivocabili) che comporterà anche e quindi la fine dell'etica e
della morale: qui lo stato nazione non è solo misura ma anche metro.
Si tratta delle declinazione della stessa inadeguatezza analitica:
sviluppo e sottosviluppo non sono intesi come elementi dello stesso
processo, ma il processo si qualificherebbe, per entrambi i fronti,
solo attraverso lo sviluppo.
Il sottosviluppo, al contrario, ha una funzione vitale per il
biocapitalismo: senza la povertà, banalmente, non può essere
ricchezza, senza nazioni povere, modernizzate ma incapaci di modernità
e nazionalità, non possono essere nazioni ricche, moderne nel senso
nuovo, vale a dire moderne e capaci di superare la vecchia modernità e
la nazionalità a quella legata. Paradossalmente, come senza
sottosviluppo non può esistere sviluppo, così senza nazionalità non è
immaginabile e programmabile il suo superamento. È il paradosso del
biocapitalismo o del capitalismo globalizzato, se si preferisce il
termine.
Questa è un'antinomia che percorre continuamente, in maniera costante,
puntuale e tempestiva il mondo contemporaneo; questa antinomia scende
nell'immaginario, pervadendolo attraverso moltissimi strumenti, media
e messaggi, con una ridda contraddittoria e disorientante che proprio
perché tale ha la capacità e di comportarne l'interiorizzazione
collettiva e singolare, secondo gradienze diverse e quindi secondo
un'ulteriore dispersione e disorientamento.
La modernizzazione incompiuta, al contrario, nei paesi o nelle aree
del sottosviluppo, fa il lavoro del sarto: riveste le vecchie
ideologie e tradizioni culturali e religiose che non hanno, si badi
bene, una base compiutamente nazionale; cose del passato, tribalismi,
genealogie, legami dinastici e dispotici assumono l'aspetto del
moderno e le corrispondenti culture si assumono anche i compiti del
pensiero moderno. La famosa legge dello sviluppo diseguale che si
realizzava su singoli segmenti del processo storico, ora innerva
l'intero processo.
Le ideologie religiose, che nella modernità precedente erano state
costrette a una parte della cultura, in una frazione tendente al
personale e individuale, perdendo terreno nell'immaginario e
nella progettazione sociale, hanno assunto, in quest'ultima modernità,
l'aspetto viscerale ed esclusivo che possedevano all'origine
(ebraismo, cristianismo e islam) o se questo gli era estraneo, lo
hanno importato (induismo e buddismo). Questa visceralità esclusiva ha
conquistato la ribalta dell'ideologia, la programmazione sociale, un
disegno ecumenico che, però, si dispone verso la politica
immediatamente e semplicisticamente, ignorando molte fasi intermedie
della maturazione ideologica e della progettazione sociale e politica.
Per cogliere un esempio, nel mondo del sottosviluppo l'islam diviene
un generico e incompiuto pensiero anticapitalista, quindi
moderno, unito a un etica dei generi e del lavoro arcaica; non si
tratta di un ibrido, di una contaminazione insulsa, ma del modo di
essere del biocapitalismo in alcune aree geografiche, caratterizzate
da un particolare sostrato storico e culturale. Aspirazioni critiche
contro il capitalismo e difesa di etiche pre – moderne si fondono.
Spesso le chiese cristiane percorrono un percorso simile e analogie le
possiamo reperire in alcune componenti moderne dell'induismo.
Certamente, quindi, la modernizzazione del sottosviluppo provoca la
trasformazione delle ideologie religiose in ideologie politiche, in
modi di essere della politica. La riscoperta della potenza politica
delle religioni non è affatto un ritorno alla prima epoca moderna e
alla riforma protestante e cattolica, anche se in parte gli
assomiglia, ma registra un nuovo campo di azione della politica,
totalizzante che interessa la vita privata e pubblica, singolare e
sociale dell'individuo, che coinvolge la vita dell'individuo quasi in
essenza. È questo uno dei volti e dei portati del biocapitalismo.
È un processo generale che riguarda lo sviluppo e il sottosviluppo,
solo per noi molto più evidente, in ragione del nostro eurocentrismo
culturale, nei paesi dominati dalle economie del sottosviluppo, dove
le ideologie fondamentaliste, di qualsiasi segno religioso, hanno
assunto l'aspetto di un nazismo per i popoli delle aree povere e di un
socialismo senza lotta di classe, nello stesso tempo. Lì, in quelle
aree, l'odio di classe, negato, viene però sublimato in un odio di una
parte delle nazioni contro altre nazioni, di alcuni popoli contro
altri popoli e di alcune culture contro altre culture. I popoli
poveri, dotati di una vera fede e di una vera morale, quasi imitando
le fraseologie fasciste e naziste dell'Europa novecentesca, si
prenderanno riscatto dei popoli ricchi, privi di fede, di morale e di
principi etici.
Questo nazismo religiosamente fondato per le nazioni, comunità e aree
povere, unito al socialismo senza critica sociale è l'opposizione più
semplice e comoda che i paesi egemoni capitalisticamente potessero
desiderare, non solo al di fuori, ma anche al loro interno; il
biocapitalismo domina e governa, informandole di sé, le contraddizioni
che crea: diviene modo di vivere, diviene anche critica antagonista.
Il biocapitalismo ha suscitato questa apparente regressione,
regressione autentica per chi rimane legato all'eurocentrismo
culturale, perché è la risposta in forma arcaicizzante, adeguata
all'area e alle popolazioni del sottosviluppo, alla modernissima
esigenza di controllo dei corpi e delle vite, dei desideri e delle
pulsioni, della comunicazione e dell'etica.
Un tempo si sarebbe detta un'opposizione di sua maestà, dove il
monarca, però, non ha corpo, non ha partito, non ha istituzione, ma è
un processo economico senza volto, un processo astratto e un monarca
astratto. L'opposizione di sua maestà inorridisce a questa
astrattezza, che pare voler competere con il suo riscoperto divino, e
pretende allora di disegnare volti, partiti e istituzioni per quel
processo, di personalizzarlo e territorializzarlo, di interpretarlo
come un complesso di persone e di nazioni malvagie e nemiche.
Il fondamentalismo pretende di far tornare il mondo indietro, solo
descrivendolo e descrivendolo come sarebbe potuto essere descritto un
tempo. Questa descrizione ha successo perché è semplice e rende
semplici alla comprensione le cose del mondo, nascondendo il conflitto
reale e necessario, ma inspiegabile secondo i parametri semplici, per
sostituirlo con uno verosimile e possibile.
Questa opposizione semplificata entra anche nei territori ricchi,
nelle nazioni egemoni, in primo luogo come segno del sottosviluppo e
delle popolazioni in fuga dalle aree di quello, ma anche come segno
affascinante di una nuova modernità, una modernità ultima che riscopre
il passato che l'ha preceduta e la vuole unire a sé,
rivificandola. Esemplare il percorso della chiesa cattolica da papa
Giovanni Paolo II in poi, sotto questo profilo, ma anche di movimento
mistici indigeni e non, di sette cristiane, di comunità buddhiste,
induiste e via dicendo, dove la visceralità esclusiva è elemento
fondante, che contraddistingue questi fenomeni, seppur molto
differenti tra loro.
Il nazismo per i paesi, le nazioni, le aree, le comunità e le
popolazioni povere si diffonde come strumento di identità non
necessariamente nazionale nel sottosviluppo, e come strumento di
frantumazione e scollamento delle identità nazionali, verso nuove
forme identitarie, nei paesi egemoni.
Venerdì, 8 gennaio
Ai margini dei fatti di capodanno in Colonia. Il modo di diffondersi
di idee, atteggiamenti mentali e comportamenti sociali è molto
cambiato in questi cinquant'anni: la diffusione ha perduto l'aspetto
univoco, spesso è policentrica, sempre imita la policentricità pur
mantenendo una sostanza monocentrica, e sempre si serve autenticamente
di strumenti policentrici e reticolari. L'elemento decisivo non
risiede nella sostanza, ma nell'apparenza policentrica, sulla sostanza
ci sarebbe molto da ragionare e quantomeno bisognerebbe presupporre
una dialettica e confronto tra quella e l'apparenza.
Le barriere nazionali, vero ambiente e caposaldo della diffusione
ideologica, comportamentale e culturale univoca, in questo contesto,
comunque, contano davvero poco e sono del tutto inadatte anche a
gestire la dialettica tra apparenza ed essenza della reticolarità. Il
contesto policentrico e reticolare è il risultato della
compenetrazione continua tra diverse aree, diverse sotto il profilo
economico, produttivo e demografico. C'è un rispecchiamento tra
reticolo e compenetrazione, anche se è, ovviamente, imperfetto.
I fondamentalismi si diffondono da nazioni a nazioni, da nazioni
povere verso nazioni ricche ed egemoni, ma, nello stesso tempo,
originano anche, in maniera indipendente e auto generativa, nelle
nazioni egemoni, perché vivono nel medesimo ed essenziale brodo
di coltura che è l'economia e la socialità progettata dal
biocapitalismo. Questa è la dialettica culturale del biocapitalismo.
Nei paesi egemoni il fondamentalismo, al di là delle forme ideologiche
e dei riferimenti che assume (pensiero liberale, neo – cristianesimo,
escatologie diverse) sacralizza e rende trascendenti lo stile di vita
raggiunto, le abitudini acquisite, in quanto divengono la
realizzazione del senso stesso della storia, lo scopo del cammino
stesso dell'umanità. È una convinzione di massa, condivisa e un
sistema di valori antropologici; è un sistema di valori antropologici
nel senso che su alcuni di quelli, presi singolarmente, tenuti
separati gli uni dagli altri, si può anche sindacare, discutere e
introdurre innovazioni e cambiamenti, ma sul complesso generale, sulla
sua collocazione, peso e ruolo nella vita sociale generale,
sull'economia generale, sulla stessa idea del mondo non si è disposti
a nessun compromesso. L'idea secondo la quale l'umanità vive di
progressivi rischiaramenti, crescita di sé, è parte ineludibile di
questo sistema di valori. Nel mondo dell'immanenza esiste una
trascendenza, ed è, per i fondamentalismi ricchi, la
consapevolezza di sé raggiunta dai paesi economicamente egemoni, che
rappresenta nel migliore dei modi possibili, nella maniera più
adeguata possibile, la storia del mondo e dell'uomo.
I fondamentalismi poveri, per forza di cose, non condividono
questa teleologia; il mondo dell'immanenza come progressivo
miglioramento e rischiaramento dell'umano è per quelli bugia e prova
provata di quanto la menzogna, la falsificazione della realtà abbiano,
finora, dominato il mondo e di come il mondo sia nemico.
I fondamentalismi poveri sottolineano il conflitto, quelli
ricchi la pacificazione. Il conflitto in quelli è una necessità
immanente per la costruzione di un nuovo piano trascendente; la
pacificazione, nei fondamentalismi ricchi, sottolinea la
sintesi, la trascendenza che richiede il conflitto per il motivo
opposto, la difesa del piano immanente sulla quale si fonda.
I fondamentalismi poveri sottolineano l'impossibilità di uscire dal
sottosviluppo e disegnano il sottosviluppo come valore, i
fondamentalismi ricchi sottolineano la possibilità del superamento
delle contraddizioni tra sviluppo e sottosviluppo.
In entrambi i casi, lo sviluppo e il sottosviluppo sono dati come
momenti inevitabili, stati necessari, e in entrambi i casi non si
mette in discussione la tipologia dello sviluppo. Vanno radicalmente
rivisti gli assiomi del marxismo ortodosso e classico, che è stato per
molti aspetti una forma di fondamentalismo incapace di criticare la
logica dello sviluppo e che, spesso, ha preso le parti della sintesi e
della trascendenza, altre volte quelle del conflitto e dell'immanenza.
Alle volte il pensiero marxista ha ritenuto che solo spingendo il
piede sull'acceleratore dello sviluppo o altre volte solo facendo leva
sulle forze e resistenze del sottosviluppo si potesse giungere a una
sintesi finale e alla realizzazione dei destini dell'umanità.
Uso la categoria di fondamentalismo come una figura retorica, come una
semplificazione, un'inadeguatezza ma efficace, verso un'efficacia che
dovrebbe comportare, al contrario, una terribile complessità.
Proseguendo in questa semplificazione, lo sviluppo del capitalismo
globale, anche perché è uno sviluppo biocapitalista, porta con sé la
crescita di fondamentalismi poveri (quelli che fanno della povertà un
valore assoluto e una garanzia di etica e moralità) e ricchi (quelli
che fanno dei relativi livelli di agiatezza economica, di raffinatezza
intellettuale, una garanzia etica e morale opposta). Questo sviluppo,
però, porta con sé anche la visione realistica o addirittura
materialistica della fine dell'immanenza, vale a dire della fine del
senso della storia e degli scopi dello sviluppo storico. È il cuore e
l'incubo più profondo, quasi inconscio, del biocapitalismo.
Questo incubo e cuore può darsi anche nella realtà, manifestarsi al di
fuori del sogno, come una guerra civile mondiale strisciante o una
crisi economica costante, come guerra civile e crisi che diventano
strumenti, forme e abiti dello sviluppo; dal punto di vista classico
uno sviluppo senza sviluppo.
Si interseca a questa visione realistica, se non addirittura
materialistica, la critica all'unità del diritto; l'unitarietà del
diritto è stata uno dei fondamenti dell'unità e identità degli stati
nazione. In base a questa idea giuridica, abbastanza recente e vecchia
di appena tre secoli, uno scenario sociale, per essere tale, doveva
fondarsi su un'uniformità giuridica, realizzata su base geografica,
che poteva anche dividere la società ma orizzontalmente e non
verticalmente.
L'unitarietà del diritto non era propria del diritto romano, quanto
meno non era l'elemento centrale in quello; il mondo giuridico romano
prevedeva che alcune componenti e frazioni delle leggi, delle
definizioni delle colpe e della statuizione delle pene fossero gestite
in maniera diversificata a seconda delle aree geografiche, delle
province, dell'etnia, del lignaggio e dello stato sociale del soggetto
giuridico. Un Ebreo in Roma viveva secondo un diritto diverso da
quello ebraico della Palestina e le cose cambiavano ulteriormente in
funzione del suo stato sociale, se era donato di cittadinanza oppure
no, se alla sua comunità era riconosciuta una soggettività giuridica
oppure no, e via dicendo. Gradienze e gradazioni diverse costellavano
l'applicazione del diritto in Roma imperiale.
Il cinismo biocapitalista, o meglio il realismo e per certi versi il
materialismo biocapitalista non colloca l'unitarietà del diritto tra i
valori irrinunciabili per lo sviluppo; qui si contrappone allo stato –
nazione. Lo stato nazionale è unitarietà e assimilazione
nell'unitarietà; la tendenza statuale biocapitalista, il potenziale
farsi stato del biocapitalismo, non ha fondazione necessaria
nell'unitarietà dei diritti, anzi volge verso la compresenza e
frequentazione di diritti singolari e particolari. I
fondamentalismi opposti, attraverso la guerra civile mondiale
teatralizzata e realizzata in forme mediatiche, difendono, seguendo
inclinazioni, metodologie e fascinazioni diverse e spesso opposte, la
conservazione dell'unitarietà del diritto.
Domenica, 24 gennaio
Annotazione. Negli anni novanta, in Italia, succedono due cose,
importanti: finisce la prima repubblica (o fa il verso di finire, ma
poco importa ai fini analitici di questi pensieri) e viene siglato
l'accordo sul costo del lavoro. Sono importanti per inquadrare
l'emergenza di una nuova tipologia di relazioni di lavoro, che
indirizzano lo sviluppo del nuovo soggetto operaio sotto il profilo
della normativa contrattuale. Le spinte sociali degli anni '70 e '80
per l'abbandono del lavoro dipendente inteso in senso stretto, normato
contrattualmente, trovano nei novanta un canale di sbocco naturale e
integralmente subordinato alle regole del mercato. La fuga dal lavoro
contrattualmente normato diventa, ora, l'immediata e non normata
relazione con il mercato del lavoro e delle merci.
La disgregazione di una ancora piccola parte dello Stato sociale,
sancita e santificata ideologicamente dalla rivoluzione dei
magistrati, da tangentopoli e dalla conseguente messa sotto
accusa mediatica della prima repubblica, si sposò con una politica di
bassi salari che ha slegato irreversibilmente il principio del reddito
da quello della retribuzione del lavoro, come era stato già anticipato
dall'abolizione della scala mobile nel 1984. Il lavoro dipendente
tradizionale nel settore privato si avvicina alle nuove forme di
retribuzione e di controllo del lavoro che erano state sperimentate
nel lavoro esternalizzato dal settore pubblico negli anni ottanta e
che hanno oggettivamente funzionato da laboratorio contrattuale e nel
comando d'impresa.
Il taylorismo perde la sua sponda keynesiana, rappresentata dal
reddito complessivo slegato parzialmente dalla produttività grazie
alla fornitura pubblica di servizi sanitari, educativi ed
assistenziali in regime di quasi gratuità. Non è la domanda, ma
l'offerta ad essere sostenuta e lo stesso modo di produzione di Taylor
diviene inadeguato, la produzione di massa viene riformata e rivista.
Si diffonde il just in time, l'azzeramento del magazzino e
la flessibilità delle linee di montaggio: la produzione operaia cambia
volto, insieme con il lavoro operaio di fabbrica. Ma soprattutto
cambia il modo di stare dei produttori nella società, oltre che nella
produzione stessa.
I primi anni novanta, in Italia, ebbero davvero un aspetto
storicamente rivoluzionario: cambiava una piccola parte della
costituzione formale, soprattutto nelle forme della rappresentanza
politica (evidenziata ma non riassunta dal passaggio dal sistema
proporzionale a quello maggioritario), ma cambiava autenticamente la
costituzione reale. Si registrava, quasi di un tratto e quindi appunto
in maniera rivoluzionaria, la trasformazione che si era insinuata nei
quindici anni precedenti, tra 1975 e 1990.
Sabato, 30 gennaio
Annotazione. Presero corpo in forma nuova, nei novanta, le tendenze
all'autoimprenditorialità che si erano espresse fin dai secondi
settanta.
Sono centrali queste nuove forme: l'autoimprenditorialità (in verità
parola un poco vuota ma utile in questo caso per distinguerla
dall'imprenditorialità tradizionale e 'storica') perse la carica
critica nei confronti del lavoro salariato che l'aveva animata nei due
decenni precedenti e cessò di legarsi alla soggettività politica
dell'operaio – massa, quando, invece, questo legame aveva determinato
l'incredibile combine antagonista, quella sorta di comune di Parigi,
frazionata istituzionalmente e distribuita
geograficamente tra Roma, Milano e Bologna, durante le annate 1975 –
1977.
Non furono, dunque, nuove forme marginali, secondarie come lo è il
prodotto di una sottocultura politica e sociale: il rifiuto del lavoro
salariato, del lavoro regolato contrattualmente, del lavoro
dipendente, era stato, infatti, il tratto unificante tra vecchia e
nuova composizione di classe, o, meglio è scrivere, tra il passato che
resisteva e il futuro che iniziava a organizzarsi insieme con esso. Il
rifiuto del lavoro si trasformò, grazie a questa frattura e divorzio,
necessariamente in sempre più generico elogio all'attività contro il
lavoro, alla libertà del mercato contro la schiavitù del salario. Il
lavoro slegato dal comando di fabbrica e da uno dei suoi strumenti, la
norma contrattuale, non diventava libertà dal lavoro salariato ma solo
libertà dalla norma contrattuale, dalla coercizione collettivizzata.
Non accadde, quindi, che accanto alla vecchia classe operaia fordista
si collocò una nuova classe operaia; accadde, invece, che si trasformò
generalmente il modo di lavorare, di intendere il lavoro e di essere
forza lavoro. I vecchi aggettivi validi a circoscrivere l'esperienza
operaia decaddero fino al punto di rendere difficile la definizione di
classe operaia. I quadri statistici sull'occupazione non possono
rilevare questa trasformazione, perché fu il modo stesso di stare
nell'occupazione, di essere occupati, di avere e subire una condizione
contrattuale, di stare nel lavoro oppure di essere nella
disoccupazione e di stare senza una condizione contrattuale normata a
cambiare radicalmente.
Non si trattava più di nuovi e vecchi soggetti, di avanguardie e
retroguardie sociali (e magari politiche) ma di un nuovo contesto
generale, dentro il quale era ed è ancora oggi inadeguato e
mistificatorio scrivere di soggetti sociali.
L'accordo sul costo del lavoro riduceva la variabile operaia, anzi
l'ha azzerata, mentre la deregolamentazione economica produceva una
pioggia di appalti ed esternalizzazioni che favorivano nuove
mentalità operaie e nuovi soggetti. L'impresa si decentrava e con essa
la normativa del lavoro si frantumava.
Molti, legandosi ancora al tradizionale discorso sui soggetti sociali
e cercando di rivitalizzarlo, hanno sottolineato come il capitalismo
cognitivo e il lavoro immateriale sono stati centrali in questo
processo; tutto questo permetteva di individuare e circoscrivere un
segmento di produzione, dotarlo di un ruolo trainante e
costituire ideologicamente un nuovo soggetto proletario. A parte il
fatto che, precisamente come il termine autoimprenditorialità,
capitale cognitivo e lavoro immateriale sono concetti un poco vuoti,
che contengono in sé stessi il loro inizio e la loro fine, concetti
che si autodistruggono, la mia percezione è che tutto l'involucro
produttivo, ma non solo quello ma l'intera socialità, venne in quel
decennio coinvolto in una trasformazione profonda.
Certo è possibile, anzi necessario, continuare a individuare segmenti
e settori sociali, ma non più in termini di soggetti compresenti e di
composizione. Se si fosse costretti a ragionare in termini di soggetti
e composizione sociale si dovrebbe scrivere che i cambiamenti
intervenuti negli anni novanta (sto scrivendo dell'Italia) hanno
provocato la costituzione di un unico soggetto proletario, che però
non è una composizione, perché non è minimamente unitario, e che
quindi, seppur utile dal punto di vista di un analisi filosofica, è
pressoché inutilizzabile in quella economica e politica e, dunque,
alla fine, non è un soggetto sociale ma antropologico.
Segmenti e segmentazioni ve ne sono state, molto spesso in stridente
contraddizione con il nuovo concetto del lavoro come attività, tanto
nel mondo delle fabbrica, più spontaneamente connaturato ad ospitare
questa contraddizione, quanto in quello della cosiddetta nuova
economia.
È comunque innegabile che il modo di produzione di fabbrica, la
tendenza alla segmentazione e semplificazione delle mansioni, ha in
parte abbandonato la fabbrica; è, però, altrettanto innegabile che la
segmentazione, parcellizzazione e semplificazione delle mansioni
lavorative sono state esportate e ancora oggi resistono e
funzionano bene, dal punto di vista del comando d'impresa,
nell'amministrazione e nei servizi per le / nelle imprese.
È oggi corretto analizzare il tradizionale lavoro di ufficio (il front
e back office, la produzione documentale, l'archiviazione,
l'euristica) nei termini di un lavoro produttivo, svolto quasi in
termini tayloristici. Il taylorismo è migrato. Questa è certa
conseguenza, molto specifica, di una condizione generale, secondo la
quale anche l'informazione aziendale è un prodotto, nel senso di un
bene, di un valore di scambio e non solo d'uso, anche se, ovviamente,
il suo valore non è misurabile con la medesima scienza del valore di
scambio fisico e materiale. Scriverei, però, che tende a quella
scienza.
Mentre la scientifica misurazione del valore di scambio abbandona la
produzione manifatturiera, approda a quella intellettuale,
coinvolgendo il lavoro subordinato e comandato direttamente, spesso
precisamente normato dalla contrattualistica su base oraria, dentro le
strutture amministrative delle aziende. Il taylorismo è entrato nel
mondo degli impiegati.
Anche nell'eccezione tayloristica del nuovo modo di lavorare
impiegatizio si rientra a buon diritto e senza conflitti sistemici nel
nuovo mondo e scenario sociale: il modo di misurare il lavoro
comandato direttamente dal capitale attraverso il sistema del comando
di impresa è cambiato e anche là dove il comando di impresa e
contrattuale è rimasto rigidamente legato alla concezione della base
oraria per la retribuzione, all'idea di tempo di lavoro, la sua misura
non fa riferimento (e non può ovviamente farlo per la natura stessa
del prodotto nel caso dell'impiegato) alla misura oraria del lavoro
vivo necessario.
Se esiste l'operaio sociale, questo soggetto indimostrabile, abbiamo
scoperto la sua prima caratteristica dopo l'indimostrabilità e che
presuppone l'indimostrabilità, la non unitarietà. L'operaio sociale è
indimostrabile perché non è unitario e quindi non si
presenta come un soggetto.
In Italia questo nuovo soggetto si è affermato concretamente negli
anni novanta, rovinando, per la sua stessa natura, tutti gli altri
soggetti proletari, risucchiandoli, polarizzandoli e spezzettandoli.
Negli anni novanta, in Italia, l'operaio sociale è uscito da una
metaforica minorità storica e la sua affermazione è la niente affatto
lineare conseguenza di uno cambiamento complesso e complessivo, ma
privo di aspetti unitari e dialettici, dello scenario economico,
politico e istituzionale.
Le caratteristiche di cognitività e immaterialità delle risorse e del
lavoro che sono associate solitamente a questo soggetto vanno
ridimensionate: la fondazione del soggetto è anche una conseguenza di
quelle ma non si basa su quelle.
Se intendiamo inoltre ridurre l'analisi sul soggetto indimostrabile
verso la costituzione e l'incontro con un soggetto sociologicamente e
politicamente tendente all'omogeneità, potenzialmente omogeneo, che
cammina verso una precisa direzione politica e ideologica e verso una
determinata composizione di classe, quindi, appunto con un soggetto
sociale, corriamo il rischio di dover fare dell'antropologia, scienza
affascinante, ma fuori dai nostri scopi iniziali. Questo deragliamento
potenziale è, comunque, eloquente.
Domenica, 31 gennaio
Annotazione. In Italia, negli anni '90, attraverso le nuove leggi
elettorali, gli accordi tra governo e confederazioni sindacali e la
rivoluzione apparente di tangentopoli, non si è affermato solo un
nuovo quadro politico e ideologico, ma anche un nuovo concetto di
cittadinanza.
Se le caratteristiche dell'operaio sociale non disegnano un nuovo
soggetto sociale e una nuova composizione di classe, ma un generale e
sociale approccio al mondo, al mercato e al lavoro, allora la sua
affermazione deve necessariamente accompagnarsi con un cambiamento
strutturale e, per usare un'aggettivazione storica, epocale.
Questo non perché, secondo una regola storica abbastanza ovvia, a una
composizione di classe corrisponde una forma di comando sull'economia
e di dominio politico, ma perché, senza voler introdurre nessuna
deroga a questa regola generale e per me incontestabile, banale e, lo
ripeto, ovvia, le trasformazioni che hanno determinato la comparsa di
questa nuova composizione di classe, di questo soggetto indimostrabile
(in Italia negli anni '70, ma negli Stati Uniti possiamo
tranquillamente retrodatare agli anni cinquanta questa epifania) sono
state molto più ampie, generali, che nel passato del capitalismo e
forse della storia dell'umanità. Insomma la mia impressione è che
questa nuova composizione di classe sfugge all'analitica che,
tradizionalmente, nel marxismo, conduceva a individuare una
composizione di classe. Oggi la composizione di classe stessa richiede
un marxismo oltre il marxismo, una specie di Marx oltre Marx e la
scelta di quel titolo da parte di Negri, per un suo testo degli anni
ottanta, fu, secondo una modalità che certamente Negri non aveva
immaginato, profetica.
L'Italia ha avuto la sua parte di questo cambiamento e l'ha reso, a
suo modo, visibile; ha rispettato in questo la sua storia particolare,
la sua particolarità, che appariva dominata da un sostanziale
immobilismo istituzionale e politico (la costituzione del 1948, il
regime democristiano prima e poi i governi di pentapartito), lungo
mezzo secolo. A fondare la costituzione italiana era stato uno
scenario contraddistinto non solo dalla fine della guerra ma di una
guerra civile e necessariamente la costituzione italiana ha avuto una
fondazione e una genesi forte, in quanto testimonianza e
sanzione del superamento di una guerra intestina ed esterna la cui
riproposizione doveva essere scongiurata. La costituzione e la
repubblica italiana, quindi, sono stati i prodotti di una rivoluzione
politica, della fine del fascismo, della dittatura, dell'affermazione
del suffragio universale e della distribuzione della rappresentanza in
maniera rigorosamente democratica, la distribuzione dei seggi secondo
il sistema proporzionale.
Il passaggio dalla prima alla seconda repubblica è stato, dunque,
morbido e secondo i metri europei apparente, proprio per questa genesi
della democrazia parlamentare e repubblicana; ma non per questo non è
stato un passaggio concreto e dalla sua morbidezza e dal sostanziale
rispetto della struttura costituzionale emersa nel 1948 mantenne
anche nei novanta la peculiarità politica del nostro paese, lo
scombinamento dei concetti di destra e sinistra e la polemica, spesso
rovesciata ed emersa fin dagli anni ottanta, tra conservatori
e riformatori.
Il concetto di cittadinanza, difeso dai costituenti nel 1946, era, dal
punto di vista del cittadino inteso come soggetto sociale, quello di
una partecipazione necessaria al mondo del lavoro e alla distribuzione
del reddito attraverso il lavoro. Il fatto di essere cittadino doveva
essere garanzia di una relazione protetta con le forze economiche
e mediata con il mercato.
Negli anni novanta, anche se i riferimenti formali a questa concezione
non furono abrogati, la costituzione reale rese il cittadino in
diretto rapporto con il mercato, precisamente come il lavoro
salariato, nelle sue diverse espressioni, andava verso un rapporto
immediato con l'economia di mercato.
La cittadinanza, da valore che precedeva il mercato, è diventata
valore che lo segue e che da esso è validato in quanto valore.
L'innegabile senso autoritario del sistema elettorale maggioritario,
che sposta il momento della definizione delle ipotesi di governo a
prima del confronto elettorale, è in qualche maniera analogo a questo
spostamento del valore della cittadinanza, almeno in Italia e tenendo
conto della storia istituzionale italiana.
La democrazia rappresentativa, anche in Italia e con qualche decennio
di ritardo rispetto agli altri paesi egemoni nell'occidente, si è
fatta tra la fine degli anni ottanta e i primi novanta un'istituzione
autoritaria dotata di un consenso di massa.
Mentre ancora negli anni ottanta la riscoperta del mercato era un
fenomeno di una piccola minoranza dei soggetti produttivi, di una
minoranza che, per una relativa libera scelta, abbandonava il mercato
del lavoro normato contrattualmente, nel decennio seguente divenne un
fenomeno di massa. Riuscire ad affrontare direttamente il mercato,
fare impresa, associarsi per mettersi in proprio fu una tendenza già
presente negli anni ottanta, ma sposata a una serie di finanziamenti
pubblici, a un welfare, che favoriva la formazione di
microimprese. Negli anni ottanta, quindi, la mediazione stabilita
dalla costituzione nel rapporto con il mercato era costitutiva anche
per l'autoimprenditorialità e si affermava in settori scelti e
programmati: il settore dei beni culturali, il mondo dell'informatica
e pochi altri. La mediazione con il mercato si coniugava alla crescita
di iniziative microimprenditoriali e / o cooperativistiche nei settori
che presto sarebbero stati detti della produzione cognitiva e
immateriale (assistenza ai disabili, a problematici psicologici ed
emotivi, portatori di handicap, oltre ai tradizionali
settori del lavoro culturale e dell'informazione). Nasceva, quindi, in
questi anni anche il concetto (non ancora il termine) di lavoro
affettivo.
La traccia del grande impulso fornito dai movimenti dei due decenni
appena trascorsi, verso il rifiuto del lavoro salariato e soprattutto
del lavoro manuale e alto contenuto fisico, era ancora tangibile e
forte e, in controluce, si potevano ancora vedere quelle vecchie
aspirazioni ideali e nelle biografie, molto spesso, gli stessi
protagonisti.
Negli anni novanta la musica non cambiò, ma cambiarono i suonatori e
il loro numero e, alla fine, anche il concerto: si suonava la stessa
melodia, ma in modo completamente diverso.
Si produsse una nuova mescolanza, dentro la quale i numeri, i rapporti
numerici tra vecchi e nuovi soggetti produttivi sono ben poco
indicativi per qualificarne le caratteristiche: il carattere di fondo
della nuova composizione è, infatti, la compresenza di altre
composizioni sociali, vecchi e nuove e vecchie in forme nuove.
Rivedi gennaio
Inizio anno
Giovedì, 11 febbraio
Annotazione. Il soggetto indimostrabile si dimostrò in Italia,
nell'economia italiana, negli anni novanta, avendo già dato prova di
sé, limitatamente alla cultura e agli stili di vita, nei due decenni
precedenti. Uno degli enigmi dell'operaio sociale è proprio questo:
mentre si affaccia autenticamente al mondo, perde le caratteristiche
che avevano distinto la sua gestazione, l'elemento distintivo si
scioglie nell'economia.
Per dirla in parole povere, negli anni novanta, in Italia, l'operaio
sociale diviene una figura operaia tra le altre.
Il lavoro intellettuale era stato uno dei settori preferiti, scelti
addirittura, dell'attività economica dell'operaio sociale, mentre
negli anni novanta ampi strati del lavoro manuale sono contagiati
dalla forma organizzativa che era appartenuta, quasi in regime di
esclusività, alla nuova forza lavoro sociale: crescono microimprese,
ditte individuali e prestazioni occasionali d'opera anche nel mondo
operaio (soprattutto nel nord est) e nell'edilizia. Il lavoro in outsourcing,
l'appalto e il subappalto si diffondono anche ai margini della
fabbrica, nell'indotto, e persino dentro i recinti degli stabilimenti.
Il rifiuto del lavoro manuale e della relazione di lavoro salariato si
trasforma in un lavoro manuale che non viene erogato attraverso il
comando diretto sul salario, ma attraverso il comando indiretto della
'relazione tra imprese'. La mediazione con il mercato, costituita dal
rapporto di lavoro normato contrattualmente, viene meno e si
sostituisce una relazione diretta tra lavoratore e mercato. Spesso il
mercato ha il volto di un'unica e sola offerta di lavoro, ma la
finzione di una relazione libera è rappresentata.
In questo passaggio avvengono anche notevoli trasformazioni nei
settori produttivi dove, tradizionalmente, era impiegata la nuova
figura: nel lavoro creativo, nella ricerca, nella progettazione e in
genere nell'outsourcing per gli enti pubblici. In questi
settori la relazione non cambia ed è già assodata e, come scritto,
addirittura esportata anche in alcuni segmenti del lavoro manuale ma
cambia la relazione con l'emolumento o meglio con il valore d'uso del
lavoro, che perde quasi del tutto l'aspetto di una quota di reddito
garantito. Politiche al ribasso dei prezzi e attente al minor costo
divengono egemoni, dove prima non lo erano e lo erano sono in parte o,
ancora, non definivano completamente il quadro dell'offerta. Il
liberismo italiano, santificato dall'affermazione della 'seconda
repubblica', è quello del minor costo e miglior prezzo: imprese
cooperative, microimprese e prestatori occasionali d'opera devono
affrontare un nuovo mercato, dove cessano di riprodursi i codici di
rispetto e le garanzie che vivevano in una certa analogia con quelli
garantiti per il rapporto di lavoro salariato, il rapporto di lavoro
normato contrattualmente.
Domenica, 14 febbraio
Annotazione. Non si è trattato solo di un fenomeno quantitativo, di
spostamento di manodopera da una relazione di lavoro a un'altra
relazione di lavoro (sull'ampiezza di questo spostamento andrebbero
viste le statistiche di CENSIS e ISTAT) ma qualitativo. È cambiata
insieme con la quantità del lavoro la sua qualità.
Le logiche tayloriste migrano nel lavoro d'ufficio, favorite dalla job
automation e dall'incipiente uso della telematica, ma
soprattutto il taylorismo, come strumento complessivo, come
mentalità, atti a coordinare la produzione cede il passo a nuovi
strumenti e mentalità. In queste nuove forme diventa centrale il
coordinamento territoriale tra i diversi segmenti produttivi, che fa
il paio, si sposa perfettamente, con la dimensione mondializzata della
produzione. Negli anni novanta, localismo, distrettualismo si sposano
con l'orizzonte globalizzato del mercato ma, si badi bene, non lo
recepiscono e non lo fanno proprio: negli anni novanta, in Italia, si
è verificata una reazione non una partecipazione, si è vista una
passività non il protagonismo.
La definitiva fine della centralità della fabbrica, la fabbrica intesa
come recinto architettonico e produttivo, ha imposto e indotto uno
sguardo verso tutto quello che stava nelle immediate vicinanze della
fabbrica, uno sguardo verso il territorio, verso il territorio come
risorsa produttiva. Per certi versi la fabbrica si allargava nel
territorio e spesso questo ha significato il suo spostamento, la sua
migrazione, nel lavoro a domicilio per centinaia di microimprese
artigianali, altre volte interi segmenti della di produzione venivano
concessi in appalto a aziende più contenute nel numero di occupati.
Il comando di fabbrica lasciava posto al comando sul territorio, alla
capacità di formare le professionalità, nuove imprese, nell'area che
circondava la fabbrica.
La produzione stessa si separava nelle forme secondo linee
gerarchiche: si introduceva la robotica nella fabbrica dimagrita,
mentre in altri settori sopravvivevano forme produttive ancora legate
alla linea di montaggio e in altre ancora si sperimentavano tecnologie
innovative. Non fu un modello univoco, anche se largamente egemone e
qualche volta il cosiddetto indotto superò per innovazione il
concentramento produttivo primario.
La territorializzazione del comando di impresa ha reso l'impatto con
il mercato del lavoro da parte dei soggetti operai, per certi versi,
immediato, sul modello già elaborato per i servizi e il lavoro
sull'informazione, per il nuovo lavoro intellettuale, negli
anni '70 e '80. Una volta tanto i figli avevano maggiore esperienza
dei padri ed erano aperti a un cinismo e opportunismo che i padri
avevano sempre cercato di evitare. Negli anni novanta si trovarono a
confronto non solo due composizioni di classe, questa volta non
mediato da complicità ideologiche (l'operaio massa con l'operaio
sociale) ma due generazioni proletarie. Lo scontro che embrionalmente
si era dato nel biennio '75 – '77, spesso enfatizzato dalla
mistificazione ideologica, dalla rappresentazione della classe operaia
portata avanti dall'allora partito comunista italiano, ora si rivela
nella sua crudezza, per cosi dire in tutta la sua naturalità, anche se
con significative differenze. Nel campo della produzione dei beni
materiali, dei prodotti di manifattura, si riutilizzava,
costringendola a nuovi codici di impresa, la vecchia impresa
artigianale e la sua mentalità, insomma quella che, seguendo Bologna,
potrebbe essere detto il lavoro autonomo di seconda generazione.
L'antica mitologia del 'farsi da sé' si arricchiva dell'idea di
partecipare a una progettazione complessiva e a un comando razionale
sul lavoro della propria area, di contribuire all'esaltazione della
sua specificità e delle sue professionalità.
Per inciso, la crescita della Lega tra i nuovi artigiani del nord e
anche tra i vecchi settori operai è stata il segno di questa illusione
di governare localmente la mondializzazione dell'economia e questa
illusione è stata in gran parte alla base dell'analisi di classe,
finalizzata esclusivamente alla propaganda elettorale, della Lega
Nord. La Lega Nord ha avuto la capacità, tra fine anni ottanta e anni
novanta, di usare politicamente le nuove condizioni di
rappresentazione del lavoro di fabbrica e della nuova manifattura
diffusa sul territorio nel settentrione italiano. Era questo uno
schema ideologico secondo il quale il coordinamento locale della
produzione avrebbe permesso di affrontare i mercati internazionali,
reiventando attraverso di quello la matrice stessa del territorio,
della regione, la sua identità, da proiettarsi poi, ma solo poi, sul
passato localista, medioevale, comunale e anti imperiale del nord
d'Italia: i comuni lombardi e la retorica su quel medioevo, come la
storicità dell'enclave produttive del nord.
Varrebbe la pena di articolare meglio questa analisi, un giorno,
chissà quale? Però.
Indirettamente, con infinite mediazioni analitiche e senza mettere in
stretta relazione processi tra loro molto diversi, per natura e
struttura, l'emergere della Lega Nord, la crisi dell'immagine
ufficializzata del movimento operaio storico, la ridenominazione del
PCI, il nuovo sistema elettorale e tangentopoli hanno segnato, sotto
il profilo della politica istituzionale, questa radicale
trasformazione del mondo del lavoro. La novità della Lega è
maggiormente adiacente al mondo della produzione dei beni materiali, è
il prodotto di un frammento del processo, che ha determinato, nella
sua complessità, il cambiamento istituzionale generale ma è
rappresentativa della trasformazione in corso, è quella che meglio la
rappresenta.
Si badi, comunque, bene, secondo la mia percezione, in Italia nel
decennio dei novanta, si dà un cambiamento radicale che, però, non
riesce ancora a porre una nuova relazione operaia con il lavoro come
polare e tocca, forse più, il lavoro manifatturiero che non quello
immateriale. L'impressione è addirittura che, nel quadro di un
capitalismo quasi regressivo, volto al passato e agli esempi di un
mercato prekeynesiano e per certi versi protocapitalista, non
resuscitabile concretamente ma perseguibile come modello ideale, un
capitalismo volto maggiormente verso un'ideologia che non verso una
concretezza, il lavoro manuale e il comando su quello abbiano
funzionato come strumento per massificare modi di vivere il lavoro
minoritari, di nicchia e repertorio, fino a quel momento, del nuovo
lavoro intellettuale.
Sabato, 20 febbraio
Annotazione. Gli anni novanta, senza ridipingere il quadro, hanno
cambiato la cornice, hanno inquadrato il lavoro, pur rispettando in
larga misura le normative esistenti, in una nuova prospettiva. La
vecchia contrattualistica e le novità contrattuali atipiche rimanevano
tali, rimanevano il vecchio e il nuovo, che convivono ignorandosi e,
apparentemente, non influenzandosi reciprocamente.
Il rapporto con il lavoro divenne manifestamente non univoco e la
complessità, prima embrionale, poi occultata durante i due decenni
precedenti, si manifestò. Il lavoro salariato divenne un riferimento
per una molteplicità contrattuale che ne era esclusa e che cercava sul
mercato di costituire i suoi parametri.
Domenica, 21 febbraio
Annotazione. Alla mia percezione e secondo la persistente 'anomalia
italiana', gli anni novanta sono stati il periodo di autentico
passaggio tra la vecchia composizione di classe e la nuova e tra la
vecchia costituzione di capitale e la nuova. Per quanto fin qui
scritto, però, non si è determinato un razionale e scientificamente
descrivibile approdo a una nuova complessità, ma semmai l'incontro con
qualcosa che, mettendo in discussione il concetto stesso di
composizione di classe e quello relativo di costituzione di capitale,
trova nella complessità, nell'asincronicità, nei contrasti e nelle
compresenze contraddittorie il suo senso.
Qui bisognerebbe saper distinguere quanto di queste antinomie,
asincronicità nello sviluppo, dipendano dalla specificità italiana
(dall'anomalia, appunto) e quanto, invece, partecipino alla linea di
sviluppo naturale del capitalismo, al passaggio dal
capitalismo fordista e neolitico al biocapitalismo postindustriale e
informativo. Il passaggio da un soggetto e dalla generazione della
soggettività perfettamente dimostrabili a un soggetto e relativa
generazione soggettiva indimostrabili impone, infatti, di usare
l'aggettivo naturale, quando è riferito a questo sviluppo,
chiuso tra virgolette.
In ogni caso quello che nel paese capitalistico egemone par
excellence, gli Stati Uniti d'America si è realizzato tra il
1945 e il 1965 (anno più, anno meno), in Italia si è espresso
compiutamente mezzo secolo dopo e solo al prezzo di una mezza e
semiseria, ma concreta, 'rivoluzione' istituzionale e costituzionale.
Questo compimento storico non va inteso come meccanica realizzazione,
soddisfazione quasi, di una tendenza ineluttabile, non come una
tendenza naturale, perché non è possibile comprenderlo e decifrarlo
secondo questi parametri. Di naturale, nel senso tradizionale,
storico, del termine è rimasto poco nella storia: oggi la storia,
rispetto ai canoni illuministi e romantici, è ben poco storica. In
Italia la storia ha cessato di essere storica dagli anni novanta.
Mercoledì, 24 febbraio
Annotazione. Se i critici del cubismo potevano ironizzare sui problemi
di vista di Braque e Picasso, i detrattori dell'arte astratta erano
costretti ad ammettere che lì non si vedeva nulla, che non c'era nulla
di visibile. La realtà, nei primi, si scomponeva e le sue forme si
riassemblavano; nei secondi la realtà rimaneva come energia di fondo,
come il problema della tela e della sua fisicità e per certi versi il
problema della creazione artistica si mostrava in quintessenza.
Annotazione. Alla fine degli anni sessanta, il Partito Comunista
Americano considerò la rivoluzione impossibile. Non so come sia giunto
a questa conclusione e che importanza storica abbia avuto, né se si
trattò di una coerente e consapevole rinuncia alla teleologia, oppure
di una rivisitazione strategica. Ma la rinuncia a un tratto
fondamentale della realizzazione del fine della politica e della
storia, che prevedeva la rivoluzione come necessaria, non può non
essere messa in relazione con la trasformazione subita dalla società
americana. Se non ho inteso male, i comunisti americani ritenevano
ormai impossibile costruire l'unità tra i diversi soggetti proletari,
unità considerata indispensabile a ogni ipotesi rivoluzionaria e alla
costituzione di un nuovo dominio. Io intenderei, ora, questa oggettiva
impossibilità come occasione per nuove possibilità politiche e
storiche, di una nuova opportunità, di un nuovo piano per la
teleologia: non è sicuramente, infatti, in questione, ormai, la
costituzione di un nuovo dominio unitario, ma proprio tutto l'opposto
è in questione e, usando un brutto termine, all'ordine del giorno. È
all'ordine del giorno, oggi, la fondazione di domini, poteri e potenze
disperse.
Venerdì, 27 febbraio
Annotazione. L'idea di domini e poteri, alla fine il concetto
riassuntivo dei due termini potrebbe essere quello di potenze, è
analiticamente debole, sotto molti punti di vista.
È debole perché contraddittoria implicitamente: domini e poteri
dispersi difficilmente, nell'esperienza storica concreta, hanno
abdicato alla costituzione centralizzata, hanno rinunciato alla
tendenza a costituirsi secondo dinamiche centrifughe anziché
centripete. Li definisco poteri e domini solo perché non trovo altri
vocaboli, anche se il problema non è solo terminologico o linguistico.
Un potere implica sempre una giurisdizione, l'espressione di un
diritto che sono la sua potenza, e quindi la potenza, che pure non
nasce intendendosi immediatamente come centripeta, richiede
un'omologazione e quindi una naturale tendenza al centripeto. Un
potere, nel migliore dei casi, (sto pensando ai comuni medioevali,
alle repubbliche autonomiste del tardo impero romano e anche a certe
giurisdizioni feudali) è l'affermazione e la pratica di alcuni
diritti, regole e norme e anche se non si iscrive necessariamente in
un territorio (il caso dei comuni medioevali è emblematico in tal
senso) deve possedere una territorialità. Nel migliore dei casi,
quindi, il potere e la relativa potenza ha una territorialità e non ha
un territorio; in epoca contemporanea la rete telematica offre
l'infrastruttura per una territorialità analoga a quella costituita in
assenza di un territorio.
È debole anche sotto il profilo ideologico, nel senso che la
policentricità possa essere, in quanto tale, garanzia di democrazia e
controllo democratico e di sovversione del dominio economico. Il
policentrico e disperso oltre che essere paradigma per
l'infrastruttura telematica, che comunque non è modello neutro e
tanto meno spontaneo e generato in maniera socialmente ermafrodita, è
paradigma economico del biocapitalismo. Il biocapitalismo è una forma
di potere economico costituita dalla sua stessa dispersione. Un
discorso sul potere incentrato sulla necessità della dispersione dei
poteri rischia di scambiare per suo il paradigma biocapitalista, per
rovesciarlo semplicemente di segno, un po' infantilmente. Spesso Negri
e Hardt corrono questo rischio tanto in Impero, quanto, soprattutto,
in Moltitudine. La critica al nuovo dominio del capitale deve
certamente seguirne il corso, ma chi si compiace di descrivere un
corso parallelo, anche se critico, rischia di non cogliere i punti di
rottura che sorgono tra il nuovo dominio e il nuovo sfruttamento,
rischia di non vedere chiaramente le nuove forme di sfruttamento e,
alla fine, può facilmente trovarsi a immaginare un corso inverso, un
naturale biocomunismo che scorre già dentro il biocapitalismo. Il
solco tra alienazione e liberazione non è, invece, mai stato ampio
come in questo periodo storico, poiché si scava non solo dentro il
lavoro e le relazioni di lavoro, non solo dentro la vita e le
relazioni di vita, ma anche dentro la creatività, l'emotività e
l'affettività degli individui.
Lo scontro tocca lo stesso concetto di convivenza e di comunità: lo
scontro non è neanche etico, è antropologico. Teoricamente lo scontro
si dovrebbe ubicare su un terreno di radicalità e opposizione estrema,
tanto forte e tanto viscerale da non essere rappresentabile da nessuna
ideologia politica, perché lo scontro si porrebbe al di fuori dei
parametri dell'ideologia.
Questo ha già introdotto nella vita sociale, ma anche nel contesto
internazionale, uno stato latente, imprendibile di guerra
civile, che registra in forma quasi onirica, imprendibile e
intoccabile appunto, e certamente mistificata dal pensiero liberista e
dall'opposizione di sua maestà al liberismo.
La guerra civile latente, comunque, prefigura, in maniera primordiale
e barbara, questa potenziale dispersione di poteri e di domini,
e nella primordialità, utilizzando strumenti assolutamente inadeguati
allo scopo, ricerca confusamente una nuova territorializzazione e non
una nuova territorialità.
Quando il Partito Comunista Americano denunciò l'impossibilità della
rivoluzione ha fatto opera di disvelamento, forse senza nessuna
consapevolezza: ha svelato un problema, per nasconderlo. L'abbandono
della tattica e della strategia rivoluzionaria leninista hanno
comportato l'abbandono dell'idea stessa di comunismo e questo non è
accaduto solo al partito americano ma, dal mio punto di vista
inevitabilmente, a tutti partiti comunisti che parteciparono alla
terza internazionale. La constatazione dell'impossibilità del successo
della pratica rivoluzionaria leninista ha facilmente, quasi
automaticamente, comportato la conclusione dell'impossibilità del
comunismo. L'impossibilità di costituire una nuova unità sociale e
politica, un organismo giuridico, in una parola lo Stato comunista, ha
portato con sé l'abbandono dell'idea stessa di comunismo.
Il comunismo è stato considerato, nella tradizione marxiana, come il
naturale e necessario risultato dello sviluppo storico, come la meta,
la causa ad un tempo formale e finale (per dirla con Aristotele) della
storia. Secondo questo schema, che ha avuto notevole successo,
l'ontologia e la gnoseologia, la realtà e la conoscenza della realtà,
l'oggettività sociale e la soggettività sociale crescevano insieme, si
condizionavano l'un l'altra e interagivano, dando corpo a una visione
completa, organica, perfetta in sé, alla fine scolastica, e certamente
scientista. L'attualità mette radicalmente alla prova questa visione
e, nei fatti, la confuta del tutto.
Il biocapitalismo realizza, in verità, molti tratti dell'utopia
comunista, e in parte pare dare ragione a Marx, opponendosi a Marx,
rendendo possibile, in forma onirica e imprendibile, la felicità
sociale che Marx aveva immaginato come scopo della storia. Il
biocapitalismo ribalta il comunismo non nel suo contrario ma nella sua
opposizione mistificata, nell'assoluta mistificazione, mercificazione
e reificazione dei valori immaginati da Marx e dal marxismo per il
comunismo. Il biocapitalismo costruisce nuove comunità e nuove forme
comunicative e intellettuali, precisamente come il comunismo avrebbe
dovuto in Marx, ma non sono le comunità e le forme comunicative a
costituirsi, a trovare in sé stesse gli strumenti e le materie per la
costruzione, ma è il biocapitalismo a fornire materie e strumenti.
Queste materie e questi strumenti non appaiono estranei alla comunità
e alla sua vita, fanno, anzi, parte della sua vita, sono impliciti
alla sua costituzione; non si tratta, quindi, davvero in un delirio
anacronistico, di andare a ricercare, seguendo ancora Lenin o il
progetto rivoluzionario classico, una coercizione esterna sulle
comunità e sulle vite degli individui, andare a cercare una neutralità
e naturalità sulla quale si esercita violenza e alienazione, ma la
violenza e l'alienazione dentro la fondazione della comunità e la vita
degli individui. Il paradigma logistico, tecnico, produttivo e
creativo del biocapitalismo non è neutro, disposto alla felicità,
scientificamente determinato e oggettivo ma sottoposto a un dominio
estraneo che lo vampirizza: la logistica, la tecnica, la produzione e
la creatività, nel biocapitalismo, nascono come prodotti, sono
prodotti, sono merci e non sono neutri. Per scrivere ancora più
radicalmente: la stessa umanità, la stessa etica non sono neutre ma
sono innervate, in maniera molecolare, di una genetica economica e
sociale. L'economia è umanità ed etica nel biocapitalismo e questo ha
comportato una radicale trasformazione non solo dell'etica e
dell'umanità ma anche dell'economia: non esiste economia politica
che possa rappresentare compiutamente l'economia del capitalismo
dell'attualità.
Negri e Hardt, a mio parere dimenticando completamente il pensiero di
Marx, ritengono che sia possibile limitarsi ad eliminare l'involucro
economico che costringerebbe il general intellect,
vampirizzandolo. Il biocapitalismo, o meglio nel loro caso è meglio
scrivere di capitalismo globalizzato, sarebbe una sorta di prelievo
feudale sul flusso produttivo (per flusso produttivo intendo davvero
tutta la produttività sociale), il vampiro che succhia le risorse e le
energie per reinvestirle in altro controllo e altra vampirizzazione.
Il capitalismo si sarebbe ridotto a essere controllo sul ciclo
produttivo, ma il ciclo produttivo, in sé, è già indipendente ed
estraneo al capitalismo. È il concetto di general intellect
come potenza neutra, astorica, posta al di fuori dei rapporti storici,
che è discutibile.
C'è un elemento vero nell'analisi sviluppata in Impero e Moltitudine:
l'alta costituzione raggiunta dal capitale deve concedere la
preminenza agli elementi progettuali, ideativi e comunicativi nel
lavoro vivo e comporta la trasformazione del concetto di prodotto, di
bene, verso di qualcosa di immateriale e di comune, quasi naturalmente
comune per la sua caratteristica intrinseca di essere comunicabile,
pensabile e fruibile immaterialmente. Negri e Hardt sottolineano una
conquista del capitalismo contemporaneo, un passo verso le comunità
che ha compiuto, un passo verso la sconvolgente novità di una
comunità come prodotto economico. Ed hanno ancora ragione
quando sembrano pensare che questo è quasi il comunismo di Marx.
Sbagliano, invece, quando ritengono scontato e naturale che questo
strumento perché neutrale e oggettivo, non sia un prodotto ma un
valore in sé, quando ritengono che il general intellect
sia un valore in sé e non un prodotto.
Ma è vero proprio il contrario: il comunismo nell'epoca del general
intellect orientato al biocapitalismo è il contro natura
filosofico, la negazione dell'etico e dell'umano. Il comunismo si
presenta come la negazione della comunità, della comunicazione e,
oggettivamente, lo è. La competizione, infatti, non si svolge sul
terreno del lavoro, ma di tutta la vita che si svolge intorno al
lavoro e soprattutto quella che viene sussunta al lavoro, secondo una
sussunzione del tutto nuova, che non riguarda un tempo di vita
misurato a ore, in una giornata lavorativa anche intesa come giornata
lavorativa sociale, ma la vita come prodotto da sussumere al
lavoro. La vita cessa di essere un valore in sé, misurabile a
ore ma esterno ed estraneo alla produzione, ma è un valore interno
alla produzione, un prodotto in produzione. Non ci può essere nessuna
spontaneità e naturalezza nel passaggio dal biocapitalismo al
comunismo: si deve presupporre la rottura rivoluzionaria della
macchina produttiva, per costruirne una nuova e una nuova neutralità,
scientificità e un nuovo sostrato comunitario. Questa rottura riguarda
l'individuo come appartenente e produttore di comunità, riguarda il
momento nel quale alcuni individui smettono di produrre per la vecchia
comunità e decidono per la nuova. Questa rottura è determinata da
esigenze materiali, bisogni materiali che si distendono su tutta la
vita, su tutta la biologia e quindi su tutti gli aspetti della
comunità.
Dobbiamo essere felici di questa libertà dal fine necessario e
naturale della storia, perché ci aiuta a capire bene come il comunismo
sia un prodotto artificiale, volontario e possibile solo oggi e quindi
posto tra le necessità dell'oggi senza che siano necessarie. Il
comunismo è oggi umano, troppo umano.
In qualsiasi ragionamento sul comunismo prossimo venturo, con
comunismo prossimo venturo intendo la rifondazione assolutamente
necessaria e radicale del pensiero e della pratica comunista, in
quanto pratica rivoluzionaria, necessariamente rivoluzionaria, perché
la neutralità del biocapitalismo si ferma alla sua critica, dovremo
avere ben presenti due semplici assiomi, in apparenza contraddittori.
1) Il riformismo, in un quadro privo di spazio economico e concettuale
per le riforme, in un quadro privo di economia politica, è sempre
rivoluzionario 2) Il potere non reprime, recupera e questo è il suo
principale lavoro.
Il primo assioma possiamo farlo derivare da Rosa Luxembourg, il
secondo dal pensiero situazionista. Il riformismo è determinato dal
fatto che nel biocapitalismo è in gioco la macchina sociale nella
interezza, il funzionamento e non un suo improvviso riposizionamento
sotto un'altra logica e coercizione / controllo; cambiando il modo di vedere e fare le cose
introduciamo una rottura che non è percepibile come rivoluzionaria, ma
al massimo come utopia riformista, l'utopia riformista, che non
richiede riposizionamenti complessivi e immediati sa di doversi
confrontare con un continuo tentativo di recupero, riassemblamento,
ridefinizione. La lotta rivoluzionaria diviene un processo
instancabile di prodotti e nuovi prodotti, assemblaggi e nuovi
assemblaggi.
Rimangono, comunque, questi, due schematismi, contrapposti, questa
contrapposizione, però, genera la complessità intellettuale
indispensabile a comprendere il sistema contemporaneo e la libertà
necessaria per ricostruire un pensiero rivoluzionario sulla storia e
la società. Ci troveremo, probabilmente, a elogiare più spesso la
tradizione anarchica che non quella socialista o comunista, secondo i
paradossi della storia che la rendono libera, interessante e
terribilmente umana, anzi meglio dire antropologica.
Sabato, 28 febbraio
Annotazione. Per scriverla in uno slogan, per definire questa
contraddittoria tensione verso una meta storica che non è un traguardo
ineluttabile e necessario ma solo possibile, potenziale e non
esaustivo, e per descrivere la tensione che percorre, drammatica, lo
stato di cose presenti basta questa semplice proposizione: il
biocapitalismo è il posto dove non avere un posto e un'identità è
necessario, il comunismo il posto dove non avere un posto è scelta. Si
assomigliano, certamente, ma si negano.
Rivedi febbraio
Inizio anno
Mercoledì, 16 marzo
Annotazione. [Il soggetto indimostrabile] Nel primo decennio di questo
secolo, l'Italia ha conosciuto, percepito chiaramente, il manifestarsi
della nuova forma del lavoro. Il consolidarsi dei contratti atipici,
anche a livello giurisprudenziale, oppure dell'uso di quelli tipici ma
a tempo determinato, gli orari flessibili, si sono accompagnati a una
nuova dimensione del lavoro, quasi una nuova razionalità del lavoro.
In alcuni settori la giornata lavorativa si è allungata e ha
investito, massicciamente nel commercio, in maniera meno massificata
nei settori dell'informatica e della telematica, in maniera sporadica
ma significativa nella manifattura, i giorni festivi. In generale la
giornata lavorativa ha subito un allungamento di fatto, effettivo,
dettato dalla contrattualità concreta presente nelle imprese, per
tutti i settori lavorativi, nessuno escluso. Il nuovo lavoro ha
iniziato a presentarsi come un lavoro privo di pause collettive,
dominato dalla necessità di produrre servizi, beni intellettuali e
materiali sette giorni su sette. Per dirla con linguaggio dotto e
marxisticamente dotto, la giornata lavorativa sociale non
riconosce più riposi collettivi.
Questo nuovo paradigma dell'orario è perfettamente rispondente al
nuovo carattere del lavoro, in quanto il lavoro intellettuale ha
acquisito componenti affettive, emotive, investendo il mondo degli
affetti e delle emozioni. Tenderei, però, contrariamente a molta
letteratura, a limitare drasticamente il peso del lavoro affettivo in
quanto tale dentro la composizione di questo nuovo soggetto
indimostrabile, dentro la vita dell'operaio sociale o di qualsiasi suo
sinonimo. Il lavoro affettivo (il lavoro di assistenza ospedaliera, il
lavoro sul disagio giovanile o sugli anziani, il lavoro a domicilio
sulle patologie geriatriche) indica una tendenza economica di fondo e
ci costringe a porre l'accento su componenti affettive ed emotive che,
però, non investono solo quello ma l'intero mondo del lavoro: il
commesso nel commercio non vende solo prodotti materiali, ma vende un
suo prodotto aggiunto, certezza, educazione, simpatia,
disponibilità, reperibilità, producendolo attraverso l'uso del suo
normale e tradizionale orario di lavoro ma anche attraverso il suo
modo di stare sul lavoro. Disponibilità, cortesia, reperibilità e
molte altre componenti affettive ed emotive fanno oggi parte delle
mansioni del commesso di negozio e sono indissolubilmente legate alla
sua reperibilità il sabato, la domenica, la Pasqua e il Natale. Questo
tipo di mansionario affettivo ed emotivo lo ritroviamo anche
nell'offerta di servizi informatici e telematici.
In generale, e per tutti i comparti produttivi, il bene in
vendita è anche la continuità del servizio e della produzione,
l'adattabilità veloce alle situazioni e spesso la capacità di ideare
nuovi scenari.
Venerdì, 18 marzo
Annotazione. [Il soggetto indimostrabile. Servilismo e etica del
lavoro] L'enfatizzazione del peso dei lavori affettivi, immateriali e
cognitivi descrive, in maniera quantitativa, un salto qualitativo che,
nei paesi capitalisticamente egemoni, ha veramente cambiato l'aspetto
del lavoro. Tutti i lavori hanno acquisito una componente affettiva ed
emotiva, un investimento che prima costituiva un valore aggiuntivo
esterno all'attività lavorativa.
La componente affettiva ed emotiva spesa sul lavoro costituiva un
punto sulla tabella ideale della sua valorizzazione; l'attaccamento al
lavoro, spesso legato e confuso con l'attaccamento all'azienda, era un
fattore extralavorativo, era il risultato di una disposizione
spontanea del lavoratore o di una pressione, esercitata
dall'esterno dei meccanismi dell'attività lavorativa, che veniva
esercitata sul lavoratore. L'attaccamento al lavoro non faceva
parte del lavoro.
Oggi, invece, l'attaccamento al lavoro fa parte del lavoro e della sua
natura, ed è addirittura fuorviante definirlo con il termine
attaccamento, come se si esercitasse su un elemento estraneo, esterno.
Se ancora negli anni novanta, in Italia, il coinvolgimento della
manodopera nella produzione era ottenuto attraverso strumenti
aziendali come le ideologie e i metodi di gestione del personale, ora
è il lavoro in quanto tale a disporlo.
Quello che un tempo era il risultato di una coercizione extraeconomica
diventa, quindi, parte integrante del contratto e del mansionario; la
coercizione extraeconomica, quindi, fa parte dell'economia. A livello
formale, non esiste job description che eviti le tematiche
dell'adattabilità, della capacità comunicativa e via dicendo. Sono
spesso frasi vuote che, però, registrano una pienezza, una nuova
pienezza del lavoro che si esprime anche su un terreno che un tempo
era lasciato al vuoto e all'indefinito, in una parola, alla vita
privata del prestatore d'opera.
Il cosiddetto servilismo, analogamente, era un involucro esterno, un
atteggiamento, una corazza, un elemento accidentale, un surplus
necessario solo in particolari occasioni e situazioni lavorative;
all'alba del nuovo millennio il servilismo è diventato un componente
fondamentale del lavoro, anche in Italia. Il modo di essere nella
produzione nipponico, il toyotismo, è stato esportato anche in Italia.
È cambiato dunque ciò che si produce e ciò che produce profitto,
ricchezza e di converso reddito operaio ma, soprattutto, è cambiato
radicalmente il modo di produrre in generale, è cambiato il lavoro e
non solo il suo oggetto e anche là dove l'oggetto della produzione è
rimasto materiale e la produzione è rimasta industriale, il lavoro si
è trasformato. È chiaro che il cambiamento dell'oggetto influenza il
lavoro che lo produce, meno chiaro è come, anche nei lavori materiali
tradizionali, si sia affermata la disposizione tipica del lavoro
affettivo, cognitivo ed emotivo.
Come il termine attaccamento al lavoro o anche il concetto di etica
del lavoro si avvicinano alla nuova disposizione verso il lavoro ma
non la risolvono, così la parola servilismo, che viene spontaneo
usare, rappresenta sicuramente il nuovo atteggiamento del lavoratore
subordinato ma non lo spiega.
L'etica lavorista e il servilismo attuali hanno tutt'altra causa:
hanno origine dentro il lavoro e sono imposti (se è giusto usare
ancora questo verbo in proposito) dalla naturalezza del mercato.
Servilismo ed etica del lavoro sono oggi valori produttivi e non
valori lavorativi ergo non sono più servilismo ed etica, ma
altre cose e andrebbero indicati con altri nomi.
Domenica, 20 marzo
Annotazione. [Soggetto indimostrabile. Sinistra e destra]. Servono,
dunque, nuove parole per descrivere la forma attuale del capitalismo,
serve un nuovo dizionario e una nuova enciclopedia. Non è affatto
escluso che la crisi di termini e concetti come quelli di sinistra e
destra sia da riferire a questa necessità.
L'inadeguatezza del termine sinistra nasce da molti requisiti.
Prima di tutto un requisito istituzionale e cioè l'indebolirsi della
democrazia parlamentare nella quale aveva un forte senso la
collocazione dei deputati nei banchi, come segno di un mandato
inequivocabile e indeferibile. La crisi del sistema rappresentativo
nei paesi egemoni capitalisticamente, nei paesi occidentali, ha
colpito maggiormente quelle forze che pretendevano di organizzare il
popolo e di difenderne gli interessi e che costruivano su questo la
loro identità. L'idea di popolo si è disciolta in mille rivoli e in
mille rivoli si è disciolto il parlamentarismo corrispondente.
Subito dopo viene un'inadeguatezza ontologica del concetto di
sinistra, determinata dalla trasformazione delle relazioni sociali
sulle quali si fondava la tradizione operaia, la sua ideologia e la
sua prospettiva. Oggi, dichiararsi di sinistra, continuando a far
riferimento a quella rispettabile tradizione, è un po' come se si
volesse essere quaccheri per costruire un fronte repubblicano e anti
monarchico. Si rischia davvero di essere i quaccheri
dell'anticapitalismo. Il primo decennio di questo secolo ha introdotto
con prepotenza in Italia la crisi del termine sinistra, come di tutto
quello che stava dietro a quel termine. Quello che ancora nel decennio
precedente appariva, e oggettivamente ancora era, il prodotto di
una polemica ideologica, di propaganda, di una rinnovata
contrapposizione tra destra e sinistra, dopo il duemila e, a mio
parere, in modo conclamato dopo il 2008 e la crisi, altrettanto
conclamata, dell'indipendenza del nostro Stato nazionale (pensiamo
all'avventura di Monti) insieme con quella di molti altri, è diventato
realtà. Sinistra, intesa come forza popolare nazionale, con una
stabile presenza nei banchi riservati nel parlamento nazionale, è
diventata il risultato di una lontananza dalla realtà, di
un'incapacità a descriverla e perfino di darne una coerente
rappresentazione ideologica. La sinistra ha perduto definitivamente la
capacità di avere un progetto sociale complessivo e ha sempre più
spesso preso a identificare il progetto sociale complessivo con quello
che non confliggeva direttamente gli interessi della tradizione
operaia. La sinistra ha fatto del tradizionalismo la sua ragione
ideologica.
Il soggetto di riferimento del pensiero di sinistra, il soggetto
operaio, il lavoratore subordinato, il salariato normato e non, è
talmente cambiato da mettere in discussione la parola stessa sinistra,
applicata a tutti, senza distinzioni di correnti, tanto quelli che
hanno instaurato o cercato di instaurare una relazione diretta e
orizzontale con i soggetti proletari, quanto quelli che hanno fatto
della mediazione, della selezione, della verticalizzazione il loro
modo di approcciarli. Il sindacalismo più coerente ha avuto la stessa
fortuna, sotto il profilo della conservazione di un concetto credibile
di sinistra, del sindacalismo più arrendevole, perché entrambi hanno
continuato a far riferimento non a un soggetto indimostrabile ma a un
soggetto inesistente ma dimostrato.
Mercoledì, 23 marzo
Annotazione. [Europei ancora uno sforzo] I fatti di Bruxelles mi
costringono a occuparmi, anche se solo per qualche centinaio di
parole, dell'attualità politica, cosa per la quale non mi sento, in
tutta semplicità, preparato.
Gli attentati del nuovo genere (anche se non è un genere del tutto
nuovo, per esempio se guardiamo alla recente storia italiana)
disorientano, ovviamente; sono fatti per disorientare. Disorienta
maggiormente la reazione agli attentati e sembra che si prefigga
anch'essa disorientamento.
L'obiettivo pare essere il medesimo: introdurre un'ulteriore
militarizzazione della vita sociale, la definitiva eliminazione del
garantismo e della residua vitalità delle democrazie rappresentative.
L'islamisti radicali e politicamente rivoluzionari si propongono,
consapevolmente, l'abbattimento delle democrazie occidentali; questo è
il loro obiettivo ideologico, questo è l'obiettivo dell'opposizione di
sua maestà al biocapitalismo. Il fronte estesissimo, più di quanto
appaia esteso e più di quanto si pensi esso stesso esteso, degli anti
islamisti occidentali, si propone la stessa cosa.
Gli islamisti politici e rivoluzionari rivendicano la loro differenza
per omologare, gli anti – islamisti la stessa cosa. Al centro di
queste due ideologie e immaginari contrapposti è la stessa cosa:
la rappresentazione di una grande guerra civile tra popoli che, come
ogni guerra civile, richiede la fine delle libertà politiche e, come
altra guerra convenzionale, la militarizzazione della società.
Quando gli europeisti, anche quelli di sinistra, anzi impietosamente
ancor più quelli di sinistra perché gli europeisti di destra sono
orientati al ripristino delle frontiere nazionali, individuano il
nuovo collante europeo nella difesa comune, nella frontiera esterna
comune e nella polizia comune, indicano in questi nuovi strumenti il
valore sul quale rifondare l'Europa: l'unità europea si salverà perché
costretta a rispondere al terrorismo internazionale. Ovviamente
l'Europa, come nazione democratica, è già morta.
Quando gli europeisti, e anche qui quelli di sinistra impietosamente
più degli altri, auspicano la necessità di mantenere Schengen per
tenere aperte le frontiere all'economia e soprattutto per abbattere le
frontiere che difendono ancora alcune enclave garantiste al suo
interno, progettando come necessaria e irrinunciabile un'omologazione
autoritaria di tutti gli Stati dell'unione, trasformano la salvezza
europea nella salvezza dell'ordine europeo. Ovviamente l'Europa, come
nazione democratica, è già morta.
Quando gli europeisti europei, nessuno escluso, destra, sinistra,
centro, alto e basso, tacciono rigorosamente della dittatura che è
stata organizzata in Ungheria non rimane che augurare: “Europei!
Ancora uno sforzo! Ancora pochi passi al vostro sesto Reich!”. Non
rimane che constatare che costoro saranno europei per moneta, polizia,
esercito e multinazionali e che io non sono quel tipo di europeo; ho
smesso di essere italiano e mi è costato qualcosa, non mi costa
davvero nulla smettere di essere quell'europeo.
Annotazione. [L'Europa e l'islamismo politico] Il terrorismo islamico
è terrorismo politico, nel quale il premoderno assume la veste della
modernità in tempi accelerati. Che sia la confessione religiosa a
essere decisiva nella scelta del terrorismo islamico è indubitabile,
proprio perché assume altri significati e lavora per un altro da
sé. Quindi l'islam non è decisivo ma il ruolo che ha assunto
l'islam è decisivo. Il fatto che l'islam sia uno dei fattori decisivi
nel ruolo che ha assunto presso i terroristi l'uso della forza è
altrettanto indubitabile, per la sua tendenza a teorizzare il
proselitismo attraverso lo scontro armato, ma è altrettanto
indubitabile che in particolari situazioni storiche è stato il
marxismo, sempre in medioriente, a fornire armi alle teorie
terroriste.
L'islam è una componente, un elemento culturale, un'occasione, magari
più facile da utilizzare in questa particolare fase storica, tra molte
altre. La situazione economica europea, la destrutturazione
dello Stato sociale e di diritto, la crisi dell'identità nazionale e
l'apparizione di nuovi regionalismi e di un nuovo peso del localismo
hanno aperto praterie a ogni genere di improvvisazione ideologica e
fascinazione negli immaginari (e sul versante potenzialmente
progressivo, nuovo, di queste praterie bisognerebbe aprire una vera
analisi politica). La crisi europea, per crisi intendo la discussioni
dei fondamenti stessi della modernità europea, si è coniugata e in
parte è stata provocata dalla situazione internazionale, soprattutto
la fine dei blocchi e del vecchio ordine internazionale (USA / URSS –
Capitalismo privatistico / Capitalismo di Stato / Economie miste –
Democrazie rappresentative / Socialismo reale / Democrazie
'particolari'). La fine dei blocchi ha terminato regolamenti e assiomi
di sviluppo e anche questo ha avuto effetti all'interno dei singoli
stati, tra i popoli e le popolazioni, contribuendo a generare
ulteriori fantasie e le praterie dell'immaginazione. Nel contesto
internazionale, la prateria è un'unica corrente indifferente alle
forme istituzionali, totalitaria in campo economico, governata da un
pensiero unico, dentro la quale può prendere corpo, per usare una
metafora italiana, una strategia della tensione, mondiale nella sua
espressione geografica, biopolitica nell'intensità spesa sulle vite e
sui corpi.
La morte che prefigura per le sue crisi, è la morte per sterminio, la
morte di massa, unita alla contemporanea e necessaria negazione della
morte come evento degno dell'umano, la morte come non senso assoluto,
fine della merce umana, termine della sua utilità.
Tutte queste cose insieme sono nel terrorismo politico islamico e
nella guerra al terrorismo politico islamico: le contraddizioni reali,
le praterie aperte dalla destrutturazione di Stato nazionale, Stato
sociale e Stato di diritto, della precedente socialità capitalistica e
del precedente ordine imperialistico e le contraddizioni recitate
attraverso la distruzione delle vite e dei corpi in quantità
industriale e industrializzata.
Annotazione. [Dall'imperialismo al bioimperialismo] Il mondo è andato
avanti senza avere la possibilità di vedere questo avanzamento.
Qualcuno ha fatto di tutto per chiudergli gli occhi e il passato,
così, si presenta come una novità improvvisa, come una luce
abbacinante e irrecuperabile, la storia si presenta in forme
mitologiche. In altre parole il capitalismo industriale e neolitico ha
superato sé stesso ma non si è annullato e la fine del capitalismo è
rimasta capitalistica: il capitalismo non sa spiegare il mondo e non
gli rimane che dominarlo.
Il nuovo dominio capitalista si esprime in maniera molecolare, forse
ancora di più, socialmente atomica o subatomica, sulle componenti che
secondo Marx avrebbero, invece, dovuto fondare la società dopo la fine
non solo del capitalismo storico ma anche del socialismo. Il
capitalismo odierno non è più un capitalismo storico, è metastorico.
L'imperialismo non è più un azione sull'economia politica dei paesi
non ancora capitalistici ma un'azione sulle etnie, l'etica e la
socialità dei paesi capitalisticamente non egemoni. L'imperialismo è
bioimperialismo.
Si dirà; che c'entra l'operaio sociale con tutto questo? Madonna! Se
c'entra, ne è il nucleo, è il nucleo di tutta questa questione che è
politica e filosofica non certo sociologica, se fosse sociologica non
c'entrerebbe affatto. C'entra perché al capitalismo metastorico si
dovrà contrapporre il comunismo metastorico, uno scontro tra sistemi
non susseguenti o conseguenti ma compresenti. L'operaio sociale è
stata la prima forma di questa socialità possibile e volontaria.
Venerdì, 25 marzo
Annotazione. [Magmatica sul biocapitalismo] Lo strano avanzamento
della storia non deve essere un alibi. La crisi della teleologia
sociale non deve affatto assolverci dall'intervento politico nel
mondo.
Tutto è diventato irrimediabilmente incomprensibile e come tale
ingovernabile. Il desiderio di progettare e organizzare certamente si
attenua di fronte all'incomprensibile e le nuove forme del lavoro
offrono una compensazione per questa perdita di teleologia sociale
positivista.
Pensiamo al nostro soggetto, giustamente e sempre più giustamente
postulato come indimostrabile. La sua posizione è incomprensibile ai
vecchi metri dell'analisi di classe, esso stesso li fugge
consapevolmente, qualche volta li rifiuta apertamente: non lo
descrivono, non lo rappresentano e non lo comprendono.
Questo mondo rimane dominato da uomini, la novità dell'epoca è che chi
lo domina ha dichiarato una guerra contro la sua stessa specie cioè
contro quella che un tempo i vecchi capitalisti industriali, almeno
nell'ideologia, chiamavano lo scopo del mondo.
Paradossalmente proprio quando l'umanità viene presentata come valore
assoluto, come valore indipendente dai suoi stessi scopi, come un
processo senza alcun scopo se non in sé stesso, lo scopo non è
l'umanità e mai nella storia lo è stato meno. Quando l'umanità
sostituisce il divino, ma non per conformare un nuovo repertorio del
divino ma per prendersi in eredità e incarnare la divinità del passato
e della tradizione, quando l'umanità diventa teologia, allora
l'umanità è finita; l'umanità stessa diventa un soggetto
indimostrabile. La cultura che segue la modernità, la cultura
contemporanea, è la comprensione assoluta, teologica, della realtà,
che non comprende nulla; è, quindi, una cultura totalizzante, estesa a
interpretare ogni manifestazione dell'umanità, attentissima
scientificamente a non farsi sfuggire una singola molecola per
rappresentarla, usarla e costituirla solo in funzione del suo
controllo e della sua produzione e messa in produzione.
L'operaio sociale è stato il primo risultato di questa messa in
produzione complessiva dell'umanità, dove anche la morte perde
significato biologico e diviene una merce, un valore da rappresentare
e adatto a rappresentare altri valori.
L'affermazione di pratiche istituzionali che isolano e nascondono la
morte e le malattie, oltre che coniugarsi perfettamente con
l'abbandono al suo destino della spesa e dello Stato sociale, ha
permesso il formarsi di un contesto favorevole alla fine del biologico
come momento indipendente della vita sociale, anzi ha provocato e
organizzato la fine del biologico e il suo dissolvimento nella
produzione economica.
L'operaio sociale è un agente economico non solo nella storia, come
accadeva per le figure sociali precedenti, ma nella biologia. Anche
l'ecologismo e l'ambientalismo, in questo contesto, sembrano quasi
un'articolazione dell'eugenetica e lungi dal proporre una nuova
biologia e una nuova antropologia puntano a un dominio della biologia
e dell'antropologia, a una loro continua correzione verso la
perfezione divina e la rettitudine teologica.
La teologia si è fatta carne, anima, mente, affetto e immaginazione.
L'assenza di comprensibilità e di scopi sociali, che non siano
l'immanente diventato trascendente, per essere più chiari il presente
che è diventato eterno, determina, però, la necessità di una radicale
valorizzazione dell'indipendenza dal presente. Non è un lavoro svolto
verso il futuro e non è un lavoro svolto contro il presente, sarà,
invece, un lavoro nel presente eterno per un'indipendenza eterna: una
nuova dimostrazione di sé del soggetto indimostrabile, una nuova
comprensione del mondo e una nuova rappresentazione sul mondo. Al
centro di quella deve essere la vita come eccezionale fattore
sovversivo della vita intesa come eccezionale fattore repressivo: la
ricostituzione dell'umanità senza unità teologiche.
Nessun uomo vero e nessuna umanità autentica in questa prospettiva: in
questa prospettiva gli aggettivi vero e autentico in riferimento
alla natura umana e alla società saranno per sempre banditi.
Noi abbiamo bisogno di un uomo divino ma senza teologia.
Stiamo, giorno dopo giorno, constatando la bestialità dell'attuale
divinità umana: la pulsione immediata verso la morte, dove la vita si
dimostra indipendente dalla produzione, cioè indipendente da sé
stessa, dove si manifestano irriducibilità alla produzione emerge
immediata la condanna etica, antropologica e la negazione
dell'umanità, un problema verso la specie, una fonte di non
appartenenza alla specie. L'uso della forza militare, un tempo
limitata ai confronti tra Stati nazionali, oggi è diventata diffuso
dentro i singoli Stati, da parte degli stessi Stati contro i suoi
cittadini o di altri Stati egemoni economicamente contro i cittadini
di altri Stati. Il fatto che in tutte le guerre dal 1936 in qua siano
i civili i principali obiettivi e combattere al fronte sia quasi un
privilegio in tempo di guerra è paradigma di questa guerra contro la
specie per ottenerne il miglioramento. Per questi episodi troveremo
certamente innumerevoli precedenti storici ma non troveremo un'epoca
in cui l'umanità è pensata come un ostaggio di sé stessa per la sua
redenzione.
La produzione, paradosso questo di una società che pretende di
realizzare e non di produrre, è diventato uno schematismo più
importante dell'economia, come se il prodotto avesse conquistato sé
stesso e in nome di questa conquista dicesse: “Ecco io non sono più un
prodotto, ma un'idea pura, non sono più produzione ma ideazione”. Il
trascendente si fa carne, si fa vita, si fa uomo, biocapitalismo nel
senso corretto dell'etimo.
Precisamente come si coniuga con la destrutturazione dello Stato
sociale e dello Stato di diritto, con l'economia della penuria e con
le democrazie autoritarie di massa, il biocapitalismo si sposa con il
progressivo impoverimento dei popoli che hanno vissuto nel capitalismo
egemone, quindi che hanno sperimentato abbondanza di merci, diritto e
assistenza pubblici. L'impoverimento dei proletari nella prima parte
del mondo non comporta affatto un arricchimento per quelli dell'altra
parte: non c'è la benché minima compensazione o riflusso di risorse.
Il privilegio diviene un privilegio minore, un privilegio più povero,
ma rimane privilegio e anzi, impoverendosi, si sente più facilmente
minacciato e tende ad assumere patologie isteriche, ansiose e
angoscianti, patologie poliziesche e militari. L'impoverimento è
davvero globale, riguarda tutti, e si accompagna ovunque alla perdita
di significato della socialità, che è come dire, in altre parole, la
perdita di senso dell'esistenza.
Accade in generale, ma in particolar modo nelle realtà
capitalisticamente egemoni, che l'esistenza diviene fatto
assolutamente individuale che assume socialità, e quindi senso
biologico, solo sussumendosi agli schematismi della produzione. Negli
stati che non hanno conosciuto la modernità questo provoca un trauma
nell'immaginario, uno choc e il ritorno al passato, al vissuto delle
generazioni precedenti, si propone come una fuga disperata verso un
improbabile futuro.
Il senso biologico della nostra specie è la vita in comune, la
cooperazione e la partecipazione; l'essere parte viene restituito dal
biocapitalismo come partecipazione a una biologia individualizzata che
è la negazione della nostra biologia, della nostra specie, anche se si
presenta come sua esaltazione. Il biocapitalismo, al contrario del
capitalismo industriale e manifatturiero, non semplifica, anzi mette
in produzione la complessità, e per certi versi riprende i canoni
delle società premoderne e precapitaliste, ma la interpreta in maniera
semplice: la rivela come fatto complesso, come effettivamente è, ma la
semplifica nell'articolazione delle interpretazioni scientifiche che
si svolgono, anche rispettando una certa onestà intellettuale, sui
molteplici livelli dell'umano. Le diverse e raffinatissime e
altrettanto utili discipline scientifiche della contemporaneità
adottano un metro unico, concorrono a costituire un metro unico, una
indimostrabile e aprioristica teologia dell'umano.
Il biocapitalismo si avvicina all'uomo, è terribilmente umano, troppo
umano, e ha rotto ogni teleologia sociale, ogni futuro, perché il telos
e il futuro sono già nel presente; il biocapitalismo pretende di
chiudere la storia e di realizzare l'uomo. È riuscito ad appropriarsi
di tutto il repertorio dell'umano: ha ereditato l'appropriazione del
tempo di lavoro da tutte le società precedenti, nella forma
perfezionata dal capitalismo manifatturiero, l'appropriazione della
produzione intellettuale dal suo immediato precedente, il capitalismo
sociale e keynesiano, e ha sfondato le porte dell'emotività,
dell'immaginario, dell'affettività e della morte. Ora tutto l'umano è
rinchiuso nel capitale.
Le lotte degli anni sessanta e settanta dello scorso secolo, i
movimenti degli anni novanta, la lotta e contestazione contro il
capitale finanziario nel primo decennio di questo millennio, sono
percorsi inversi. Moltissime cose, in questi percorsi, ricordano il
socialismo premarxista, l'utopia, l'anarchismo ottocentesco e molte
battaglie degli albori del capitalismo intorno ai diritti e alle cose
da stabilirsi come comuni. Il marxismo è in crisi, nella misura in cui
alla crisi della scienza economica capitalista corrisponde la crisi
della scienza economica operaia: due realismi antitetici sono
scomparsi e dobbiamo delineare un nuovo e solo realismo, poiché sarà
solo di parte. Ma non un realismo antitetico, un altro realismo, un
realismo rivoluzionario, invece, mentre il realismo storico è
monopolio del trascendente biocapitalista.
Sabato, 26 marzo
Annotazione. [Il sogno della ragione e l'operaio sociale] Sembra di
essere all'opposto del mito illuminista secondo il quale durante il
sonno della ragione si risvegliano i peggiori incubi; oggi, invece, è
la ragione, la comprensione scientificamente articolata ma
semplificata, non solo a generare incubi ma essere incubo essa stessa.
La ragione affronta la complessità solo in funzione del suo controllo,
della sua sistemazione in un unico metro. Quindi quest'incubo non è
affatto un sogno semplice e facilmente decriptabile, ma complesso
nella sua cifratura. La ragione socializzata del biocapitalismo
organizza una serie interminabile di trinceramenti, ciascuno semplice,
contro la critica, riposizionandosi continuamente e spostandosi di
continuo.
Quando, come oggi, il processo sociale è un processo umano,
inevitabilmente deve divenire bersaglio critico non solo l'uso della
ragione ma la ragione stessa, la definizione stessa, l'idea stessa di
razionale.
Cosa c'entra l'operaio sociale in tutto questo?
C'entra, c'entra perché non può che essere un soggetto storico e
sociale, ma che esce dalla categoria sociologica di soggetto a
impugnare questa critica e impugna questa critica proprio perché esce
dalla categoria sociologica di soggetto e ha interesse per questo
verso una critica radicale.
Domenica, 27 marzo
Annotazione. [Biocapitalismo e Stati nazionali, Bozze analitiche] Il
capitalismo contemporaneo tende a conformare uno scenario dominato
dalla stratificazione delle divisioni di classe su base
internazionale. Il rischio di un simile scenario sta proprio nella
diversità di partenza nella costruzione e partecipazione allo
scenario. La stragrande maggioranza dell'umanità, i 4/5 per lo
meno, ha conosciuto il capitalismo industriale, quando lo ha
conosciuto, come espressione dell'imperialismo nei primi tre quarti
del novecento, quindi come presenza esterna e non ha conseguentemente
sperimentato la modernità in tutta la sua ampiezza, complessità e nel
suo equilibrio, nell'equilibrio tra le parti che la componevano
(economia, politica, cultura e filosofia), cioè come stato storico
equilibrato e stabile. Il capitalismo è stato per la maggioranza
dell'umanità un'aggressione esterna che ha rotto i precedenti
equilibri interni.
La decadenza dell'imperialismo e la sua sostituzione con il
biocapitalismo, ha fatto in modo che il dominio capitalistico
surcodificasse queste differenze, per certi versi le interiorizzasse.
La divisione di classe interna ai paesi capitalisticamente egemoni si
proietta sullo scenario internazionale, riproducendosi in quello. La
divisione del lavoro internazionale non decide più della collocazione
sociale e dei livelli di reddito dei popoli, come durante il
taylorismo, la divisione del lavoro passa trasversalmente i
diversi paesi, ma è la divisione di classe a massificarsi nei rapporti
tra gli stati nazionali. Certamente nei paesi non egemoni ma
egemonizzati dal capitalismo, la costituzione di capitale solitamente
è più bassa e i modi di produzione fanno spesso riferimento
all'industria e alla manifattura, cioè al passato 'materiale' del
capitalismo, l'elemento decisivo, però, nella divisione è il livello
del reddito, dei servizi e delle strutture sociali.
Gli Stati nazionali hanno il compito di codificare questa divisione
internazionale di classe, senza, spesso, poter fare a meno di
registrarne l'asimmetria, l'ingiustizia e l'arbitrarietà. Già nel
passato, in epoca imperialista, in realtà, i popoli e le popolazioni
dei paesi egemonizzati rivendicavano, attraverso la nazionalità, i
loro diritti sociali essenziali, ritenendo sinceramente che la
soluzione dei loro problemi potesse passare attraverso l'acquisizione
di potere e potenza dello Stato nazionale di loro riferimento;
pensiamo al 'diritto di autodeterminazione dei popoli' teorizzato
dalla terza internazionale o al movimento dei paesi non allineati
degli anni cinquanta e sessanta del XX secolo.
Questo sostrato di fondo, questo 'nazionalismo' ereditario permane,
nei paesi non egemoni, ma si unisce con qualcosa di completamente
nuovo che rende lo scenario internazionale ancora di più leggibile
secondo lo schema, valido alla fine dell'ottocento per la classe
operaia europea, di una lega che difende gli interessi di una
'aristocrazia operaia', la lega dei paesi egemoni, contro gli
interessi dei proletari comuni, la lega dei paesi egemonizzati.
Ovunque, in verità, e questo è un sentimento comune dell'epoca
biocapitalistica, che attraversa ogni regione, un fatto globale, come
si ama dire oggi, sorgono identità geografiche nuove, nuovi legami sul
territorio, che spesso coincidono ma altre volte si contrappongono
alla geografia nazionale.
L'emergere di nuovi nazionalismi, quindi di nuove definizioni
geografiche e appartenenze, si coniuga anche con l'emergere di nuove
forme di appartenenza e di identità che aggirano e ignorano il
concetto tradizionale di nazione. Ai due estremi e in rivalità, e
paradossalmente limitrofi geograficamente, incontriamo, per esempio,
il federalismo inclusivo dei movimenti guerriglieri del Kurdistan, o
il cosmopolitismo islamico rivoluzionario del califfato sunnita
dell'ISIS, ma paradossi simili attraversano l'Europa, da Podemos e
Siriza, dal Front National alla Nuova destra tedesca di Alternativa
per la Germania, dall'autonomismo scozzese al leghismo italiano.
La mia impressione è che, oggi, gli Stati nazionali continuano a
svolgere il compito di rappresentare la stratificazione sociale
mondiale solo a livello ideologico, ma il vuoto di questa
rappresentazione diviene ogni momento più chiaro e viene riempito da
identità più forti e più radicate, che non fanno riferimento alla
modernità ma, in gran parte, alla premodernità. Gli Stati nazionali
dei paesi egemonizzati capitalisticamente non sono fonte di
equilibrio, precisamente come non è stata equilibrata la loro
modernità.
Il biocapitalismo, affidando agli Stati nazionali il compito di
amministrare la stratificazione sociale mondiale, è perfettamente
consapevole della storica inadeguatezza dello strumento e che oggi
questa è diventata esplosiva, contemporaneamente il governo delle
nuove forme identitarie è problematico, fino al punto di generare
scenari di guerra civile internazionale, senza la sponda di una
struttura giuridico – politica sul territorio calibrata sul modello
dello Stato nazionale.
La stratificazione, la divisione, con il declino degli Stati nazionali
provocato dalle nuove identità, territorialismi e geografie, si è
trasformato da prodotto di una mistificazione ideologica (il
nazionalismo delle nazioni povere), a un'ideologia che non dice nulla
di falso. In un'ideologia che è realtà.
La crisi dell'ideologia è causata dal suo trionfo definitivo: non può
esistere altra ideologia che quella che rappresenta i meccanismi di
dominio della realtà, e può essere unica e univoca, perché la realtà è
dominio.
Rivedi marzo
Inizio anno
Martedì, 19 aprile
Annotazione. [La Santa Alleanza semovente]La guerra civile mondiale,
lo stato di guerra non dichiarato che contraddistingue la guerra
civile ma che si estende al contesto internazionale, la guerra non
convenzionale, sono fatti nuovi, più o meno ultime novità. Queste
ultime novità sono certamente il prodotto delle nuove tecnologie
belliche, le tecniche nucleari, che rendono impossibile l'esercizio
della guerra tradizionale come guerra tradizionale, cioè come scontro
risolutivo, e fanno in modo che anche lo scontro tradizionale non
possa essere risolutivo e definitivo perché costretto a rimandare a
qualcos'altro, a un altro scontro inapplicabile e inattuabile.
La guerra nucleare ha reso meno attraente, sotto il profilo
dell'agibilità politica, la guerra tra Stati, l'antica guerra
imperialista.
Ma le ultime novità, quelle che portano a uno scenario molto simile a
una guerra civile mondiale, sono anche il prodotto del fatto che la
guerra, oggi, ha acquisito un altro senso e significato
indipendentemente dal rischio della catastrofe nucleare, un
significato che ha origini non tecniche ma squisitamente politiche.
L'antica guerra imperialista ha perduto la sua adeguatezza perché
manca la sua causa: non esiste più l'antico imperialismo. Per usare
una metafora geologica, il mondo imperialista prevedeva una tettonica
a zolle e lo scontro / frizione tra i continenti; il mondo post
imperialista prevede una sola zolla, nella quale passano direttamente
le discontinuità. Gli Stati nazionali, riuniti in blocchi e
coalizioni, agganciavano il mondo e il mercato mondiale formando
precise aree di interesse e di rapporti di produzione, una zolla
appunto, contrapposte ad altre precise aree e rapporti. Oggi le
tensioni attraversano gli Stati e i vecchi blocchi, li percorrono
dall'interno, e la zolla presenta delle fratture non individue, delle
fratture e non delle separazioni e rotture, incapaci di produrre una
singolarità internazionale. Queste fratture non separanti, invece,
sono capaci di mettere in relazione e connettere realtà diverse, aree
urbane europee con aree urbane indiane, aree agricole americane con
aree agricole inglesi, aree urbane americane con aree agricole
italiane, e intersecano, non unendole ma anzi attraverso la
frattura, livelli economici e sociali lontani, buttati lì come
segmenti. L'area del Brunello della campagna senese si interseca con
il marchio di distribuzione alimentare californiano e il marchio
californiano con la fabbrica messicana che produce tappi e bottiglie;
il quartiere di Delhi sperimenta le stesse forme di distribuzione
commerciale della periferia londinese, il quartiere ad alta
disoccupazione di Liverpool diventa un appendice della periferia di
Damasco, i quartieri residenziali del Cairo confinano con i centri
direzionali di Parigi. Queste fratture non separanti unificano secondo
molteplici livelli i diversi distretti geografici tradizionali che
tendono a divenire solo nomi capaci di identificare la direzione e i
poli del segmento, privi di qualificazione economica intrinseca. La
geopolitica è stata rivoluzionata non solo nelle forme enunciative ma
anche nella struttura. All'interno delle stesse vecchie e tradizionali
aree geografiche omogenee gli elementi caratterizzanti tendono a
scomparire; pensiamo alle aree urbane dell'occidente dove, sempre più
spesso, la diversificazione tra centro e periferia, costruita
tradizionalmente su base geografica, che era una differenza visibile
sul territorio, nella topografia stessa, si mitiga per dare luogo a
molti centri e molte periferie che attraversano e rompono i vecchi
concetti geografici di centro e periferia.
Questa nuova geopolitica distrugge le specificità locali, per
costruirne delle altre che, apparentemente, esaltano la tradizione per
riscriverla radicalmente. Il localismo attuale si costituisce
sull'esaltazione del genius mundi operante sul luogo e non
certo sul genius loci, per usare categorie classiche e
paganeggianti.
Anche per questi motivi, l'aspetto del conflitto internazionale
contemporaneo è quello della guerra civile, della guerra intestina,
che spacca e attraversa i vecchi nomi geografici e le vecchie
nazionalità; questa guerra intestina passa oltre la geografia
tradizionale e scende in una nuova geografia, fatta di segmenti
geografici. La guerra internazionale è sempre più la manifestazione di
contrasti tra interessi che a volte coincidono ancora con quelli
nazionali, con il vecchio nome del distretto, ma che non si fondano su
quel distretto.
La forma della guerra civile, della guerra intestina, occulta la
ragione unitaria dei conflitti, la loro razionalità, ma rivela, in
verità, le caratteristiche di questa nuova razionalità. I conflitti
generano ancora da esigenze imperialiste che, però, si presentano in
forma polverizzata. L'imperialismo unico americano degli anni ottanta
e novanta, che ha rappresentato la forma di trapasso dall'imperialismo
multipolare all'imperialismo polverizzato, è rimasto il modello di
riferimento; il modello di riferimento attuale è un imperialismo
unipolare ma proprio per il fatto di avere questo riferimento
unipolare, l'imperialismo è profondamente cambiato e per certi versi è
abbastanza forzato dirlo ancora imperialismo.
Vi ricordate la Santa Alleanza, quel gruppo di monarchie che nella
prima metà del XIX secolo garantiva la Restaurazione post napoleonica?
Questa dell'attualità è qualcosa di simile alla Santa Alleanza a
componenti variabili e transitorie sorta allo scopo di garantire il
rapporto di produzione essenziale, mondializzato e unificato, è il
nuovo imperialismo che non è più imperialismo, che non è una nazione
che opprime e sovradetermina altre nazioni ma è una ragione economica
superiore, imperiale (secondo Negri e Hardt), che sussume ogni altra
realtà politica internazionale.
Questa Santa Alleanza semovente è a sua volta sussunta alla
razionalità, al lessico e al linguaggio del capitalismo internazionale
ma, precisamente come le alleanze tradizionali, lascia liberi alcuni
campi, alcuni settori di interesse marginale o privi di qualsiasi
interesse, che un tempo avrebbero provocato conflitti nazionali
secondari, mentre oggi portano con sé guerre civili, guerre per bande,
lotte armate nelle periferie del mondo non capitalisticamente egemone,
a causa di quelli che nel diritto penale sarebbero detti futili
motivi. I casi del Ruanda, quelli del Burundi, non vanno considerati
come elementi di atroce colore locale, di cronaca locale, ma al
contrario come il segnale di un generale imbarbarimento dei rapporti
internazionali, che di pari passo seguono l'imbarbarimento
provocato dall'uso di un solo linguaggio, di un unico lessico e di una
razionalità unica distesi da un dominio economico unico mondializzato.
La guerra, così, perduta la sua convenzionalità, tende ad assumere i
due caratteri, apparentemente contrapposti ma in realtà complementari,
della guerra a bassa intensità, alta tecnologia e professionalizzata,
gestita direttamente dalla Santa Alleanza semovente e biocapitalista,
e della guerra ad alta intensità umana, bassa qualità, dequalificata
tecnicamente e di massa che si sviluppa ai margini dei processi
bellici principali e controllati.
Mercoledì, 20 aprile
Annotazione. [L'ultimo imperialismo] Panama e Grenada, l'attacco
all'Iraq durante la prima guerra del golfo, l'appoggio alla guerriglia
afgana avevano coronato l'illusione di poter ereditare le dinamiche e
metodologie imperialiste sotto l'ombrello di un solo blocco, di una
sola dimensione geografica.
In centro America la politica delle cannoniere, in Iraq il rituale
contrasto con un alleato scontento per l'esiguità della sua
ricompensa, in Afganistan il colpo risolutivo a un avversario morente.
Gli ottanta e i novanta furono i decenni dell'imperialismo a una
dimensione, che si muoveva ancora secondo gli stilemi di un mondo
bipolare. Gli Stati Uniti d'America erano una supernazione, garante
della stabilità di tutte le altre nazioni.
Questa impostazione generava fastidi, insofferenze ma soprattutto era
inadeguata agli scopi del capitalismo multinazionale. L'attacco alle
torri gemelle del 2001 ha reso manifesta alla storia questa
insofferenza diffusa, ma anche la sua natura che si rivelava,
tragicamente, nuova.
Il terrorismo internazionale diventava una forma di guerra a pieno
titolo e proprio in quanto terrorismo internazionale.
Il terrorismo diventava forma di guerra in quanto capace di produrre
effetti mediatici, emotivi, eclatanti, propri degli episodi della
guerra di massa convenzionale, e in quanto guerra, strumento
per colpire, in maniera il più possibile devastante, il nemico. Gli
Stati Uniti d'America sono stati colpiti, nel 2001, non perché erano
uno Stato imperialista, ma perché erano uno Stato che pretendeva di
riassumere in sé i caratteri globali dell'imperialismo; il nuovo
imperialismo, il capitalismo globalizzato, il biocapitalismo hanno
costituito un processo spontaneo e parallelo al vecchio imperialismo,
capace di rivelarne i difetti e le brecce, dentro le quali,
teatralmente e in un teatro non aperto a tutti, un teatro non pubblico
ma chiuso e riservato, hanno agito alcuni nuovi strumenti bellici. Qui
il dominio post fordista ha posto, cinicamente, gli Stati Uniti
d'America di fronte alle nuove responsabilità e ai nuovi rischi che la
posizione di interprete monopolistico delle esigenze del dominio
capitalistico globalizzato comportava, con un chiaro invito, per lo
spettatore accorto e invitato a quel teatro, a declinarlo. Il nuovo
capitalismo internazionale ha dimostrato tutto il suo disinteresse a
legarsi a un solo mastino, a uno Stato nazionale, seppur potente.
L'attentato del 2001 ha simbologie fortissime e precise: gli
attentatori sono sauditi, quando l'Arabia Saudita è il miglior alleato
dell'imperialismo unipolare in medio oriente; sono suicidi e martiri,
facendo riferimento alla specificità religiosa dell'area e a un nuovo
modo di combattere prossimo venturo e a una cultura della morte
diametralmente opposta e completamente disconfermante l'ideologia
della salute imperiale americane, della vita e della pienezza della
vita nei consumi, nel divertimento e nella riproduzione del capitale
che caratterizza il modello americano; gli strumenti di morte sono due
aerei da trasporto civile e l'obiettivo è un centro direzionale, un
nodo della nuova produzione del capitalismo immateriale e finanziario,
posto al centro della più importante metropoli statunitense. L' 11
settembre è il simbolo di una falla, che viene messa in
rappresentazione con tutta la sua sconvolgente ampiezza.
È anche un altro simbolo, in realtà il repertorio simbolico che
costituisce l'11 settembre è quasi infinito, il simbolo
dell'inadeguatezza dell'imperialismo unipolare incarnato dagli USA.
Mentre il biocapitalismo palesava pienamente la sua vocazione
cosmopolita, la sua capacità di usare tutte le contraddizioni distese
sullo scenario internazionale, il mastino del capitalismo
internazionale, l'imperialismo americano, subiva un 'complotto',
spontaneo e involontario come i processi spontanei e involontari
dell'economia, che ha coinvolto settori dell'intelligence
medesima statunitense, ha usufruito dell'indifferenza di altri
servizi di paesi alleati ed è stato portato a compimento da
gruppi ideologici che individuavano nella presenza americana in Arabia
Saudita un atto blasfemo.
É stata probabile la concorrenza di molti fattori tipici della
politica estera tradizionale nell'attentato del 2001 e nei suoi
dintorni, e quindi nulla di assolutamente nuovo, ma l'attentato e
soprattutto i suoi dintorni sono stati il sintomo (oltre che il
simbolo largamente voluto) di una nuova forma della politica estera
nella quale gli interessi economici mondializzati si organizzavano o
cercavano già di organizzarsi: il capitalismo internazionale
contemporaneo si organizza politicamente al di fuori degli Stati
nazione e del relativo paradigma dell'imperialismo. L'imperialismo è
ancora oggi una chiave di lettura valida dello scenario
internazionale, ma solo a patto di ridurre la sua sfera analitica a
procedure secondarie, a tecniche ed esecuzioni, non alla sostanza del
dominio economico internazionale che preferisce altre strade.
L'imperialismo, negli anni novanta, è diventato ingombrante anche
perché, cercando di coniugarsi con il capitalismo globalizzato gli
rendeva un pessimo servizio, esponendolo politicamente, rendendo
facilmente visibile la sua strategia e semplificandola eccessivamente;
in tal maniera cresceva ed è cresciuta la corrispondente critica di
massa al biocapitalismo globale, nonostante Negri e Hardt neghino
l'esistenza e la possibilità stessa dell'esistenza di cicli di lotta
internazionali, nella seconda metà dei novanta è difficile non pensare
a qualcosa di simile per quello che è accaduto nel sud e nel centro
America, negli Stati Uniti e anche in Europa. È stato, in realtà, il
cosiddetto e infelicemente detto movimento no global a
firmare l'atto di morte dell'imperialismo, che non fu applicato però
da una penna rivoluzionaria, anzi, ancora una volta e come al solito,
da un nuovo e inedito riformismo del capitale.
Venerdì, 23 aprile
Annotazione. [L'impero e l'imperialismo] La fine dell'imperialismo non
ha coinciso con la fine del dominio capitalista sul mondo. Negri ha
scelto, per la nuova fase del governo del capitale sul mondo, il
termine di impero. L'impero negriano è reticolare, non ha un
nucleo centrale, è formato da nodi e non ha, alla fine, una
costituzione politica e istituzionale. Negri e Hardt ritengono che
l'impero stia cercando di assumere una definizione istituzionale,
grazie alla quale sarà possibile contrapporre al complesso imperiale
un complesso repubblicano e quindi mettere in moto una nuova
dialettica. In tutta sincerità la penso in maniera opposta e i
fatti stessi pare la pensino così.
L'impero non ha alcun interesse a darsi un'istituzionalità
riconosciuta e soprattutto riconoscibile e non sta facendo nulla per
formalizzarla. La categoria di impero, anche se affascinante
e spesso utile, è sbagliata: spiega troppo, cercando di essere
esaustiva, ma non spiega quasi nulla. Il pregio principale del
concetto introdotto da Negri e Hardt sta nell'avere chiaramente
individuato la fine dell'imperialismo e il delinearsi di una nuova
epoca nello sviluppo del capitale e di averne descritto alcuni
elementi, ma, paradossalmente, non il più importante. Devo annotare
che gli autori hanno mancato di coraggio nel trarre le conseguenze
della loro stessa analisi e si sono fatti dominare, in fondo, da un
ottimismo illuministico nei confronti della forza e potenza storica
del diritto. La fine / rovina del capitalismo impone di tirare una
conseguenza drastica, invece: la fine delle regole e del diritto
internazionale, alle quali anche l'imperialismo faceva riferimento,
anzi che permettevano all'imperialismo di manifestarsi come
oggettività e legalità. Oggettività e legalità c'entrano poco con
l'impero che non è affatto il prodotto di una repubblica tradita nel
seicento, che riposa insonne lungo tutta la storia del capitalismo;
quella repubblica se mai è esistita è sepolta, morta e non potrà
essere la repubblica del domani che sconfigge l'impero insidiandone le
istituzioni. I rapporti tra Stati fanno, invece, riferimento ai
rapporti tra individui e a un mistificato e reinventato stato di
natura antropologico internazionale, nel quale, inoltre, questi
individui sono scissi e privi di identità e, anzi, la mutevolezza e le
continue scissioni sostituiscono la struttura tradizionale
dell'identità nazionale.
Venerdì, 29 aprile
Annotazione. Il capitalismo post moderno e la sua costituzione
internazionale, costituzione reale e pragmatica, hanno la capacità di
imporre e coordinare una stratificazione sociale planetaria. Questo
non era mai accaduto prima, anche se era stato già anticipato da
alcune e limitate esperienze storiche tutte di epoca moderna,
soprattutto nel nazismo e, in misura minore, nel fascismo. Segmenti,
continenti, tendenzialmente (l'uso di questo avverbio è davvero
obbligatorio) aristocratici, secondo la categoria marxista di un
aristocrazia operaia dotata di reddito, diritti civili, diritti
politici, diritti sociali, apparente controllo del lavoro e
realizzazione sul lavoro, e segmenti, continenti tendenziamente
devalorizzati, dequalificati, poveri di diritti e di reddito, senza
nessun rapporto con il lavoro che non sia precario e di assoluta
subalternità, secondo la categoria marxista degli operai comuni.
In questo scenario che si congiunge e affianca con molto altri scenari
e altri paradigmi, con livelli diversi che corrono paralleli ma anche
in maniera stridente e contrapposta, il proletariato di una parte del
mondo ha cessato di pensare sé stesso come proletariato e,
addirittura, i poveri di quella parte del mondo stanno imparando a non
avere coscienza della loro povertà, mentre il proletariato e i poveri
dell'altra parte del mondo stanno consolidando una visione
pauperistica di sé e del proprio riscatto, un'ottica premoderna.
Questa capacità del capitalismo contemporaneo di controllare e
coordinare gli elementi sociali a livello internazionale ha certamente
reso archeologica ogni residua ipotesi leninista, il partito
rivoluzionario, anche nel mondo proletario dominato dalla penuria, ma
anche messo ineluttabilmente in discussione il neomarxismo della
seconda metà del XX secolo, secondo il quale la 'maggioranza',
l'organizzazione di massa, diffusa e diversificata si sarebbero fatte
carico della trasformazione rivoluzionaria della società.
Paradossalmente, però, oggi è più attuale l'archeologia di Lenin che
non il rinnovamento di Krahl, Negri e Bologna, come se, nel XIX
secolo, il calvinismo fosse ritornato a essere più cogente
dell'illuminismo.
La stratificazione sociale planetaria, inoltre, oltre che essere nuova
di per sé, deriva da un carattere inedito anche per le strutture
stesse del capitalismo: non sono il lavoro, l'intensità del lavoro, la
produttiva del lavoro e le quote di lavoro necessario a
conformare la gerarchia, se non nella finzione ideologica, nella
narrazione come si usa dire; la gerarchia sociale planetaria nasce da
una distribuzione ineguale del reddito, organizzata e strutturata in
maniera arbitraria sotto il profilo dell'economia classica, ma
perfettamente legittima sotto il comando della nuova economia
liberista, nella quale economia e politica e pensiero politico si
compenetrano in maniera indistricabile. Incontriamo, dunque, una
doppia novità e forse esponenziale.
In secondo, ma non certo ultimo luogo (i luoghi, i punti tematici di
questo processi potrebbero essere enunciati per serie infinite), è la
scomparsa di circuiti di comunicazione delle esperienze di lotta e
opposizione. Abbiamo assistito alla dissoluzione dei partiti politici
tradizionali del movimento operaio, all'incapacità dei proletari di
riconoscersi come soggetti e di elaborare soggettività, fortissima
questa impotenza nei paesi egemoni capitalisticamente, oppure, nei
paesi non egemoni, nei segmenti poveri e devalorizzati, verifichiamo
la capacità di sentirsi soggetti unitari ma l'incapacità di elaborare
una soggettività adeguata che, alla fine, trasforma questo soggetto
unitario in un composto premoderno e pauperistico.
Nell'epoca delle reti telematiche, in quella che sarebbe potuta essere
l'epoca del villaggio globale, come si diceva un tempo, con
un termine che ne centrava involontariamente le potenzialità
progressive, viviamo il paradosso del fatto che lo scambio di
esperienze critiche e antagoniste, almeno in apparenza, si è
assottigliato fino a dissolversi.
E allora potrebbe essere necessario ragionare ancora sul soggetto
indimostrabile, non solo per capire il faticoso occidente ma trovare
segmenti e unioni possibili tra la periferia di Delhi e quella di
Milano, che magari passano per alcuni rioni del Cairo.
Rivedi aprile
Inizio anno
Venerdì, 6 maggio
Annotazione. [Lavoro intellettuale e lavoro manuale] Trovo che si è
troppo enfatizzato, in moltissima letteratura, sebbene con ovvie
diversità nelle sfumature, il ruolo e l'importanza del lavoro
cognitivo e creativo e della produzione immateriale, intellettuale,
non fisica e digitale. Solo alcuni nomi che ho incontrato in
quest'enfasi: l'ultimo Negri, Berardi e Virno.
Io rivedrei volentieri, invece, l'assunto secondo il quale la
produzione immateriale è il fattore caratterizzante, da un punto di
vista strutturale, dell'attuale produzione capitalistica, e insieme
con quello l'assunto secondo il quale non è più possibile oggi
scrivere di strutturale e sovrastrutturale. Contesto, in questo
ambito, la perdita di senso che viene spesso denunciata del concetto
di valore orario e di lavoro necessario, che, al contrario, proprio
per le trasformazioni occorse sono concetti che vanno ben tenuti a
mente.
La perdita di senso dei concetti di orario e lavoro necessario si è
verificata solo nella misura in cui, e limitatamente ai paesi
capitalisticamente egemoni, il lavoro cognitivo ha acquisito, in
alcuni segmenti produttivi e negli stilemi sociali consolidati, un
ruolo predominante nella distribuzione del reddito, nella maniera di manifestare
il lavoro al lavoro, contribuendo a conservare la sua facies di
reddito da lavoro. In questo senso e in questa misura, il lavoro
cognitivo appare veramente come la forma prevalente e decisiva del
lavoro umano dell'attualità.
Sono, però, convinto del fatto che la grande trasformazione del
capitalismo, il passaggio dal fordismo al post fordismo, si basa sul
terreno della produzione materiale, sul terreno della produzione
dell'essere, in una parola nel lavoro materiale, del vecchio e
filosoficamente sotterrato, lavoro operaio. La rivolta del lavoro
materiale e le molteplici risposte a questa rivolta hanno determinato
la radicale trasformazione della sostanza della produzione materiale,
fino al punto che l'apparenza del processo si è presentata come
sostanza. La parola chiave, negli anni settanta – novanta del secolo
scorso, è stata: riduzione ai minimi termini del lavoro vivo,
immediato, necessario alla produzione del valore di scambio e alla
generazione del profitto. La riduzione ai minimi termini del lavoro
vivo, immediato e necessario ha permesso una moltiplicazione della
quantità del lavoro superfluo, del surplus, del plusvalore.
Questo ha provocato una liberazione di energie e risorse produttive
dal lavoro materiale verso altre destinazioni, consentendo di
costituire il volume di massa del lavoro intellettuale e cognitivo che
sicuramente si svolge attraverso i paradigmi descritti da Negri e da
Virno. Ha anche, però, causato nella produzione materiale degli
elementi che ritroviamo, solo dopo, nel lavoro cognitivo: in realtà,
il paradigma del lavoro post moderno nasce nel lavoro manuale, nel
lavoro vivo e immediato, ed è stato esportato in quello intellettuale
e cognitivo.
Il just in time, l'eliminazione del magazzino e la
flessibilità produttiva schiacciata per intero sulla domanda hanno
determinato nella manifattura industriale l'adesione ai meccanismi del
mercato, là dove si era abituati a produrre progettando il mercato.
Questo processo non ha toccato solo la manifattura ma tutti settori
produttivi e anche segmenti del lavoro materiale come l'edilizia,
l'industria alberghiera e la grande distribuzione commerciale.
Le metodiche tipiche di quello che Marx chiamava 'lavoro
improduttivo', contrassegnate dal servilismo verso la clientela, verso
il mercato, hanno invaso anche il lavoro produttivo, inteso tanto come
impresa, quanto come dipendente.
La grande produzione di massa richiedeva un governo del mercato da
parte delle imprese; le imprese utilizzavano una rigidità produttiva
che imponeva un'analoga conformazione del mercato. Alla rigidità delle
imprese verso il mercato corrispondeva una rigidità dei lavoratori nei
confronti delle imprese. Come gli operai di fabbrica erano una
variabile indipendente della produzione, così la produzione
capitalistica tendeva a essere una variabile indipendente dal mercato,
costituendolo in larga misura. La miniaturizzazione dei tempi del
lavoro necessario, oltre che liberare enormi quote di lavoro, ha anche
liberato enormi quote di profitto che si è riversato, in forme
diverse, sul mercato; il mercato ha assunto, così, centralità nella
determinazione dei profitti e indipendenza dai valori costruiti nella
produzione. In questo contesto la variabile indipendente è diventata
il mercato, mentre lavoro e impresa, accomunate sotto questo aspetto,
al medesimo destino, sono diventate esclusivamente sottoposte
all'eterodirezione del mercato.
Domenica, 8 maggio
Annotazione. [Dieci punti] Ogni tanto conviene puntualizzare e questo
sarà il caso di una breve, imprecisa e squisitamente assertoria
puntualizzazione.
Punto uno. La borghesia, come classe, descritta secondo gli stilemi
marxisti, non esiste più. Non esiste più neppure se considerata
semplicemente come formazione sociale, come ceto, come strato di
proprietari dei mezzi di produzione industriale.
Punto due. Il capitalismo sopravvive senza borghesia, cioè senza la
sua classe di riferimento; è un capitalismo, quello contemporaneo,
senza borghesia, ma è anche un capitalismo oltre il capitalismo, per
parafrasare la più che indovinata figura retorica di Negri nel suo
'Marx oltre Marx'. L'adeguatezza di questa figura retorica indica una
corrispondenza interessante: al superamento del pensiero di Marx
corrisponde il superamento del capitalismo, come al carattere
profetico dell'opera di Marx nei Grundisse corrisponde il carattere
profetico dell'attualità del capitalismo. Blade runner senza
necessità di replicanti è tra noi e blade runner è la
profezia del capitalismo.
Il capitalismo non ha più una proprietà individuale, ma una proprietà
assolutamente e rigorosamente anonima, astratta e collettiva, e ha
superato uno dei suoi elementi fondanti, la proprietà
individualizzata, personalizzata, dei mezzi di produzione. Il
capitalismo è oggi socialista. Il capitalismo è oggi un socialismo
governato dagli amministratori delegati, dai gestori dei pacchetti
azionari, dalle quote sociali, da un'intelligenza collettiva che è
essa stessa, socialisticamente, un sistema sociale che astrae i
rapporti sociali e li rappresenta.
Punto tre. Il capitale, slegato da una classe di individui, è
diventato anche nei suoi modi di governare, anche nella sua forma
politica, un fatto astratto. Il capitale non si genera più attraverso
l'asimmetria del rapporto di lavoro salariato, che, in qualche modo,
lo personalizzava, ma nel reinvestimento delle enormi risorse
finanziarie ottenute attraverso la miniaturizzazione del lavoro vivo,
immediato e necessario; il capitale è diventato immediatamente denaro,
l'astratto per definizione.
Punto quattro. Il capitale che va oltre il capitale rimanendo
capitale, non genera dunque più lavoro salariato e non percorre il
valore del lavoro orario come valore che fonda la prestazione di
lavoro. Rimanendo capitale, però, impone la subordinazione del lavoro
vivo usando altri metri e misure: il tempo di lavoro è sussunto
attraverso altre metriche, poiché il tempo di lavoro diventa tempo di
vita comandata non attraverso la mediazione della produzione oraria,
ma direttamente attraverso la finzione della paga oraria che NON paga
il lavoro necessario, ma la vita stessa dell'individuo. È
biocapitalismo, è potere sugli individui e sulle vite, in quanto
produzione di stili di vita e di individualità.
Punto cinque. Il capitale va oltre il capitale ma il proletariato non
è andato oltre il proletariato. Il proletariato rimane proletariato
poiché è costretto, per vivere, a vendere la propria vita non sotto
forma di lavoro produttivo ma sotto la forma, ben più generale, di
vita comandata.
Punto sei. L'economia non descrive il capitale e il suo sviluppo, ma
descrive piuttosto il dominio del capitale. L'economia non è più il
campo del confronto tra capitale e lavoro, ma è esterno a questo
confronto. L'economia è diventata il quadro del dominio del capitale
sul mondo, sulle società, sulle popolazioni e sulla vita. In tal
contesto l'economia ha cessato di essere scienza autonoma dal sistema
sociale, sebbene la sua indipendenza sia stata relativa e mai
assoluta, ed è divenuta l'involucro che permette al sistema sociale di
riprodursi e non in quanto sistema economico ma in quanto, appunto,
sistema di dominio sociale. Si verifica oggi il paradosso di una
società planetaria nella quale l'economia, il danaro e la finanza sono
il nucleo, il perno adatto a basare tutti i valori, mentre l'economia,
il danaro e la finanza non hanno un nucleo, un perno e una fondazione.
L'economia, quindi, non è neanche più scienza del dominio, ma solo
tecnica di esecuzione diretta del dominio.
Punto sette. La dequalificazione della politica. La politica non
amministra più la sovranità popolare e si riduce a essere una tecnica
dell'amministrazione delle risorse che il capitalismo destina, in
luoghi non politici ma 'economici', alle infrastrutture economiche e
sociali. La tecnica dell'amministrazione del pubblico, inoltre, è
diventata anche tecnica dell'amministrazione di sé medesima.
L'economia è il vero discorso politico e la sovranità popolare,
equiparata non senza un certo machiavellismo alla sovranità nazionale,
scompare.
La dequalificazione della politica ha comportato la drastica (e
facilmente verificabile) riduzione della professionalità del ceto
politico, l'abbandono definitivo di ogni interfacciamento e rapporto
di filiazione della politica con l'ideologia e la filosofia. La
politica, nata come scienza dell'amministrazione nel XVII secolo, è
diventata una tecnica per una scienza che non è politica, l'economia.
L'economia è a sua volta una tecnica comunicativa e ideologica per il
dominio sociale. Lo scadimento verso il basso delle facoltà
intellettuali coinvolti in entrambe le discipline è inevitabile.
Punto otto. La riduzione della politica a scienza amministrativa, che
è poi il suo ruolo genetico e storico (tolta la parentesi della
modernità matura o adulta), comporta e sottintende la crisi
generalizzata della democrazia parlamentare e rappresentativa. Le
forme di organizzazione del consenso non passano più attraverso
discorsi o narrazioni fondati filosoficamente, politicamente o in
maniera ideologica, attraverso una struttura di elaborazione e
analisi; i partiti politici della modernità, parallelamente a questo
le cerimonie democratiche, i momenti elettorali, comportano sempre
meno progetti politici contrapposti e sempre più tecniche
comunicative, psicologiche e sociologiche adeguate a governare risorse
economiche che sono sempre ineluttabilmente date, determinate e
altrove, insindacabilmente, stabilite. Non si tratta per i partiti, i
comitati e 'le ideologie' politiche contemporanee di progettare lo
sviluppo ma di organizzare la società istituzionale in funzione dello
sviluppo che si dà completamente al di fuori di quella. Il politico è
oggi un amministratore di basso profilo, infimo profilo, perché
gestisce una quota parte ridicola delle risorse economiche, che è la
quota parte destinata al pubblico dal biocapitalismo.
Punto nove. Il riemergere, rivisitati, dall'antichità e premodernità
di rapporti di produzione, mentalità e cultura produttive e relazioni
sociali pre – capitalistici: rapporti servili e di colonato, nella
relazione di lavoro, rapporti di uso e usufrutto, nella relazione con
le merci e con il possesso individuale, di condivisione asimmetriche
con le tecnologie. Tutti istituti che l'antichità classica ha ben
conosciuto.
Punto dieci. Stabilisce la fine della puntualizzazione.
Venerdì, 20 maggio
Annotazione. [L'impresa dispersa nel post fordismo]. È stato nella
produzione di beni materiali che si è verificato il trapasso da
moderno a post moderno e non altrove. Il lavoro intellettuale non
aveva autonomia per deciderlo e fondarlo, ma solo per definirlo
compiutamente; è stata la produzione dell'essere a decidere e fondare
la produzione delle idee su scala industriale, dopo è apparso che
fosse stata la produzione di idee a sovradeterminare quella
dell'essere, ma solo è un ribaltamento abbagliante e affascinante. Il
toyotismo degli anni ottanta è stato esemplare di questo per ciò che
riguarda la grande industria, ma, in generale, erano emersi modelli di
produzione flessibile in tutti i comparti produttivi fin dal decennio
precedente. Questi modelli, indubbiamente, hanno messo in crisi non
solo la classe operaia ma anche la struttura dell'impresa
capitalistica tradizionale, che era basata su una rigida gerarchia del
lavoro e un comando di impresa disposto per livelli verticali. Da
allora il comando sul lavoro operaio ha iniziato a esprimersi
attraverso strumenti orizzontali, livelli di controllo disposti
orizzontalmente; questo ha comportato l'esportazione della gerarchia e
del comando di fabbrica al di fuori della grande azienda
manifatturiera e la sua ricaduta e riversamento su imprese limitrofe.
Le imprese limitrofe smettevano di fare riferimento all'organizzazione
del lavoro di fabbrica e recuperavano molti elementi
dell'organizzazione del lavoro artigianale, del mestiere e della
professionalità. La gerarchia su questo lavoro distribuito si fondava
sull'acquisizione di una particolare competenza da parte delle imprese
nei riguardi di un altrettanto particolare settore del ciclo
produttivo; il ciclo produttivo era disseminato al di fuori della
fabbrica e sempre più spesso la tipologia di queste imprese era
quella di una piccola o micro impresa specializzata in una particolare
lavorazione.
Sabato, 21 maggio
Annotazione. [Lavoro manuale nel post fordismo] Spesso, ancora, una
particolare lavorazione non veniva assolta usando un'alta costituzione
di capitale, un'alta tecnologia, ma (e questo comportava la
'professionalità' o quantomeno una sua componente) la quota di
intervento diretto, immediato del lavoro vivo era determinante. Il
capitale, esportando la sua gerarchia di comando sul ciclo produttivo,
decideva, quindi, che per alcuni segmenti produttivi il lavoro
manuale, il lavoro fisico e spesso la manualità restavano nucleari e
fondamentali.
Emblematico può essere il caso dell'edilizia dove, già negli anni
settanta, la tendenza a compiere le opere attraverso trust
di imprese individuate e divise per compiti e competenze si è fatta
avanti. Queste imprese non condividevano affatto il medesimo livello
tecnologico, anzi potevano lavorare insieme proprio perché non lo
condividevano.
Quello che intendo affermare è che già nella produzione industriale
del tardo capitalismo manifatturiero (in una parola il periodo 1950 –
1970) si è verificata la tendenza a rendere il lavoro nuovamente
'professionalizzato', anche in un contesto di assoluta
dequalificazione del lavoro e della riduzione drastica del lavoro
necessario; questa tendenza è stata sperimentata nel lavoro produttivo
di beni materiali, nella produzione dell'essere.
Con la fine del taylorismo e con l'emergere del mercato come
'variabile indipendente' verso lavoro e capitale, l'importanza della
logistica è aumentata esponenzialmente. La logistica corrisponde e
deve rispondere alle mutevoli esigenze del mercato e poiché il mercato
viaggia in tempo 'quasi reale' anche la logistica deve viaggiare in
tempo 'quasi reale'. Questo viaggio verso il just in time è
il risultato di una digitalizzazione telematica delle comunicazioni
interaziendale e intraziendali, e in genere delle comunicazioni
'pubbliche', dell'abbandono della voce fisica e di quella
telefonicamente trasportata, dei tempi geografici nella
comunicazione, e quindi dell'uso delle nuove tecnologie e della
cognitività della logistica; contemporaneamente il ciclo produttivo di
fine ottocento, pur avendo a disposizione quelle tecnologie, non
avrebbe saputo che farsene e le avrebbe relegate al ruolo di piacevole
e divertente curiosità ed è il ciclo produttivo di fine novecento che
scopre digitale e telematica, per certi versi lo inventa dove non è
ancora stato inventato.
Il lavoro manuale non viene eliminato dalla digitalizzazione in
maniera assoluta, inoltre. Sempre restando nella logistica, proprio
l'eliminazione dello stoccaggio delle merci e del magazzino richiede
molto più lavoro manuale, flessibile e dilatato negli orari e
continuamente reperibile: i trasportatori, i movimentatori di merci e
i magazzinieri. Nei grandi centri di logistica, la robotica ha
sicuramente ridotto il lavoro necessario legato al lavoro tradizionale
del magazziniere, ma al contempo la velocità che introduce e richiede
il 'tempo reale' impone un uso più intenso, maggiore e distribuito
capillarmente di lavoratori manuali.
La logistica è un secondo esempio, dopo l'edilizia, delle
trasformazioni profonde occorse nel lavoro manuale e fisico. Il
lavoro vivo necessario immediatamente alla produzione di merci,
liberato dalla produzione di fabbrica e diventato superfluo in quella,
è migrato verso altre forme di lavoro manuale; questa tipologia di
lavoro (lavoro svolto nella distribuzione e circolazione delle merci)
esaminato sotto un'analisi marxista classica potrebbe essere detto
'lavoro improduttivo', ma è, invece, proprio nel contesto della
miniaturizzazione del lavoro necessario e dell'autonomizzazione del
mercato dalla diretta dipendenza dall'apparato produttivo di beni
materiali, lavoro recuperato alle esigenze della produzione e dunque
lavoro produttivo che non partecipa direttamente alla produzione.
In generale il lavoro manuale per primo, prima anche di quello
intellettuale, si è trasformato in una forma di lavoro che richiede
forte autonomia, mobilità sul territorio, spostamenti e pendolarismo
(edilizia e logistica ne potrebbero essere i modelli) e in un'attività
nella quale la forma dell'impegno artigianale, presa sotto l'aspetto
della flessibilità, adattabilità e completezza del controllo sul
segmento produttivo assegnato è preminente e, per certi versi,
riscoperta dal passato medioevale e protocapitalistico. Mancano
assolutamente, in questo recupero del passato, gli elementi di
stabilità, riconoscibilità e identificazione sociale che il lavoro
artigianale offriva.
Il soggetto indimostrabile non è affatto un lavoratore cognitivo o
esclusivamente cognitivo e, credo, il lavoro cognitivo è debitore
delle trasformazioni avvenute nel lavoro fisico e manuale della
seconda metà del novecento per i presupposti del suo inquadramento
'definitivo' nello sviluppo capitalistico.
Non si tratta di fare questioni di lana caprina sul peso del lavoro
manuale e intellettuale nell'odierna costituzione del capitale, ma di
affrontare la questione della natura del lavoro cognitivo nella sua
integrazione nel capitalismo: controcorrente sono convinto del fatto
che il lavoro cognitivo entra nella produzione non come lavoro
cognitivo ma secondo le forme già sviluppate per il lavoro manuale. La
conseguenza è che il lavoro cognitivo ha perduto la sua
individuazione, la sua autonomia progettuale, la sua etica e
ontologia: è diventato qualcosa di diverso. Per dirla grossa e con
parole grosse: la ragione non è più la ragione.
Domenica, 22 maggio
Annotazione. [La linea di montaggio è inutile] Nella stessa fabbrica
era venuta fuori la consapevolezza che la linea di montaggio,
piuttosto che rispondere ad autentiche esigenze produttive,
corrispondesse a un'esigenza disciplinare. Negli settanta era
abbastanza diffusa l'idea, soprattutto tra gli operai italiani, che si
potesse amministrare e organizzare il lavoro in maniera completamente
diversa, senza per questo mettere in discussione i fondamenti del
capitalismo, senza che fosse necessario un riferimento rivoluzionario
in politica.
Quando si sottolinea il fatto che automazione, robotizzazione e
digitalizzazione dell'industria sono la risposta del capitale al
rifiuto del lavoro operaio, si dimentica che l'atteggiamento operaio
denunciava il taylorismo come inutile anche sotto l'aspetto dello
sviluppo capitalistico.
Per quanto non li conosca approfonditamente, negli Stati Uniti, i
movimenti sociali avevano fatto proprio questo orizzonte già dagli
anni cinquanta, abbandonando da quel periodo, nella concretezza,
l'idea della centralità della forma industriale classica nello
sviluppo del capitalismo contemporaneo. La rivoluzione economica e
sociale teorizzata e praticata negli anni sessanta e settanta poteva,
quindi, non comportare necessariamente, come per un legame
indissolubile, la rivoluzione politica e poteva essere realizzata
senza quella.
Probabilmente, la forma industriale come asse centrale dello sviluppo
(per forma industriale intendo la manifattura meccanica) ha iniziato a
perdere centralità fin dal new deal e questa perdita è stata
registrata, teoricamente, dal pensiero economico di Keynes.
L'interesse essenziale dell'economista inglese e anche la pratica del
new deal sono più rivolte al mercato che non ai processi produttivi.
Sicura ipocrisia e sicura ideologia questa, mascheramento dei termini
del reale e mistificazione, anche questo è certo, ma la possibilità
percorsa di ridurre al mercato il problema dello sviluppo è eloquente;
per certi versi si prefigurò la nuova costituzione del capitalismo a
venire.
Rivedi maggio
Inizio anno
Mercoledì, 1
giugno
Annotazione. [Il cominciamento del post moderno durante la maturità
del capitalismo industriale] Il capitalismo ha iniziato a camminare
nella post modernità negli anni trenta del secolo scorso e negli Stati
Uniti d'America. Keynes registrava una fuga in avanti del capitale
rispetto alle previsioni di Marx, fuga che si segnalava con la prima,
in verità forse in gran parte apparente, crisi di stagnazione da
sovrapproduzione del capitalismo. Probabilmente, invece, la crisi del
1929 fu ancora una crisi della crescita, ma quella crescita iniziava a
richiedere linee di sviluppo non strettamente connesse con le regole
dell'economia classica; in realtà nel capitalismo la crescita è
un'ontologia, una metafisica: il capitalismo non può non crescere.
Quella fuga in avanti del capitalismo fu percepita anche in Europa: la
prima guerra mondiale ha esemplificato la novità essenziale che il
capitalismo proponeva nelle regole dell'economia. L'imperialismo
diventava fatto planetario, gli Stati nazione dovevano farsi carico di
questi nuovi orizzonti dello sviluppo economico e contemporaneamente
rendersi interpreti del fatto che la mobilitazione delle risorse umane
diveniva una mobilitazione di massa, una mobilitazione socialmente
massificata e massificante. Tutta la società nazionale venne
coinvolta, in una maniera o nell'altra, nella Grande guerra e
nel relativo sforzo organizzativo, logistico, militare ed economico.
Il capitalismo industriale iniziava a richiedere e conformare
esigenze, bisogni e desideri di massa, una società di massa, ideologie
di massa e culture di massa: tutto questo, tra anni dieci e anni
trenta del novecento, imponeva il declino e l'accantonamento del
liberalismo e anche del liberismo.
L'espressione 'società di massa' non è assolutamente adeguata a
descrivere il risultato di questa trasformazione, anzi è fuorviante e
per moltissimi aspetti bugiarda: tutte le società storiche sono state,
in qualche misura, società di massa. La massa, come entità
riconducibile a una omologazione culturale, politica e sociale, ben
lontana dalla 'folla' classica, dalla turba indistinta della
letteratura classica, è certamente un'invenzione del XX secolo.
Durante la prima guerra mondiale l'omologazione diventa più
stringente, rispetto a quella del periodo precedente, perché si
sviluppa in ambiti solitamente esclusi da quella. La società si
disciplina in funzione della guerra, il corpo sociale viene pensato,
vissuto e immaginato come uno strumento bellico, la guerra stessa
richiede la mobilitazione di eserciti di massa, la propaganda bellica
fece leva sui sentimenti e gli stati d'animo degli individui,
costituendo per la prima volta un immaginario pubblico e collettivo,
gli strumenti della propaganda bellica furono strumenti di massa.
Tutti questi elementi (alcuni dei quali comparvero qualche decennio
prima del conflitto e durante quello ottennero piena realizzazione)
contribuirono a costruire un assolutamente nuovo concetto di massa, di
popolo e di nazione.
La fuga in avanti del capitalismo verso la formazione di un fenomeno
sociale profondo e omologato profondamente è etichettata con il
termine 'formazione della società di massa'. Mentre oltreoceano, però,
fu l'economia, che si avvicinava a essere, anche per gli aspetti
produttivi, un'economia di massa, a governare il fenomeno, in Europa
fu invece la politica, il caso della Grande guerra è emblematico, a
introdurlo. In America i nuovi bisogni si realizzavano, magari ancora
in modo incompiuto, in Europa si presagivano, provocando alcune
anticipazioni catastrofiche sotto il profilo politico ed etico.
Fascismo e nazismo sono stati il modo di costruire la 'società di
massa' in Europa, uno dei modi per tenere dietro a questa fuga in
avanti delle regole dell'economia che si vede realizzarsi altrove
(negli Stati Uniti) e incombere qui. Fascismo e nazismo, come annotava
con incredibile lucidità Antonio Gramsci, furono la maniera di
costruire psicologie di massa prima che si esprimessero storicamente.
La difficoltà di inquadrare i tempi nuovi del capitalismo (produzione
di massa di beni di consumo, sovradeterminazione della produzione sul
mercato) uniti agli effetti delle politiche imperialiste fecero in
modo che il potere politico e le strutture del potere politico
anticipassero le esigenze, le suscitassero, per inquadrarle
preventivamente, quasi cercando di determinarle a priori. Per
prevenire e incanalare l'esplosione del carattere di massa della
produzione e della socialità si organizzò una politica di massa.
L'intento era quello di rompere il legame possibile tra il nuovo
sviluppo capitalistico e le organizzazioni operaie, l'intento era
quello di evitare una rivoluzione bolscevica europea e che il
bolscevismo assumesse il carattere di una nuova società di massa.
Sarebbe, però, un discorso molto lungo.
Giovedì, 2 giugno
Annotazione. [Due giugno]. Una repubblica retta in forma parlamentare
è un'istituzione talmente naturale che non andrebbe neppure
commemorata. È la base di ogni istituto democratico e la sola
possibilità del suo allargamento e perfezionamento, perchè comporta
l'idea che la democrazia è un fine e non solo un mezzo. Una
costituzione monarchica retta in forma parlamentare porta con sè il
segno stesso della legittimità della diseguaglianza e della potenziale
fine della democrazia e nasconde l'idea che la democrazia è solo un
mezzo e non un fine.
[Il cominciamento del post moderno durante la maturità del capitalismo
industriale] Personalmente ho sempre percepito la Grande guerra come
uno spartiacque tra la prima fase del capitalismo (e della modernità)
e la seconda fase, durante la quale liberalismo, positivismo e i
presupposti illuministici dei due secoli precedenti venivano messi in
discussione sempre più radicalmente.
Le 'società di massa' e dell'informazione generalizzata si forgiarono,
in buona parte, in quei cinque anni, sebbene sia innegabile che il
processo era in gestazione da qualche decennio e sia altrettanto fuor
di dubbio che non si attuò compiutamente solo durante e con la guerra.
Un sentimento diffuso socialmente e politicamente provocato entrò a
far parte dell'immaginario collettivo, quello della paura. Questo
sentimento ha ancor oggi notevole fortuna, anzi nella contemporaneità,
che dagli anni novanta può dirsi una terza fase del capitalismo (e
della modernità) si è selezionato, è stato reso specifico, si è
diviso in specie, ordini e categorie. La paura è diventata oggetto di
scienza e di manipolazione tecnologica.
Il soggetto indimostrabile lo è anche perché, anche se fosse un
soggetto, una categoria sociale e politica interessata e capace di
dimostrarsi, non lo farebbe comunque, e non lo farebbe in ragione del
timore di farlo. Il soggetto indimostrabile sa che offrirebbe un
regalo inutile e pericoloso, un regalo che dovrebbe temere di
consegnare alla visibilità.
Certamente, però, la chimica dei sentimenti si è fatta più complessa
nel passaggio dal secondo al terzo capitalismo, anzi il suo
complicarsi è stato uno degli elementi che lo distinguono.
Sabato, 4 giugno
Annotazione [Festival dell'economia di Trento] Si sta svolgendo, in
Trento, l'annuale Festival dell'economia. Si è presentato con una
veste univoca: l'economia come scienza dell'amministrazione, cioè a
dire come branca della politica. In verità è tutto il contrario: è la
politica a costituire una branca dell'economia, che cerca di fornire a
quella una narrazione, un senso e un tempo si sarebbe detto una
'rappresentazione ideologica'.
L'economia è tutto, il fondamento del mondo attuale, lo spiega per
come esso è, spiega le sue leggi ma non spiega assolutamente nulla del
mondo e delle leggi. Il mondo e le sue leggi sono presentati come dei
dati di fatto, ontologie, non come complessi di dati e di
interpretazioni, o meglio di dati interpretati che si fanno dati
nell'interpretazione. L'economia stessa si presenta come un datto di
fatto, un'ontologia, una trascendenza e una metafisica. Le leggi
economiche scompaiono per far posto ad asserzioni, ad assiomi
indiscutibili per loro stessa definizione, e quindi metafisici e
trascendenti.
Quando, come nel caso dell'industria automobilistica americana, il
lavoro necessario si è ridotto, negli ultimi trentacinque anni, dei ¾
e questo ha determinato un incredibile ed esponenziale accrescimento
dei profitti senza la tradizionale ricaduta sul reddito sociale, le
leggi dell'economia non riguardano più il lavoro, il lavoro inteso
come fatto sociale, ma sempre più il lavoro come fatto meccanico; le
leggi dell'economia descrivono sempre meno il lavoro umano.
Conseguentemente cessano di essere leggi, ma asserzioni su una
potenziale ricaduta di questi profitti in altri settori. E questo non
è più argomento di leggi economiche, ma di leggi politiche. L'economia
è direttamente politica, quando le grandi multinazionali investono i
loro profitti in biotecnologie piuttosto che in telematica, a Seattle
piuttosto che a Napoli.
Le relazioni tra economia e politica sono completamente diverse,
quando la produzione del valore, dei beni materiali e dell'essere
cessa di essere un fatto sociale e socialmente remunerativo e
identificante ed è in massima parte realizzata senza la necessità di
lavoro umano.
Contemporaneamente non è più il lavoro e il tempo di lavoro produttivo
a decidere del tempo in generale. La ricaduta del capitale sulla
produzione di idee, sentimenti, stati d'animo, servizi alle persone è
inevitabile e naturale, ma presuppone una colonizzazione del tempo
della vita e delle energie vitali che non ha nulla a che vedere con
l'economia e che si può e si deve chiamare politica.
Estremizzando, lo scenario economico è quello di una riduzione a merce
non della vita che si spende in tempo di lavoro, ma della vita tout
cour, non della vita in quanto capace di determinare tempo di lavoro,
ma della vita in quanto tale.
Poiché sono in vena di pensieri estremi, ritengo fortemente probabile
che gli scenari di annualità non troppo lontane nel futuro del
Festival dell'economia siano un nuovo rapporto di produzione di tipo
servile, generalizzato e reso, ovviamente, irriconoscibile alla storia
e presentato, altrettanto ovviamente, come problema amministrativo.
Domenica, 5 giugno
Annotazione [Festival dell'economia di Trento] Per via della presenza
di esponenti del governo, del mondo sindacale e del sistema bancario,
senza una rilevante partecipazione di economisti (e sul termine e la
scienza economica ci sarebbe molto da scrivere) il Festival di
Trento ha involontariamente (?) descritto l'economia in quanto tecnica
dell'amministrazione sociale.
Il problema economico di fondo, che può certamente essere ancora
analizzato con i criteri della 'scienza' economica classica, non è un
problema economico, ma un problema dell'economia. La produzione
generale di beni industriali, agricoli, alimentari e le tecniche per
la loro distribuzione, commercializzazione e conservazione, la
produzione generale dell'essere, è sufficiente a nutrire, coprire,
vestire, curare e abitare l'intera popolazione del pianeta con un
considerevole margine di eccesso. Questa potenza produttiva non ha
bisogno della sottrazione di lavoro vivo agli altri settori sociali in
quantità eccezionali e non avrebbe problemi a realizzarsi utilizzando
solo una piccola e certamente minoritaria quota delle risorse umane
disponibili. Questa potenza produttiva crea tassi di profitto
inimmaginabili due secoli fa. Questa potenza produttiva libera dalla
produzione dell'essere energie che volgono solo in minima parte alla
produzione di idee, di servizi e di comunità. Questa potenza
produttiva, infatti, non è nata per creare quello che realmente
produce ma per creare quello che concretamente produce: non è nata per
creare beni materiali in quanto beni materiali, ma per creare beni
materiali il cui valore non risiede nel bene. Questa potenza
produttiva non è nata per creare quello che produce ma per creare un
valore diverso da quello contenuto nel prodotto. I profitti
tesaurizzati non contribuiscono con ricadute sociali a produrre spesa
sociale: gli Stati, dovendo affrontare la persistenza apparente delle
leggi classiche dell'economia, che rimangono solo nel loro campo di
attività ancora valide, non riescono minimamente a tenere dietro a
questo sviluppo capitalistico e ai problemi sociali che comporta.
L'economia degli Stati deve confrontarsi con la crisi del reddito da
lavoro, con la scomparsa epocale dei ceti medi e con l'inversione
pauperistica nei rapporti sociali e di produzione; l'economia degli
Stati si impoverisce nella stessa misura in cui si impoverisce il
reddito da lavoro. Quella tra la potenza produttiva e la ricchezza
sociale è una divaricazione palpabile, che propone un contrasto e una
contrapposizione rivoluzionari, almeno se analizzato il processo in
maniera classica.
Se a questa analisi, che volutamente mantengo stretta al settore della
produzione dell'essere, per evitare implicazioni analitiche comunque
prima o poi necessarie, aggiungessi la produzione di sapere,
cognizioni, organizzazione, logistica e di tutta l'incredibile
infrastruttura e struttura immateriale, il quadro del profitto, della
formazione del valore e dei rapporti sociali uscirebbe ancora più
polarizzato.
Qualcuno ritiene che il grande capitalismo globalizzato e
globalizzante saprà regolare il suo sviluppo, abbracciando i paradigmi
ecologisti, sociali, energetici e comunitari che sono venuti fuori nel
secolo scorso; solo quando c'è business, annoto invece, e non in
maniera sistemica questo potrà accadere (e per fortuna, continuo ad
annotare, perché quando cerca di farsi sistema in ciascuno di questi
campi, il biocapitalismo inventa il suo sistema ecologico, energetico
e via dicendo, inventa la sua scienza). Altri pensano che sarà il
mercato a produrre la regolazione, seguendo una doppia follia
bugiarda, perché il mercato non esiste più e quando esisteva non ha
mai regolato nulla.
Il desiderio del capitalismo contemporaneo usa il mercato, ma non ha
nulla a che fare con il mercato, usa soprattutto la finanza ma non ha
nulla a che fare con il capitalismo finanziario di solo mezzo secolo
fa. È un desiderio semplice ma molto forte, molto più forte del
desiderio sessuale o del desiderio di ricchezza sproporzionata, è il
desiderio di potere; è il piacere di comandare i corpi e le menti di
centinaia di milioni di individui, è il piacere di creare associazione
e organizzazione, di fondare il distretto industriale globale. Il
profitto e l'accumulazione sproporzionata e insensata sotto il punto
di vista del profitto stesso di capitali sono lo strumento fortissimo
di questo fortissimo desiderio.
Allora ritorna il problema centrale e ancor più letteralmente vitale
(etimologicamente) del soggetto che può distruggere, che abbia
interesse a distruggere, non la divaricazione e il divario, che non è
opera realizzabile, ma la sorgente dello spazio di divaricazione.
Mercoledì, 15 giugno
Annotazione. Ai margini di L'anima al lavoro di Franco Berardi. Trovo
il testo di Bifo, L'anima al lavoro, troppo spesso schematico nello
sviluppo dei suoi assunti, come interessante negli assunti. È un'opera
da scomporre e analizzare punto a punto, per concedere a quella
maggiore respiro, che non le ha lasciato l'autore. Nulla da
aggiungere, però, a questo passo che vale quasi come un programma,
un'idea programmatica.
“La società non ha bisogno di più lavoro, di più posti di lavoro, di
più competizione. Al contrario. Abbiamo bisogno di un enorme taglio
del tempo di lavoro, una enorme liberazione della vita dalla fabbrica
sociale, per poter ricostruire il tessuto della relazione sociale.
Eliminare il legame tra lavoro e reddito libererà un'enorme quantità
di energia per finalità sociali che non possono più fare parte
dell'economia e dovrebbero tornare a essere forma di vita. Dato che la
domanda si riduce e le fabbriche chiudono, la gente soffre di mancanza
di danaro e non può comprare cose necessarie per la vita (…). Il
doppio legame della sovrapproduzione non si può risolvere con mezzi
economici, ma solo con un salto antropologico, l'abbandono della
cornice economica che consiste nello scambio di lavoro e salario (…).
L'idea che il reddito debba essere il premio di una prestazione è un
dogma di cui dobbiamo assolutamente liberarci. Ogni essere umano ha il
diritto di ricevere la quantità di danaro che è necessaria per la
sopravvivenza. E il lavoro non ha nulla a che fare con questo. Il
salario non è una cosa naturale della sfera sociale (…). Fino a quando
la maggioranza dell'umanità non sarà libera dal nesso tra reddito e
lavoro, la miseria e la guerra saranno la regola della relazione
sociale” (pp. 276 - 277)
Giovedì, 16 giugno
Annotazione. Ai margini di L'anima al lavoro di Franco Berardi. Sempre
su quella sorta di “che fare” compresa in quella che è una specie di
postfazione scritta nel gennaio di quest'anno.
Bifo annota, con chiarezza molto sintetica, che “il nostro compito
sarà di creare zone sociali di resistenza umana, intese come zone di
contagio terapeutico. Il capitalismo non è destinato a scomparire dal
panorama del mondo, ma perderà il suo ruolo di paradigma onnipervasivo
di semiotizzazione,, diventerà uno dei tanti modi dell'organizzazione
sociale. Il comunismo non sarà mai il principio di una nuova
totalizzazione, ma uno dei tanti modi possibili di autonomizzazione
della regola capitalisica” (p. 280). Al di là del fatto che
l'aggettivo umano che viene associato al sostantivo resistenza è vago
e metafisico, presupporrebbe una dote, una qualità originaria la cui
esistenza tutto il resto del libro contesta, è interessantissima
questa idea della politica come di una terapia. La migliore tradizione
illuminista è evocata, quella che permette, cioè, anche una critica
all'illuminismo, ed è certamente questa la via da percorrere. Oggi, la
critica all'economia conduce a una nuova critica alla ragione, a ogni
prodotto ideale che pretenda di presentarsi come razionale.
L'impossibilità oggettiva, però, della conservazione dell'egemonia del
paradigma capitalistico, non comporta affatto che questa egemonia
scompaia naturalmente. È certamente vero, e questo è un terribile
paradosso della nostra epoca, che se l'economia fosse
razionalità, fosse autonomia della ragione, fosse scienza (ma non lo è
più, se mai lo è stata), l'involucro economico è politico. Non sarà
mai detto dal capitale: “Scusate, signori, scusate l'ingombro, un po'
di spazio, invece, anche per voi!”. Bisognerà farlo percepire
l'ingombro e la necessità della terapia, solitamente i malati non
accettano la malattia e anzi la rifiutano: questo credono sia la loro
cura della malattia. Il capitalismo contemporaneo, al contrario di
quello classico, sa di dover convivere con la decrescita, anzi la
decrescita è la forma della crescita economica della contemporaneità,
il suo nuovo sviluppo e le vecchie regole, le vecchie crescite e il
vecchio sviluppo non funzionano più. Funzionano come politica, come
rappresentazione, perché anche il capitalismo ha la sua terapia sul
mondo: la penuria in una società circondata, addirittura assediata, da
abbondanza, la penuria in balia dell'abbondanza, la penuria delimitata
e contaminata da infiniti segni di ricchezza e abbondanza
condivisibile. Il capitalismo prescrive il sintomo e la malattia. Il
capitalismo è disastro alimentare, tipico delle economie della
penuria, che si unisce con il disastro ecologico, tipico
dell'economia dell'abbondanza, termine di una socialità corporea e
fisica e riedizione di una socialità virtuale, incorporea e
atomizzata, diminuzione dei consumi di massa con crescita esponenziale
dei consumi di nicchia, di aree di consumi privilegiati e riservati,
distruzione, nelle classi dirigenti economiche, delle selezioni
meritocratiche con la cooptazione di lignaggi tecnocratici,
generalizzazione della depersonalizzazione della proprietà con
contemporanea invenzione di elementi dinastici in quella. Questo
paradigma ha necessità di conservare egemonia per conservarsi e di
ghettizzare ogni altro modello. È fuori di dubbio che la lotta di
classe e il comunismo assumeranno caratteri diversi da quelli storici
e che il comunismo non sarà il prodotto della lotta di classe, non
avrà in quella il suo asse genetico; ma senza contrapposizione e le
energie che la contrapposizione produce tra chi ha bisogno della
finzione del lavoro per vivere e chi organizza questa finzione, la
decrescita sarà davvero eterna e la stagnazione infinita.
Proprio perché è vero che le regole dell'economia non sono più capaci
di descrivere la situazione, allora è anche vero che non sono capaci
di governare la situazione e di darle razionalità, non sono più gli
strumenti del dominio economico, se non in rappresentazione. E qui
potrebbe avere ragione Bifo, quando pensa a mondi sociali
paralleli. Esiste però un'altra economia che non pensa affatto a
sé come rappresentazione parziale, ma complessiva; esistono interessi
economici che hanno bisogno di controllare egemonicamente la società
secondo un comportamento paradossale: usare le relazioni umane, farne
un valore politico, una merce che non è merce ma che è dominio e
distruggere, in realtà, il signicato e la parola stessa di merce,
sostituendola con il controllo sull'uso. Il possesso viene sostituito
dall'uso condiviso e controllato. Il bisogno scompare per far posto a
qualcosa che viene accomunato al desiderio. Questa nuova forma di
egemonia si fonda come un processo democratico, la condivisione del
dominio dentro le relazioni umane. Se salta la condivisione salta il
meccanismo stesso del dominio: la terapia è necessariamente un atto di
forza, allora, una contestazione, c'è da rompere una condivisione
obbligata.
Venerdì, 17 giugno
Annotazione. Ai margini di L'anima al lavoro di Franco Berardi. È una
tesi interessante e descrive la realtà delle cose quella che vede
questo atto terapeutico (secondo la terminologia scelta da Bifo) non
come il prodotto di una volontà, di una razionalità, di una scelta
deliberata, ma il risultato della perdita di egemonia del modello
capitalistico. Bisogna, però, tenersi lontani da qualsiasi
determinismo, che, sotto banco, si proponga. La tesi descrive la
realtà delle cose, lo scenario, ma non è necessariamente vera e dunque
praticabile. Il “Signori si accomodino” presuppone anche e sempre una
domanda, un'azione e un comportamento proattivo (come si diceva un
tempo); richiede un “possiamo accomodarci?”. Richiede, quindi, la
nascita di un concetto di spazio e di luogo condivisi che, al
contrario, oggi manca e quando si costituisce rimanda a un
razionalismo che, in concreto, nega la condivisione autentica, pur
esaltandola. Lo spazio va invece costruito perché non esiste
condivisione, se non nella forma adatta alla dominazione.
[Bifo e le pantere grige] Il testo di Bifo affronta anche il tema
della vecchiaia, quando affronta il problema, socialmente sviluppato,
della depressione. La depressione è una reazione senile all'evidenza
della nostra imperfezione, dei nostri limiti e della nostra finitezza;
la depressione dipende, usando altre parole, dal non – essere Dio
dell'uomo. Prima era l'ansia e il panico, nella gioventù, la rincorsa
alla complessità e alla velocità, poi arriva l'amara constatazione
dell'inutilità di questa rincorsa. Il testo lega, in maniera stretta,
complessità e velocità dello sviluppo sociale e tecnico con la
depressione che non è solo un fatto sociale, una sindrome collettiva
tipica del capitalismo contemporaneo, ma una sindrome economico –
finanziaria. In questo contesto, a fronte dell'inadeguatezza del
lavoro vivo, dell'umano, contro il lavoro morto, l'automatizzato,
inadeguatezza esaltata dal capitalismo della post modernità, la
senilità finisce per essere una condizione sociale ed economica
generalizzata, epocale.
[Pantere grige] Non stabilirei un collegamento così forte, quasi
meccanico, tra depressione e vecchiaia, anzi, tolte le innegabili
contingenze sociali e politiche che rendono la vecchiaia un disvalore
assoluto (in una parola la crisi dello Stato assistenziale), questa
immagine ha il pregio di storicizzare il fenomeno, ma il difetto dello
storicismo. Al contrario il superamento del capitalismo industriale
apre degli spazi concettuali adatti a ribaltare, e in maniera
abbastanza radicale, questo collegamento tra vecchiaia e depressione.
La vecchiaia è stata un radicale disvalore nella società di fabbrica:
il corpo, usato e disciplinato nel lavoro e attraverso il lavoro senza
quasi la partecipazione dell'elemento mentale e intellettuale, quando
invecchia diventava un parassita, un anti produttivo e un oggetto di
assistenza, cura e mantenimento e quindi un anti economico allo stato
chimicamente puro. Il corpo inabile al lavoro è, nel capitalismo di
fabbrica, il non valore per antonomasia. La società precedente il
capitalismo, contadina e artigianale, esaltando e usando il connubio
tra mente e corpo, assegnava all'esperienza lavorativa un grande
valore. Il corpo del vecchio continuava a valere ed essere usato sul
lavoro fino alla morte; il corpo del vecchio era custode di una
suprema (esistenzialmente) professionalità.
Oggi la vecchiaia può acquisire un valore aggiunto, slegato dal lavoro
e fondato sull'esperienzialità. L'esperienza esperibile nel solo
volgere di una generazione umana di realtà informative molteplici, di
diversissimi livelli informativi e comunicativi e del loro incessante
intersecarsi, determinano un sedimento, il sedimento può a volte
trasformarsi in abitudine, in attrezzo, in strumento e infine in
modello utile e duttile per affrontare, prevedere e sviluppare
situazioni, per affrontare, tornando alla terminologia di Bifo, una
terapia. La 'terapia' è la capacità di segnare punti fermi, abitudini
e di comprendere, con un certo distacco, che sono necessari anche se
non veri, e che quanto essi funzionano e sono desiderabili,
tanto più sono veri. Questa è un'altra componente della vecchiaia: non
la senilità, non la nostalgia, ma l'astuzia dell'abitudine e del
continuo rinnovamento dell'abitudine: il cuore rivoluzionario del
partito delle Pantere Grige.
Domenica, 19 giugno
Annotazione. [La politica del profitto] La vecchiaia assume un
ruolo diverso, soprattutto se diviene il modello di una vita slegata
dalla produzione di valore, e se il valore non è solo quello che viene
prodotto ma anche quello che viene comunicato. Questo modello può
avere una validità generale, quando sarà effettivamente registrato il
crollo del lavoro necessario nell'industria e nell'agricoltura, del
lavoro necessario a produrre l'essere, e insieme con questo crollo
sarà evidenziata l'elevazione esponenziale dei profitti. La produzione
dell'essere, il lavoro del corpo, saranno caratterizzati da una
sproporzione economicamente e antropologicamente insostenibile.
I profitti, inoltre, sproporzionati, lo sono ancora di più se posti di
fronte alla miniaturizzazione del lavoro necessario: sono un fine a sé
stesso, un grandissimo ingombro in una sala da pranzo senza invitati.
Il capitalismo fa oggi l'elogio della produttività del lavoro, e cioè
fa con questo l'elogio al lavoro superfluo. Il capitalismo fa oggi
l'elogio dell'aumento generalizzato dell'orario di lavoro, facendo
questo compie l'elogio del lavoro inutile economicamente e della
superfluità economica.
La crisi del lavoro necessario, inoltre, non compete solo alla
produzione manifatturiera o all'industria primaria, ma riguarda anche
la produzione intellettuale, il lavoro creativo e persino il lavoro
gestionale e commerciale. Pensiamo alla digitalizzazione e automazione
degli archivi e degli strumenti gestionali: il back office tende ad
assottigliarsi e il front office (l'esecutivo, il direttivo e il
commerciale) tendono a gestire ed essere anche il back office.
Pensiamo la sig. Marchionne che fa vanto di giornate lavorative di
sedici ore. Dovrebbe nasconderle, perché sono sicuro sintomo di
incapacità. Invece che vantarsi delle ore spese, della loro intensità,
della loro produttiva e importanza (pericolosissima criticità
quest'ultima), il sig. Marchionne passerebbe per un individuo di
maggior intelligenza se sapesse riconoscere il fatto che gli piace
farlo, che gli piace sentirsi così, indispensabile, decisionale e
importante nel suo tempo di lavoro, ma che la stragrande maggioranza
di quello non serve a nulla. Sarebbe, in effetti, più utile che tutto
quel lavoro superfluo, insieme a quello di milioni di altri, venisse
usato nella salute pubblica, nella pubblica igiene, nelle reti di
comunicazione sociale, nel raffinamento delle loro infrastrutture e
delle loro tecnologie, nella progettazione di nodi, nuovi nodi e nuovi
scenari sociali. Allora quei profitti sottratti al lavoro necessario
diventerebbero qualcosa di valido per la narrazione della storia
umana.
Perché il profitto non si redistribuisce? Perché non viene meno,
poiché i tempi sarebbero belli e maturi, la scusa pubblica per
quell'ingombro? Il profitto è politico, il profitto è oggi la
principale forma ideologica, comunicativa, emotiva e sociale del
potere. Il potere oggi non sa immaginarsi senza il profitto.
Marchionne non sgombrerà pentito e convinto dalle armi della ragione,
ma sgombrerà costretto da una forza, da una potenza capace di essere
potente, attraente e desiderabile quanto il profitto. Il profitto,
seppur inadeguato sotto il profilo dell'economia tradizionale alla sua
riproduzione, è, invece adeguato, sotto quello della nuova economia, a
una funzione politica generale, a essere grammatica del potere e della
condivisione del potere.
Domenica, 29 giugno
Annotazione. [Del declino della politica nella sua
espressione rappresentativa]. Il voto inglese sulla cosiddetta brexit
è la sommatoria di molte contingenze, coincidenze e concorrenze
storiche da avere valore generale, da essere esemplificativo di un
processo generale. Meglio scrivere esemplificativo di un processo
generale al quale concorrono molti processi particolari e che riesce a
riassumerli tutti. Il voto inglese è paradigmatico (è proprio il caso
di usare questo abusato aggettivo) per il voto in sé e il risultato,
il modo con il quale si è giunti al referendum e le reazioni dopo lo
scrutinio. Il voto inglese è fatto testimoniale di almeno tre cose: la
riduzione assoluta della politica, la diminuzione della democrazia
elettorale e, molto più in là, la fine, ormai chiara ed evidente, di
un modello socio - politico fondato sul lavoro.
Direi che non c'è davvero poco in quel voto (come in molte altre prove
europee degli ultimi quindici anni) che è l'effetto di un intreccio
incredibile di elementi spesso sotterranei che si sono manifestati,
nella spettacolarizzazione della politica, improvvisamente, ma, in
questo specifico caso, lo spettacolo della politica ha coinciso più
che in altri casi con la sua sostanza: lo stupore mediatico
corrisponde allo stupore reale.
Il referendum non è nato da un'iniziativa popolare, ma
dall'interpretazione dei sentimenti potenziali del popolo di fronte
allo spettacolo televisivo e mediatico offerto intorno alla società
multietnica europea: immigrazione, terrorismo, delinquenza diffusa.
Facendo riferimento a questa miniera sentimentale, la classe dirigente
politica inglese si proponeva di risolvere una contraddizione sorta,
all'interno del partito conservatore, sulla candidatura del futuro
premier, Cameron. La destra del partito conservatore, sventolando la
bandiera dell'ostilità all'Unione Europea, e convincendo del rischio
del drenaggio di consensi a favore della estrema destra, domandò a
Cameron, per confermare la sua candidatura, una consultazione
referendaria sulla permanenza della Gran Bretagna nell'Unione. Cameron
accettò questa pregiudiziale verifica europeista alla sua rielezione.
Si è arrivati, quindi, al voto e vince il fronte del leave.
Si scopre che nessuno è pronto al risultato; non lo sono i
sondaggisti, non è pronta la borsa, non sono attrezzati gli
unionisti e ancora meno i secessionisti. Nessuno è pronto e
conseguentemente tutti si spaventano, come dei bambini che abbiamo
dato fuoco al pagliaio di papà: l'accendino è il corpo elettorale
inglese e il pagliaio una serie non indifferente di trattati
internazionali e accordi commerciali. Dilettantismo? Innegabile.
Dilettanti? No. Professionisti, invece, perché questi sono gli
orizzonti del nuovo politico professionale: amministrare il consenso,
essendone amministrati. Il consenso, infatti, non è più l'elemento
strutturale della democrazia, non perché non si ricerchi più il
consenso ma perché il consenso che si ricerca non è più un consenso
politico, ovvero fondato sulla politica e il ragionamento politico e,
conseguentemente, proprio perché non si rincorre un consenso politico,
ma un consenso sentimentale, l'elemento politico del referendum verrà
disatteso: l'Inghilterra non uscirà dall'Europa precisamente come la
Scozia non uscirà dal Regno Unito. Il referendum inglese avrà delle
conseguenze sicure, ma non quelle per le quali la gente è stata
chiamata al voto.
La politica perde qualsiasi dimensione strategica (che viene elaborata
al di fuori della politica) per occuparsi di questioni tattiche: la
politica è ridotta a tattica del consenso e a tattica della gestione
economica delle istituzioni pubbliche. La battaglia sulla brexit,
spettacolarizzata come battaglia strategica è nata su una questione
tattica (la forza della leadership di Cameron dentro il suo partito) e
conseguentemente e naturalmente è rimasta una questione tattica, priva
di respiro, che non sia, appunto, un respiro spettacolare e
passionale. Suonano davvero patetici, ridicoli e soprattutto idioti, i
rimpianti verso la politica di un tempo e gli uomini politici di un
tempo, verso la loro statura, ampiezza di vedute, coraggio e
profondità; come se tutto si spiegasse con le biografie e i dati
personali: si tratta, al contrario. di anagrafe politica.
La spettacolarizzazione della politica non è il dono della politica ai
media, l'offerta della politica alle telecamere e ai social network è
la riduzione della politica a spettacolo. Le leggi dello spettacolo
non si sono affatto adattate a quelle della politica ma è stata la
politica a fare sue le leggi dello spettacolo. Il sistema politico
americano, coronato dal suo sistema bipartitico, ha trovato una
naturale convergenza nella politica - spettacolo fin dagli anni trenta
del novecento e ne ha, secondo la sua tradizione, conformato alcuni
canoni: contrapposizioni uno a uno, sistemi ideologici binari, sistemi
elettorali maggioritari, alternative nette ma tattiche e recitate e
mai strategiche. La democrazia rappresentativa tende a essere
un'istituzione basata su istituti plebiscitari o tendenze
plebiscitarie e ad allontanarsi il più possibile dal principio della
rappresentanza per assumere quello della rappresentazione
dell'elettorato e dei suoi desideri. In Italia questo sistema, nato
nell'America del new deal, si è affermato, con gradualità, a
partire dagli anni ottanta, con qualche timida anticipazione nel
decennio precedente.
L'obiettivo finale è quello di una forma di democrazia che usa
il consenso come l'applauso a teatro o il gradimento in
televisione, una democrazia che costruisce il consenso attraverso lo
spettacolo politico e che ricerca un consenso motivato attraverso gli
strumenti della sua spettacolarizzazione. La democrazia indiretta,
rappresentativa, diviene a tratti diretta: il consenso diviene la
prima opzione della politica, il suo obiettivo, e correre dietro il
consenso il mestiere del politico maturo e formato della
contemporaneità.
Il consenso, mitizzato, viene in realtà alleggerito e svuotato di
contenuti politici; il consenso ottenuto non vincola e i suoi
contenuti possono essere rivisitati, riscritti, narrati diversamente.
Il consenso può trovare una nuova rappresentazione.
Il consenso diviene quindi un fine e non un mezzo e la democrazia si
trasforma in uno strumento e un attrezzo per il politico. Emblematico,
sotto questo aspetto, del
referendum inglese il caso di coloro che hanno votato
leave si sono trovati, improvvisamente, come un esercito
senza capo, scoprendo che la guerra non c'era e che faceva parte di
uno spettacolo che, in realtà, non la prevedeva. Ovviamente si sono
impauriti e alcuni pentiti del loro voto, generando, così, lo
spettacolo nello spettacolo: lo spettacolo ghiotto di una democrazia
esagerata ed eccessiva che, comunque, verrà rispettata, quindi lo
spettacolo della critica alla democrazia e della sua ridicolizzazione.
Ma non è la successione scenografica a interessare: interessa che la
politica ha radicalmente cambiato professione.
Perdita di strategia in politica e spettacolarizzazione dipendono
certamente dal fatto che alla politica non rimangono che lo spettacolo
e la tattica, perché le strategie sono stabilite altrove; ma anche da
una progressiva e intrinseca perdita di senso della democrazia: la
democrazia perde di senso nello spettacolo perché perde di senso in
quanto tale. La perdita di senso della democrazia ha un'origine
diversa dallo spettacolo, lo spettacolo non ha svuotato la politica ma
la politica è giunta allo spettacolo poiché svuotata. È giunta naturalmente
allo spettacolo, dunque. È vero che la spettacolarizzazione della
politica richiede uno svuotamento della democrazia rappresentativa e,
addirittura, pare esserne la causa, ma, al contrario, lo svuotamento
della democrazia rappresentativa favorisce e causa la sua
spettacolarizzazione.
Giovedì, 30 giugno
Annotazione. [Del
declino della politica nella sua espressione rappresentativa]. Il
numero di coloro che si astengono dal momento elettorale e non vanno
a votare non cresce affatto (come alcuni a 'sinistra', in maniera
consolatoria, ritengono) per una critica a questo nuovo concetto di
rappresentanza come rappresentazione politica, e quindi per un'idea
- forza democratica, per una protesta in favore del ritorno della
rappresentanza politica o, ancora meno, per una valutazione
strategica (neppure inconscia e pre - politica) ma
l'astensione spontanea dell'elettorato aumenta a causa della
constatazione amara e disillusa dell'assoluta impossibilità di
restaurare alcunché. La politica come spettacolo non solo è un
dato ineluttabile ma un dato interiorizzato anche da coloro che
rifiutano il voto.
Quando il voto sulla brexit recupera all'astensionismo circa
il 20% dei suffragi, questo recupero non è affatto, però, il risultato
di un'improvvisa individuazione di dimensione strategica a politica e
voto, ma della coalizione di ansie e timori, il risultato della
spettacolarizzazione della società, del vivere sociale, dello
spettacolo bombardante spiegato sull'immigrazione 'selvaggia',
incontrollata e assetata di ricchezza e denaro, degli attentati in
Francia, in una parola della spettacolarizzazione complessiva dello
scenario politico e sociale.
La democrazia c'entra tanto poco che i britannici, pensando di fermare
l'immigrazione, non hanno pensato ai dazi, alle frontiere e a tutto
quello che di concreto e ben poco spettacolare potrebbe derivare alla
loro vita quotidiana. Contemporaneamente la democrazia c'entra molto:
la disconferma effettiva del voto, usa la spettacolarizzazione della
politica (una democrazia folle, smisurata ed esagerata che però va
rispettata, una democrazia nonostante gli effetti della democrazia,
questi i mantra dei media), il suo orizzonte binario, i paradossi che
produce quell'orizzonte, per proporre una superiore mediazione, che
facendo il verso di rispettare il voto, criticato e censurato, non lo
rispetterà senza criticarlo e censurarlo apertamente. Da un lato si
disconfermerà ulteriormente la democrazia elettorale come valore
fondante le istituzioni, le istituzioni diverranno quasi ostaggio di
una democrazia priva di razionalità, dall'altro lato si approfondirà
il generale adattamento del corpo elettorale alla binarietà, alla
semplificazione personalistica della politica, alla produzione e
confezione della politica come un fatto emotivo. Questo adattamento è
spiegabile con la potenza delle tecniche e tecnologie della
comunicazione di massa? Preferisco altre risposte, quelle secondo le
quali la potenza dei media è proporzionale alla vulnerabilità sociale
ai media e con questa va in larga misura spiegata.
Non che i media siano un fenomeno che 'proviene dall'alto', solo ed
esclusivamente mainstream, anche quando lo sono, per molti
versi i media sono fenomeni orizzontali, anche quelli verticali, ma
esiste una vulnerabilità che si struttura dal basso, dal sostrato
sociale, dall'humus : il corpo elettorale ha percepito la sua
scarsa importanza, l'abbassamento del suo peso politico e questa
percezione ci avvicina al cuore del problema.
Rivedi giugno
Inizio anno
Martedì, 5 luglio
Annotazione. [Del
declino della politica nella sua espressione rappresentativa]. Partiamo
dal basso, dall'humus, che spesso coincide con la genesi, con
la costituzione primaria di un fenomeno sociale e umano.
La democrazia si fondava sul principio che ogni uomo era un cittadino
e che ogni cittadino era un voto. Questo, un cittadino un voto,
ovviamente è rimasto vero. Nell'ottocento e nella prima metà del
novecento, epoca in cui il suffragio si estese fino a diventare
universale, ogni voto aveva una maturazione e una formazione
educativa precise: la collocazione o non collocazione nel
contesto produttivo, perché il cittadino era anche un produttore e, in
genere, un lavoratore. Nella tendenza più affermata il rapporto con il
lavoro preparava e costruiva il voto, definendo così il voto operaio,
il voto contadino, il voto impiegatizio e via dicendo. Assolutamente
estranei concetti trasversali rispetto al lavoro come voto giovanile,
delle donne o degli anziani, si poteva scendere, al massimo, alle
preferenze elettorali dei disoccupati. Il rapporto con il lavoro era
decisivo nel processo politico. Il lavoro in quanto tale costruiva la
parte delle relazioni sociali più significative sotto il profilo
politico; questa forma di partecipazione e coinvolgimento,
coniugandosi con la precedente ideologia liberale intorno al voto
inteso come scelta individuale e personale, ha contribuito a generare
uno degli elementi delle democrazie di massa, i partiti politici di
massa, e ha anche contribuito a strutturare le corrispondenti
ideologie di massa, che pure, paradosso storico, erano la negazione
del liberalismo primitivo. Estraneo al liberalismo primitivo, infatti,
era un progetto politico complessivo e 'organico', secondo il quale
ogni parte della società andava amministrata in funzione del tutto,
tutto inteso come unicità dalla quale le singole parti non potevano
essere separate senza perdere senso e consistenza. Questa fu
l'architettura delle grandi ideologie politiche e anche del
liberalismo moderno, quando cessò, e lo fece presto, di fondare la sua
progettualità politica sulla naturalità dei processi economici e
sociali.
L'origine di questa trasformazione nella visione della società stava
nel lavoro collettivo e organizzato, nel lavoro sociale, distribuito
socialmente, e nei cittadini che partecipavano al lavoro in comune e
collettivo, seppur a diverso titolo e secondo tutti i modi possibili
ed economicamente interessanti e determinati da un'organizzazione
produttiva. Anche per i liberali, infatti, il soggetto politico era
un'emanazione di un soggetto economico; e qui va introdotta
un'importante precisazione geografica: tutto questo accadde nei paesi
capitalisticamente egemoni.
Mercoledì, 6 luglio
Annotazione. [Del
declino della politica nella sua espressione rappresentativa].
Questa precisazione geografica sottolinea un'importantissima
separazione, che non solo ha segnato ma conformato,
strutturato e reso possibile la storia e lo sviluppo del capitalismo.
Questa precisazione potrebbe tranquillamente esulare dalla questione
della brexit dalla quale si era partiti e dalla crisi della
rappresentanza, se non fosse per il fatto che lo sviluppo del
capitalismo, l'attuale fase biocapitalistica, sta ricongiungendo i due sentieri separati; si
stanno ricongiungendo grazie a delle biforcazioni e ad alcune bretelle
che toccano alcuni tratti dei percorsi e sovrappongono piani viari
eterogenei. Il depotenziamento del voto, secondo le forme espresse
dalla vicenda della brexit (ma dovremmo pensare anche al
referendum irlandese sul trattato di Lisbona, alla consultazione
europeista in Francia e a molti altri eventi simili), fino a quindici
anni fa sarebbe stato impensabile nella tradizionale patria della
democrazia rappresentativa, e applicabile in India, Turchia, Egitto o
Pakistan. Oggi, sotto questo aspetto (e sotto molti altri), i paesi
capitalisticamente egemoni e quelli egemonizzati si assomigliano fino
al punto di rendere obsoleta e inadeguata la distinzione tra di loro.
In generale va annotato che la spettacolarizzazione della politica ha
coinvolto anche il momento elettorale; il voto ha perduto la sua
fisicità (il voto deposto nell'urna, un voto e una testa) quantomeno
nell'immaginario e nella rappresentazione retorica , che pure si era mantenuta viva nell'epoca delle grandi
ideologie e, dopo la prima guerra mondiale, nelle cosiddette
società di massa. Gli individui si coalizzavano nel voto in un gruppo
omogeneo che li qualificava, che li rendeva omogenei e simili, in
maniera costante e non transitoria; il gruppo elettorale creava
un'identità collettiva. C'era, inoltre, lo scrutinio (altro evento
fisico), la conta dei voti e, alla fine, il risultato definitivo.
Il voto oggi è stato abolito nella sua fisicità, lo scrutinio è già
dato prima, nelle proiezioni e il voto stesso anticipato dalle
intenzioni di voto e dai sondaggi. Che le proiezioni siano erronee
poco importa, perché importa che il momento elettorale sia un
complesso scenografico che gira intorno, prima, durante e dopo il voto
fisico. Le proiezioni sono più importanti del voto fisico e si
aggiornano come votazioni virtuali sopprimendo il voto reale, fino a
coincidere con quello alla fine del processo elettorale. Questa
spettacolarizzazione, pur non decisiva ai fini del depotenziamento
dell'evento elettorale, contribuisce meglio allo svuotamento
strategico della politica e delle elezioni. Il vuoto, però, ha un
altra origine, la fine della fisicità elettorale ha un'altra origine.
Sabato, 9 luglio
Annotazione. [Del declino della politica nella sua espressione
rappresentativa]. L'origine è strutturale,
come si sarebbe detto un tempo, o in un'altra parte della struttura
come si direbbe oggi. Spettacolarizzazione della politica, diminuzione
della politica, riduzione della politica a teatralizzazione dei
contenuti dell'economia, crisi degli Stato in genere, degli Stati
nazionale come caso particolare del genere, sono elementi intersecati
che ruotano intorno a un volano, percepibile compiutamente solo nei
paesi capitalisticamente egemoni, che è la mutazione radicale della
relazione tra lavoro e capitale. Questa mutazione comporta anche uno
sconvolgimento delle relazioni tra politica e lavoro. Il lavoratore è,
in gran parte, il modo di darsi alla politica del cittadino; il lavoro
ha creato comunità; il lavoro palesava il cittadino, donava una
socialità politica all'individuo. Attraverso il lavoro collettivo
organizzato dal capitalismo industriale il cittadino si sentiva parte
del tutto, della società, anzi nasceva, non casualmente, il concetto
stesso di società, e reperiva la forza stessa dell'idea
politica, dell'idea da applicare alla comunità.
Attraverso il lavoro, l'individuo usciva dalla singolarità della
famiglia, dell'esistenza, e si proiettava in un'esistenza collettiva;
spesso, giungeva al quartiere grazie al lavoro e si riconosceva ed era
riconosciuto in quello attraverso il lavoro: il lavoro organizzato era
garanzia delle potenzialità educative e sociali dell'individuo sul
territorio. Tutto questo non è più; sia perché il lavoro ha perduto la
stabilità necessaria a fornire un'identità extralavorativa,
un'identità etica, un comportamento e atteggiamenti continuativi, sia
soprattutto perché la quota del lavoro superfluo è aumentata
enormemente. Il lavoro non è stabile, permanente e continuativo, nella
stessa misura in cui non è necessario. Stabilità e necessità erano
qualità del lavoro che si proiettavano sulla figura del cittadino. Il
cittadino era stabile, stanziale ed era anche soggetto di diritto. Il
cittadino era un complesso di diritti stabiliti con certezza: diritti
stabili e necessari, come il lavoro.
Esiste una sicura relazione tra il lavoro retribuito con il salario e
il suddito dato nelle forma del cittadino. Tra il reddito elargito
dietro la misurazione del tempo di lavoro e il diritto di partecipare
alla vita politica e di avere rappresentanza, tra democrazia
rappresentativa e capitalismo industriale, esiste una relazione
stretta, sebbene la democrazia rappresentativa preceda di un secolo
l'avvento dell'industria. Il lavoro necessario giustificava la
accumulazione del tempo di vita estraneo alla produzione, tempo di
vita tutelato dai diritti politici e civili. Il valore superfluo
prodotto attraverso il lavoro ritornava all'individuo come reddito e
come diritti, e parimenti reddito e diritti contribuivano allo
sviluppo dell'organizzazione del lavoro e dell'economia industriale.
La democrazia rappresentativa e le ideologie di massa erano analoghe
all'industria e al mercato quando era governato dalla produzione
massificata, in una sorta di socialismo del capitale,
proporzionalmente a come le filosofie politiche elitarie del
primissimo capitalismo erano analoghe a un mercato in formazione e
privo di governo esogeno. L'equazione non è più vera.
Giovedì, 14 luglio
Annotazione. [Del declino della politica nella sua
espressione rappresentativa]. Per meglio dire: l'equazione è
ancora vera ma produce risultati nuovi e tra questi produce il
declino della democrazia rappresentativa e il declino della
politica e delle relative ideologie politiche. La democrazia
rappresentativa è stata sostituita da una democrazia
rappresentata, televisivamente e mediaticamente, e
soprattutto, perdendo il carattere rappresentativo, ha
acquisito (ed è paradosso) componenti plebiscitari, binari,
volti a un sì o a un no, spesso verso o contro qualcuno,
mancando, nella concretezza, il qualcosa, l'oggetto politico
del voto. Contemporaneamente e secondo un processo 'naturale',
la forza vincolante di questi plebisciti democratici è molto
bassa, quasi nulla.
Venerdì, 22 luglio
Annotazione. [Del declino
della politica nella sua espressione rappresentativa].
La democrazia ha perduto sostanza poiché è mancato il suo materiale da
costruzione: il cittadino / lavoratore e il lavoro come fonte naturale
del reddito, come attività che produce una ricchezza riconosciuta
socialmente e legittimata. I diritti politici e civili sono stati il
prodotto della necessità del lavoro massificato per lo sviluppo del
capitalismo, del tempo di lavoro come misura del lavoro in generale,
di qualsiasi lavoro, come misura della subordinazione generale nel
lavoro della vita del lavoratore. L'area del diritto, allora, si è
conformata sul tempo di vita libero dal lavoro, una proiezione
giuridica di questo, mentre il diritto che riempiva questa zona si è
costituito sulla necessità di misurare il tempo di lavoro, di trovare
una misura per il lavoro.
La misurazione del lavoro è stata la base delle numerose misurazioni
delle abitudini sociali fino al punto di formalizzarsi in leggi,
in un diritto.
Questa impalcatura sta venendo giù. La spettacolarizzazione della
politica, allora, proprio per questo crollo, ha iniziato a funzionare,
a diventare uno spettacolo credibile, perché fedele alla realtà. Lo
spettacolo della politica rappresenta la realtà, la costituisce certo
come rappresentazione, ma, paradossalmente, la rappresenta nel senso
che la riproduce e la registra: le due cose, le due funzioni e le due
parole finiscono per coincidere. Non è la realtà a piegarsi allo
spettacolo, ma la realtà stessa richiede di essere spettacolarizzata,
senza questo non sarebbe nulla di socialmente rilevante.
In una società dove l'attività umana perde importanza economica e
dove, però, l'economia è tutto, non solo il potere economico cessa di
realizzarsi con il lavoro e va verso altri strumenti di realizzazione,
ma la società stessa perde il contatto, l'aderenza, con ciò che la
domina; vengono a mancare corrispondenze e analogie.
La società stessa, dunque, si svuota e quello che avviene tra gli
uomini, fuori dall'economia, perde peso, fisicità, precisamente come
il tempo di lavoro perde sostanza. La vita degli uomini, posta ai
margini della produzione del valore e dell'economia, diventa una
comparsa della storia, una traccia fuori dal divenire, il componente
di uno spettacolo.
Qui, signori miei!, è la base della critica a tutti i valori, a tutti
i diritti e a qualsiasi etica ed è qui che il percorso dei paesi
capitalisticamente egemoni si ricongiunge con quello dei paesi che non
hanno conosciuto la modernità, almeno quella dispiegata e compiuta.
Qui avviene il piacevole incontro basato sulla fine del lavoro come
potenza sociale.
Sabato, 23 luglio
Annotazione. [Del
declino della politica nella sua espressione
rappresentativa].
La fine del lavoro come potenza e valore sociale non significa la fine
del lavoro, ma una generale, mondiale, nuova immagine economica e
nuovo ruolo sociale per il lavoro. Il lavoro da strumento principale
dell'economia e della produzione, in base al quale costruiva la sua
socialità, diviene direttamente strumento di socialità; la potenza
creativa del lavoro biocapitalistico è in gran parte un mezzo di
controllo, di divisione sociale e di discriminazione. Il lavoro
continua a giustificare il reddito o l'assenza di reddito e, secondo
orbite ben determinate, la partecipazione alla creazione dell'essere
nelle sue forme 'alte' (lavoro cognitivo, intellettuale e
comunicativo) e 'basse' (lavoro manuale) o la netta esclusione da
entrambe, giustifica una gradazione nella distribuzione del reddito
del tutto illegittima secondo il coefficiente della produttività
capitalistica classica. Ci troviamo di fronte un modello lavorista
sciolto dai concreti risultati economici del lavoro.
Non esiste più differenza (fondamentale in tutte le precedenti fasi
del capitalismo) tra paesi che hanno conosciuto la modernità e quelli
che non sono stati coinvolti nell'industrializzazione. Sotto il
profilo delle relazioni con il lavoro si è verificato un incontro, una
tendenza alla omogeneità, occultata dalle condizioni, dagli scenari e
dalle tradizioni completamente differenti. Il fatto, però, che oggi si
possa descrivere lo scenario internazionale anche nei termini di una guerra
civile mondiale rende giustizia, in forma spettacolare e
televisiva, a questo dato di fatto, lo testimonia al di là dello
spettacolo mistificante con il quale la guerra civile viene narrata.
Rivedi luglio
Inizio anno
Lunedì, 8 agosto
Ai margini. Tra Berkeley e Deleuze. Sono passato agli antipodi nelle
letture, da Che cos'è la Filosofia dove si fa un uso un po' troppo
disinvolto delle parole, al Trattato sui principi della conoscenza di
Berkeley dove si opera una critica al linguaggio e al legame tra i
nomi e le idee che pretendono di rappresentare. In Berkeley, alla
fine, il nome non rappresenta nulla e la rappesentazione stessa non ha
diritti, ne ha solo la relazione; le idee stesse sono relazioni tra le
cose o, meglio, tra le idee particolari.
Venerdì, 12 agosto
Ai
margini. [Un segnalibro tra Berkeley e Deleuze]
Passare da Berkeley a Deleuze è mettere un segnalibro; dal caos al
cosmos? Bello ma impossibile traguardo. Dal caos alla finzione di un
ordine intellettuale? Meno bello ma altrettanto impossibile. Dalla
finzione del caos alla finzione del cosmos? Più probabile.
Non credo all'esistenza del caos, parallalelamente non credo
all'esistenza del cosmos. La velocità applicata al caso è l'orizzonte
del caos, reso perfettamente visibile nella contemporaneità e con
naturalezza confondibile con il caos. Cosa è però il caos? Un ordine
primitivo dal quale liberarsi, delle regole anarchiche primigenie? O,
tutto il contrario, la conquista ultima della nostra modernità? Tutte
e due le cose messe insieme, che convivono insieme.
Caos, che spesso utilizza Deleuze, è un termine troppo generico, anzi
è il termine generico per antonomasia, scritto quasi apposta per
essere negato e confutato. Se penso al caos è perché ho un ordine, se
percepisco e sento il caos è perchè ho un ordine nella mia sensazione
e percezione.
Il caos presuppone l'incondizionato, quello che esce, supera e
travalica la capacità della nostra percezione, il suo ordine, la sua
condizione; non è affatto necessario che la nostra sensazione e
percezione rincorra quello che non riesce per sua costituzione a
raggiungere, che non ha alcun interesse a raggiungere, inoltre. Il dio
degli scolastici ha la stessa estensione del caos di Deleuze, come
quello è infinito, non percepibile e concepibile in tutti suoi
attributi se non come complesso inconcepibile di attributi, che così
rimangono in una zona morta, per loro stessa concezione, per
l'immaginazione che li rappresenta e al contempo li ispira.
Il segnalibro mi dice che, proprio per questo, il caos non esiste e
con esso non esiste neppure il segnalibro del caos. Il segnalibro mi
dice, insieme con Berkeley ma anche con Kant, quindi con la filosofia
della lentezza e della vecchiezza, che il caos non va collocato in una
dimensione costitutiva dell'essere, che non è proprio necessario
farlo, e che Deleuze e insieme con lui Guattari, soffrono
l'adolescenza di una filosofia altrettanto senile. Può darsi anche che
Deleuze e Guattari non intendessero porre il caos in una dimensione
costitutiva, ontologica, ma impongono, a tratti, questa esegesi. Il
caos è, invece, il prodotto della percezione, forse riesce a
strutturarsi in concetto compiuto (non sono in grado di stabilirlo) ma
spiega solo il limite della percezione, le forme della percezione
umana, anche nella sua distensione scientifica e strumentale.
C'è, in verità, un'ontologia per il caos, ed è un'ontologia storica;
questo è un momento (o forse, nella storia ci furono anche altri
momenti) nel quale il caos può diventare un elemento ontologico, una cosa
materiale, l'epoca in cui la produzione di concetti, affetti,
passioni e stati emotivi diventa produzione di valore, di prodotti, di
essere concreto. In questo caso il caos appare come realtà tangibile,
come potenza reale, come potenza espressa sulla realtà, come
espressione di una metafisica che innerva la fisica, le leggi
scientifiche e le governa.
Questo dipende dal fatto che concetti, affetti, stati d'animo,
emozioni e passioni, poiché sono divenuti valori, assumono un aspetto
diverso e una natura diversa, vengono percepiti e sentiti in modo
diverso. Sono, infatti, prodotti in funzione di una particolare
operatività mediata, che ama presentarsi come operatività generale,
universale, immediata e naturale, operatività emotiva par
excellence. In secondo luogo sono prodotti in quantità
industriali, letteralmente in fabbrica, secondo una produzione di
serie. Il mondo delle idee e degli affetti è diventato una fabbrica.
Non basta, però, questo a spiegare il caos, cioé il mondo delle idee
che diventa fabbrica e suo mercato. Non si produce solo velocemente,
ma, secondo la tradizione del capitalismo industriale, si vende il
prodotto. Nel piazzamento di un prodotto ideale ed emotivo è
fondamentale, come per qualsiasi merce, che esso abbia un valore
d'uso; nel caso del prodotto virtuale il valore d'uso è determinato
esclusivamente dalla adeguatezza del prodotto al contesto
culturale e sociale; il contesto culturale e sociale è, in realtà, il
valore d'uso primigenio di ogni prodotto virtuale. Il valore d'uso
nasce dalla sua capacità di combinarsi con altri valori d'uso che non
cooperano con quello (come per il caso dei valori d'uso tradizionale e
materiali) ma si fondano insieme con esso; i valori d'uso ideali si
fondano reciprocamente.
La dialettica marxista è abbattuta: il valore d'uso, era per
quella il valore primigenio, che fondava lo scambio e le sue
combinazioni, e dopo di questo diveniva valore di scambio e merce. Il
valore d'uso aveva il ruolo dell'ontologia, del noumeno in
Kant, della verità delle cose e nelle cose, forse era anche
considerato come un valore naturale, connaturato alla nostra specie,
il vero modo dell'uomo di pensare il valore delle cose e le cose; il
valore di scambio, invece, era il fenomeno, l'apparenza
sociale, la concretezza delle cose ma non la realtà e verità di
quelle. Il biocapitalismo ha semplificato la filosofia: noumeno e
fenomeno coincidono. La distinzione tra ciò che percepiamo e ciò che
pensiamo di una cosa che Kant usa, tra pensiero scientifico e pensiero
filosofico, è probabilmente inconsistente fin dall'origine e Kant ha
descritto un'inconsistenza valida sempre, ma oggi questa inconsistenza
si rivela al mondo, coinvolgendo la filosofia, e si realizza nel
mondo, coinvolgendo il pensiero scientifico.
Se Aristotele rinascesse oggi e cercasse di riprendere la sua
impostazione filosofica in questo mondo, concluderebbe disorientato
che il motore immobile esiste e si muove con evidenza in questo mondo
e che per muoversi deve essere immobile.
Venerdì, 19 agosto
Ai margini. Trattato sui principi della conoscenza di Berkeley.
[Segnalibro: Berkeley e Spinoza]Lo strano deus sive natura di
Berkeley è un piano dell'immanenza che tocca in molte parti, per me
insospettabilmente, quello di Spinoza. La natura, per Berkeley, non ha
statuto ontologico, al contrario che per Spinoza, ma è ontologia divina.
I due piani, (quello di Spinoza e quello di Berkeley) che sono
apparentemente antitetici, sono in realtà prossimi.
Questo accade perché tanto Spinoza quanto Berkeley pongono la natura
quasi interamente come un complesso di leggi e di regole scientifiche,
di regolarità empirica. Per Spinoza, però, quel complesso di leggi e
regole, la realtà empirica, è la natura in sè, che è concretamente Dio o
parte costituente di Dio; per Berkeley, invece, la natura è espressione,
azione e volizione dello spirito divino e se sia anche una componente
ontologica dell'essere divino è questione non determinabile. La natura è
spirito divino, ma lo spirito non è concepito da Berkeley come
un'energia vivificante, una forza che innerva la natura e le sta al di
fuori ma, e qui nuovamente in maniera insospettabile si avvicina a
Spinoza, lo spirito divino è l'oggetto di percezione comune e collettivo
tra gli spiriti, tra le intelligenze. La natura è una sorta di comunità
delle intelligenze, di territorio condiviso tra quelle. La natura è
dunque Dio in quanto oggetto di una percezione che si fonda sul commercio
degli spiriti e delle intelligenze del quale è Dio l'artefice.
Dio è un'intelligenza e percezione collettiva.
Dio è, anche per Berkeley, natura, ma non perchè, come in Spinoza
invece, entra nella natura con le sue leggi, materializzandosi, ma
perché Dio crea o è un'assonanza logica di carattere generale che
chiamiamo natura o materia. Certamente, alla fine, Dio rimane estraneo
alla natura e alla materia ma la conoscibilità della natura e della
materia è prova dell'esistenza dello spirito comune, cioè di Dio.
La materia è, insomma, un fatto mentale sia sotto il punto di vista
divino che umano: esiste una natura soggettiva per Dio, natura
soggettiva di Dio, che assume per gli uomini un valore generale e
oggettivo, ed esiste una natura soggettiva per l'uomo che rimane
subordinata e imperfetta perché legata al commercio degli spiriti e
delle intelligenze organizzato da Dio. Qui nuovamente Spinoza e Berkeley
tornano a far coincidere un tratto importante del loro perimetro
intellettuale.
La dissoluzione della differente costituzione ontologica, differenza
stabilita da Cartesio, tra il piano dell'ideale, del percettivo e del
sensibile (la res cogitans cartesiana) e il piano delle 'cose'
(la res extensa) assomiglia e per lunghi tratti coincide con
la centralità del percipere / percipi dell'ontologia empirista
di Berkeley e con il deus sive natura di Spinoza. Entrambi
proiettano il pensiero filosofico verso un orizzonte concettuale secondo
il quale esiste una stretta associazione tra le 'cose' e il pensiero,
tra pensante e pensato. Il pensato è prioritario in Spinoza, ma rimane
pensato, non cosa in sè fuori dal pensato, ed è da questa caratteristica
che scaturisce la forza conoscitiva della natura e della materia; il
pensante è, al contrario, prioritario in Berkeley che, però, riabilita
il pensato, l'idea passiva e inerte, la 'cosa', la 'materia' attraverso
quell'intelligenza collettiva e comune.
Sabato, 20 agosto
Annotazione. [L'esclusività dell'islam] Il fondamentalismo è ed è stato
un modo di essere molto importante dell'islam. Il mondo ideale
mussulmano, molto più di quello cristiano, ha faticato a metabolizzare
le preesistenze religiose e a includerle. Lo stesso fatto che Dio, nel
corano, sia una lingua e una lingua precisa, precisazione che non ha
equivalenti nei vangeli e solo dei precedenti nell'ebraismo, non ha
favorito una mentalità inclusiva. Dio parla l'arabo nel corano, mentre
nel vangelo è stato aramaico, greco, latino, copto ecc. ecc. L'islam è
stato esclusivo.
L'attuale nuovo fondamentalismo cade su questo milieu e la
cosa è inevitabile perchè ognuno cade sulla sua cultura o più
precisamente sulle linee forze e strutturali di quella, ma il nuovo
fondamentalismo non è, come potrebbe essere comodamente inteso, un
rifiuto radicale e insensato della modernità; l'islam nuovo -
fondamentalista è una risposta attualissima alla modernità ed è parte
integrante delle forme del post moderno.
Del post moderno ha assunto in maniera abbastanza naturale molti
aspetti, riprendendo elementi dell'islam originario: il rifiuto
dell'idea nazionale, la totalizzazione della vita privata nella vita
politica, l'abbandono o l'ignoranza dell'etica del lavoro, la dimensione
pubblicitaria della comunicazione sociale e l'amore e l'interesse per la
tecnologia presi e usati come surrogati dello sviluppo sociale e
sostituto dell'evoluzione etica. L'islam nuovo - fondamentalista non è
il medioevo che ritorna, ma il medioevo che si progetta nel futuro e con
il futuro.
Gioco comodo imputare alla predicazione di Maometto e al Corano i
caratteri dell'attuale nuovo - fondamentalismo, comodo perché vero in
superficie. L'esclusivismo è un attributo basilare dell'islam. Le
società islamiche non si sono mai ridotte a questo, però, e
l'esclusivismo diventa, invece, valore totalizzante nel nuovo -
fondamentalismo che fa riferimento a un innegabile milieu ma
che diventa imprescindibile, sempre presente e quindi appunto
totalizzante.
Il problema dell'islam di fronte all'inclusione di altre tradizioni
nella sua, problema genetico, diventa esplosivo di fronte al superamento
della modernità. La modernità, fortemente criticata, era però oggetto di
una dialettica possibile: pensiamo alla rivoluzione iraniana il cui
sviluppo è avvenuto a imitazione di quello delle rivoluzioni politiche
europee; i rivoluzionari iraniani e i giacobini francesi furono
accomunati dal medesimo impegno strategico e dalla stessa analisi e
inquadramento della tattica, muovendosi politicamente allo stesso modo.
La crisi della modernità ha comportato anche la crisi del modello
rivoluzionario moderno (inglese, americano, francese e russo) che
provoca delle ricadute generali su modelli pre moderni nella gestione /
risoluzione e immaginazione dei conflitti. In realtà il nuovo
radicalismo islamico non è che uno degli aspetti della crisi della
teoria e della pratica rivoluzionaria in generale.
L'islam non è affatto impermeabile alla crisi della politica, della
sovranità espressa su base nazionale e rappresentativa e dei fondamenti
dei diritti civili e politici; onestamente è estremamente suscettibile a
questo genere di impulsi e li sta trasmettendo in maniera diretta e in
soluzione chimicamente pura. Il nuovo - fondamentalismo islamico è una
rappresentazione diretta, in forma di ripresa medioevale, della
contemporaneità.
Domenica, 22 agosto
Annotazione. [La forma dell'immanenza nella contemporaneità] La
totalizzazione, con questo termine intendo l'acquisizione di un elemento
unificante in base al quale e dentro il quale tutte le parti di un
processo assumono un senso, è un fatto della contemporaneità. Sembra un
paradosso pensare questo per un'epoca che mette in discussione ogni telos
indifferentemente fondato sulla trascendenza o sull'immanenza. Abbiamo
di fronte un'unità / totalità priva di telos, di fine,
un'unità che non si muove o che esprime un movimento solo apparente;
questo dipende dal fatto che il movimento si svolge dentro l'unità data
e questa unità è indiscutibile e presupposta: metterla in discussione
assomiglierebbe a mettere in discussione l'esistenza del mondo,
assomiglierebbe a un non - senso, a un pensiero assurdo. L'immanenza è
il dato di partenza di questa unità storica e questa unità storica ha
sconvolto ampiamento il concetto di immanenza; l'immanenza è diventata
un senso e significato immobile che spiega sè stesso. L'immanenza è il
materialismo immobile, indiscutibile, concreto: il concreto e il
materialismo sono diventati trascendenza: l'immanenza è diventata
trascendenza e la trascendenza non è più un particolare modo di spiegare
l'immanenza, ma è uno dei volti di questa nuova immanenza.
Il materialismo divinizza la materia, ne fa un ente astratto, il
riferimento assoluto per l'etica. La materia assume l'aspetto di Dio.
Dalle leggi della materia dipendono tutte le altre leggi e la materia è
sempre stata così, percepibile, sensibile e conoscibile in questa
maniera come materia, come corpo, anche quando è virtuale è
materia virtuale, conseguentemente le sue leggi sono da intendersi come
eterne e di validità infinita ed eterna.
Il fondamentalismo materialista istituisce così una nuova materia,
una materia ontologica che dimentica, volutamente, la percezione della
materia, al di fuori delle leggi che attribuisce alla materia.
Il nuovo Dio non è il danaro, come nella vulgata critica dell'attualità,
il danaro è la disciplina nella quale si sistemano le leggi materiali,
le leggi della nuova trascendenza priva di telos, di senso e
di movimento.
Il conflitto attuale non è tra un dualismo e un monismo ontologico;
l'oggetto del conflitto è nella percezione della realtà materiale, tra
chi ritiene la materia spiegata e chi non, tra chi ritiene impossibile
un movimento, se non apparente (intendo il movimento delle borse, il
capitalismo finanziario), poichè sempre svolto dentro le medesime leggi,
e chi ritiene possibile un movimento reale, che interviene sulle leggi
della materia, trasfigurandola e cioè liberandola dalla sua attuale
figura apparente o dalla sua attuale concretezza.
Non può esserci, ormai, altro conflitto, non può essere altrimenti; in
questa fase della storia, l'immanente, che pretende ed è orgoglioso
della sua immanenza, per governarsi, per darsi delle leggi, si dota
della strumentazione del trascendente. La storia contemporanea si volge
solo al passato, quando pensa a sè stessa, e il presente diventa lo
scenario del già accaduto e quindi dell'irrimediabile. In verità nella
storia, neppure in quella cristalizzata negli studi storici, esiste
l'irrimediabile e il già accaduto; persino un fatto del passato, che ha
comportato fatti e conseguenze nel presente, può considerarsi
archiviato, chiuso e definito. Un evento può essere rivisitato,
cambiato, ricombinato con altri eventi, ridefinito come evento esso
stesso, diventare parte di eventi ai quali non era associato o parte
principale di altri eventi quando era parte secondaria e viceversa; un
evento storico è un salmone che si mette a risalire e scendere la
corrente. Questo non dovrebbe essere solo il compito dello storico ma
soprattutto quello del politico e ancora di più del filosofo, perchè uno
storico, quando è veramente uno storico, è anche un politico e un
filosofo, come un politico, quando riuscisse a essere di nuovo un vero
politico, sarebbe inevitabilmente anche storico e filosofo e infine come
un filosofo, quando si occupa dell'immanenza con serietà, deve
essere anche politico e storico.
Rivedi agosto
Inizio anno
Sabato, 3 settembre
Ai margini larghi di Che cosa è la Filosofia di Deleuze e Guattari.
Brevemente. [Terminologie in bozza].Il concetto di realtà rappresenta
quello che la consistenza del reale non realizza in maniera
immediatamente empirica, mentre quello di concretezza fa il contrario.
Il reale comprende il concreto, ma il concreto comprende solo una
parte del reale. Reale e concreto sono due aggettivi che si
riferiscono all'immanenza, entrambi, ma concreto, seppur meno esteso e
compreso in quello di reale, pretende di essere la parte
significativa e autenticamente esistente dell'immanenza.
Concreto è il valore di scambio che diventa valore d'uso nella merce,
reale il valore d'uso che diviene valore di scambio per poi
ridefinirsi valore d'uso nella merce.
Percepibile è quello che viene percepito quando non lascia una traccia
di sè o lascia una traccia breve, sensibile è quello che viene
percepito quando lascia una traccia di sè, una traccia duratura, una
sensazione che viene concettualizzata. Pensabile è il risultato di
questa prima concettualizzazione, intuibile e quello che commisura il
percepibile e il sensibile senza tenere conto della consistenza delle
loro traccie, come se fossero equivalenti e soggetti di
concettualizzazione.
Inteso (intendibile) è una concettualizzazione associabile a
una parola, l'intendimento è il motore della convenzione filosofica
perchè lavora all'associazione dei segni mentali con i segni verbali o
grafici e quindi all'edificazione di un segno comune e collettivo.
Mercoledì, 7 settembre
Annotazione. [o la borsa o la vita] La nostra vita è come se avesse
una sola borsa e quella sola. Ha poca importanza che sia bella o
brutta, solida o fragile, ben rifinita o grezza; quello che importa
veramente è di caricarla per quello che può contenere, in modo tale
che possa fino alla fine fare il suo lavoro di borsa; e quello che
importa è che si sia sempre ben consapevoli del fatto che proprio
perchè è una borsa, prima o poi, sarà necessario ritoccarla,
rinforzare le cuciture, allargare le tasche, e che, alla fine, si
romperà del tutto. Il suo ingombro, apparentemente inerte, però
rimarrà in mezzo a quello di tutte le altre borse, ancora integre,
ancora attive; ruberà a quelle ancora dello spazio e senza quel furto
e senza tutti quei furti, nessuna delle borse saprebbe precisamente
quale è il suo spazio e non si muoverebbe, ma rimarrebbe ferma,
sospesa fuori dallo spazio, senza un luogo.
Giovedì, 8 settembre
Annotazione. [o la borsa o la vita] Rimarranno le tracce delle
cuciture e dei suoi rinforzi sopra le borse che le sono passate
vicino. E scrivo passate e non 'state', perché le borse di questo tipo
non sono mai ferme, anche se si credono, molto di frequente, ferme.
Quando cessano il loro uso, anche lì, ormai prive di contenuto,
continuano a muoversi e dunque ad averlo; vengono scontrate dalle
altre, rimangono indietro, dimenticate, poi, agganciate su una
cucitura, progrediscono un po', quasi fino alla prima fila e poi
rimangono ancora indietro rispetto alla corrente generale.
Il verso di questa corrente non è qualcosa, una forza o un'energia,
che sta al di sopra delle borse, qualcosa di visibile e di
quantificabile e neppure di misurabile, il verso di questa corrente è
un movimento senza direzione: il movimento è determinato dalla
creazione di nuove borse, di altri contenitori, dall'estensione del
materiale e, soprattutto, dalla presenza del vecchio materiale, in
disuso, ma ancora operativo agli effetti del movimento generale, della
stessa tipologia delle borse. Le borse non sarebbero quelle borse e il
movimento non sarebbe quel movimento se non esistessero le borse vuote
e prive di contenuto, ma, alla fine, il contenuto non sarebbe
contenuto senza le borse che non lo contengono, che sono vuote. Viene
fuori qualcosa che assomiglia a un movimento quasi immobile e a un
contenuto quasi vuoto, a un peso quasi privo di peso.
Martedì, 13 settembre
Annotazione. [L'Islam incluso] Esiste un motore generale, rispetto al
quale il radicalismo islamico contemporaneo è un dispositivo
particolare. Basta scorrere la biografia dei terroristi islamici delle
banlieu tanto quanto quelle dei serial killer anglosassoni
degli ultimi due secoli. Assolvere l'islam? No di certo: è un
dispositivo particolare che si presta, in questa specifica fase
storica, con naturalezza al movimento di quello generale. Il
movimento, però, è altrove, è fuori dall'islam, un po' meno fuori
dalle periferie, ma in gran parte estraneo anche a quelle. Spiegarci
il movimento generale, l'imbarbarimento delle relazioni, la fine dei
concetti di pace e guerra, la devalorizzazione dei diritti, della vita
e dell'esperienza umani, è rovesciare la verità delle cose (dura
parlare di verità e anche solo pensarla, ma è una durezza più che mai
necessaria). Certo si preferisce morire e combattere per una causa
esatta, precisa e ben definita, come si preferisce morire piuttosto
che rimanere in un continuo e reiterato dubium vitae. Il dubium
vitae è la somma della nuova barbarie, e della nuova pace
bellica; è il sentimento razionalmente ispirato che prevale. La fonte
del motore generale conosce bene queste cose, ha studiato con
accuratezza l'uomo per millenni e ha accumulato conoscenze allo scopo
di dominarne la vita con una sempre più elevata precisione
scientifica. Quest'ascesa della scientificità del dominio ha avuto il
moto di una sinusoide e quindi a progressi si sono intervallati
regressi, ma la retta intorno alla quale la sinusoide disegna le sue
onde è inclinata.
Mercoledì, 14 settembre
Annotazione. [il DNA double face] È arrivato il punto
della più radicale delle antinomie nella storia dell'umanità: quella
posta tra la sopravvivenza del sistema economico e la sopravvivenza
della nostra specie, intendendo per nostra specie quella specie di
animali che ha acquisito assoluta centralità negli ultimi diecimila
anni nella vita sul pianeta.
Qualche animalista e qualche ecologista estremo gioirebbero e forse,
se consapevoli, gioiscono a quesra prospettiva. Questa potenziale
gioia, gioia paradossale perché è una gioia che si suicida, non deve
affatto stupire: animalismo, ecologismo, quando intendono sè
medesimi come discipline astratte, come morali, come istinti
puri, sono i prodotti, tra i numerosissimi, dell'antinomia e,
inconsapevolmente spesso, i migliori rappresentanti
dell'intellettualità spicciola e banalizzante, anche se raffinata
scientificamente, proprio del sistema economico. Ecologismo e
animalismo, lungi dall'incentivare una praticabile difesa dei
paradigmi ambientalisti, finiscono per partecipare alla grande
corrente della devalorizzazione della vita umana, cioè della vita di
una specie animale che, come ogni altra specie, lavora nella
natura e la trasforma secondo i suoi strumenti e secondo le sue
capacità. Non c'è specie vivente che rispetti l'ambiente: non c'è
specie vivente che conosca ambiente e rispetto come valori astratti,
assoluti e sciolti dalla natura, cioè dal lavoro necessario e
indispensabile sulla natura che la vita compie.
Se scrivo di sistema economico e non di 'questo' sistema economico, lo
faccio perché il mondo dell'economia ha acquisito una dimensione
assoluta e assolutizzante; il sistema economico è un secondo e
intoccabile sistema naturale, sistema ecologico. C'era un gruppo rock,
negli anni ottanta, americano, che aveva scelto di chiamarsi DNA, nel
segno dell'elemento primordiale, arcaico che viene conosciuto dal suo
stesso prodotto, nel segno dell'inizio e della fine, nel segno della
causa e del suo effetto che, in quanto effetto, conosce la sua stessa
causa e giunge, alla fine, all'annullamento di causa ed effetto
insieme, come fatti separati e, dunque, anche della storia come
sequenza causale. Alla stessa maniera l'intera storia dell'umanità può
essere interpretata attraverso quest'ultimo sviluppo, finale e
necessario a questo punto e sotto questo punto di vista, che
porta alla scomparsa dell'uomo, in quanto elemento anti - economico,
l'uomo come costo, detto da colui che ha costruito il concetto di
costo.
Anche l'ideazione delle macchine, il lavoro umano per eccellenza,
quello che contraddistingue l'uomo come animale tra gli altri animali,
può essere affidata ad altre macchine e tecnica e sistema economico
hanno contratto un matrimonio necessariamente inscindibile, perchè
grazie alla tecnica il sistema economico si libera della variabile
umana nella produzione e si assolutizza, realizzando l'assoluto nella
storia. L'elemento indispensabile, il vero detentore del patrimonio,
non è la tecnica ma l'economia, l'economia è la tecnica, si immerge in
quella.
Il sistema economico ha bisogno dello sviluppo della tecnica per
generare i suoi orizzonti di sviluppo, e le leggi della tecnica si
confondono con quelle dell'economia. La tecnica genera lo sviluppo, ma
non può generare l'ambiente adatto alla riproduzione dell'economia.
Lì, nello scambio dei beni e dei prodotti la tecnica non c'è, nella
domanda, nel consumo, la tecnica non c'è. Far lavorare la tecnica nel
campo della domanda trasformerebbe il sistema economico in un sistema
ludico, integralmente ludico; già oggi è su questa via, quando buona
parte della gestione della domanda assume componenti ludiche, ma alla
fine di questa strada è un sistema ludico a tutto tondo.
Le robuste anticipazioni di questa trasformazione esistono già: la
preminenza nella progettazione economica e nella fenomenologia
economica dell'antico gioco in borsa, che proprio perdendo
l'aspetto 'giocoso', l'azzardo e il rischio è diventato indice
(fenomenologia), progetto (investimento) e centro dell'economia. Le
regole di questo sistema non sono quelle dell'economia, ma si
esprimono tutte in forma economica. Pensiamo alla relazione tra il
gioco degli scacchi e la forma della guerra per definire il rapporto.
Alla base del valore economico non il tempo di lavoro, o la rendita
agricola e naturale, come in ogni società precedente, cioé un surplus
estratto in diverse forme e attraverso diversi agenti alla natura, ma
un valore che è indipendente dalla natura e dal pianeta, che sta sopra
all'economia e che fa dell'economia la nuova forma della legge
universale e naturale. Ma la legge non è economica, la legge è
naturale, nel senso che crea una nuova natura e una nuova
ecologia di valori. La forma economica è la sua forma razionale, il
modo di darsi in maniera intellegibile, precisamente come negli
scacchi i pezzi servono per lo sviluppo del gioco e per visualizzare
le regole, ma le regole sono al di fuori della scacchiera.
L'economia, e sembrava già rivoluzione nella tarda modernità,
nell'epoca neokeynesiama e poi neoliberista, ha negato ogni autonomia
alla politica, ma l'economia rinnega la sua nuova indipendenza, perchè
non può vivere in autonomia.
Venerdì, 16 settembre
Annotazione. L'economia ha bisogno di farsi politica, senza ammettere
l'autonomia del politico e cioè di quello che è diventata; la politica
deve essere autonoma fino a quando è un travalicamento che l'economia
compie su sè stessa, un movimento critico interno all'economia. È
qualcosa di simile a quello che Deleuze e Guattarì scrivono sulla
relazione tra vita e arte: l'arte forma delle sensazioni sulla vita,
le rende sensibili alla vita stessa. Nella contemporaneità (ma già
dagli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso negli Stati Uniti,
oggi è diventato fenomeno globale) la politica non inventa l'economia,
precisamente come l'arte non lo fa con la vita, ma forma alcuni
elementi del flusso economico affinchè divengano significativi oltre
l'economia, fermi oltre l'economia, cristalli e sedimenti, e
sensazioni permanenti per gli uomini, sensazioni, quindi, politiche.
La politica è immagine dell'economia, ma la scienza economica ha
bisogno di presentarsi come scienza politica, anche perchè lo è concretamente.
Sabato, 24 settembre
Annotazione. Concreto termine interessante. La concretezza
del realismo cinico, la concretezza del dominio e della necessità.
Concreto viene dal latino cumcrescere, crescere insieme -
addensarsi. La concretezza, secondo questa etimologia, rimanda a uno
stato e a una situazione dinamici, mai stabiliti. Nelle traduzioni del
termine dai testi di Marx, concreto è usato in questa sua
ambivalenza: un aspetto della realtà di fatto, la 'concreta realtà',
appunto, che tende a eternizzarsi e a produrre come conseguenza
rassegnazione e cinismo; sentimenti concreti o meglio i sentimenti
degli individui concreti. In questa valenza il concreto perde il
movimento, perde il fatto di essere un risultato, un prodotto, e
diviene un elemento ontologico, autofondante.
In Marx, invece, concreto è anche un elemento soggettivo, che proviene
dalla soggettività, è un aggettivo generato dalla soggettività
politica e sociale; concreto è il prodotto dell'interpretazione
dominante della realtà, ma può anche esistere un'altra concretezza,
un'altra maniera di legare insieme e di addensare il sistema
produttivo e sociale, liberandolo dall'attuale concretezza.
È il concreto del realismo rivoluzionario.
Nel cinismo, invece, l'aspetto dell'assodato, addensato e dimostrato è
egemone; la concretezza della visione cinica si fonda sulla
cristallizzazione ed eternizzazione dello stato di cose presenti; nel
cinico lo stato di cose, diventa lo stato delle cose. Anche
il cinico immagina, ovviamente, un movimento storico e un'evoluzione,
ma come parte di uno stato eternizzato, come parte apparente e
secondaria, accessoria, dello stato di cose: la parte fondamentale ed
essenziale dello stato di cose presenti è l'eternità. Nel pensiero
rivoluzionario l'aspetto dell'addensabile, assodabile e dimostrabile è
la concretezza: la concretezza si deve ancora fare.
Il marxismo ha dimenticato questo aspetto della concretezza in Marx e
insieme con quello quasi tutto il pensiero rivoluzionario, che, nel
bene o nel male, volontariamente o involontariamente, al marxismo ha
fatto riferimento. Il marxismo nelle mani dei marxisti è diventata una
scienza economica e una dottrina politica, è diventato concreto, ma
non nell'accezione di Marx, ma in quella cinica.
Domenica, 25 settembre
Annotazione. [Il biocapitalismo è un dio che incombe da un
passato mai conosciuto] L'idea che il capitalismo contemporaneo
comporti una internalizzazione delle strutture del potere è diffusa.
Questa idea è troppo semplice: stabilisce una relazione lineare tra il
potere economico e quello politico che, nella storia, non si è mai
verificata. È certo che il capitalismo globalizzato richiede una
deterritorializzazione delle istituzioni politiche e dei relativi
processi; questa innegabile e necessaria deterritorializzazione non
deve obbligatoriamente assumere l'aspetto dell'internazionalizzazione.
Il declino dell'ONU e il persistere del senso nell'esistenza degli
Stati nazionali fa parte di un meccanismo tutt'altro che semplice, ma
anzi complicato. Alcuni Stati nazionali stanno acquisendo un nuovo
senso, una nuova ragione proprio all'interno delle politiche
biocapitalistiche, altri le subiscono, scambiandole e percependole
esclusivamente come politiche globalizzanti e internazionalizzanti,
come politiche che tendono alla soppressione della sovranità popolare
espressa su base nazionale.
In verità il meccanismo globalizzante non è riassumibile in una
egemonia semplice dello Stato nazionale statunitense, egemonia
riconducubile alla sua capacità di interpretare le esigenze del
capitalismo multinazionale e delle grandi corporations,
poichè lo Stato nazionale statunitense, in quanto potenza nazionale
tradizionalmente determinata, è anch'esso in declino, nè nel declino
delle tradizionali istituzioni internazionali, nè nell'emergere in
forma compiuta della potenza nazionale cinese, sull'assetto del
capitale multinazionale a maggioranza cinese, e neppure
sull'insospettata resistenza dello Stato russo.
Il nuovo potere economico, come in biochimica le vitamine, ha bisogno
di enzimi per metabolizzarsi e la sorgente metabolica è quella
esercitata dalla storia degli Stati; il biocapitalismo non può fare a
mano degli Stati anche se, in ultima tendenza, ne proporrebbe
l'abolizione. Gli Stati, però, sono dei trasmettitori locali del senso
dello sviluppo economico, dalle compatibilità finanziarie e della
gestione generale delle risorse umane. Molti Stati nazionali
cambieranno natura, altri si frantumeranno sotto il movimento
sotterraneo ma potentissimo di deterritorializzazione e
riterritorializzazione dei flussi economici, come è sempre stato,
inoltre, nel capitalismo e dall'epoca moderna. Anche il capitalismo
nazionale, basato sulle singole borghesie, ha creato naturalmente gli
Stati nazione, ma per formarli ne ha distrutti molti altri e
potenziali. Lo Stato nazionale come espressione chimicamente pura
della sovranità in epoca moderna è una teoria comoda, ma non del tutto
giusta e adeguata.
La novità oggettiva è che i flussi economici sono diventati sistemi di
segni telematici e di comunicazione automatizzata, per loro stessa
natura delocalizzati e delocalizzanti e sono davvero, si verificano
davvero, in maniera sincronica in ogni luogo e ogni luogo possiede lo
stesso tempo, ogni luogo è simultaneo a ogni altro luogo.
E in questo punto si interseca il problema del trionfo, altrettanto
oggettivo, del lavoro morto (intellettuale e 'manuale') sul lavoro
vivo.
Due elementi davvero inedite, dunque, conformano questa fase storica,
accompagnadosi: la progressiva obsolescenza, inadeguatezza e
inattualità dell'interveno umano nella produzione dell'essere e la
presenza, secondo tecnologie che permettono la simultaneità, del
medesimo sistema economico in tutto il pianeta. Il peso del fattore
umano in economia si polarizza sul consumo delle risorse e dei
prodotti, sul consumo dell'essere, e si riduce il campo della
produzione, della progettazione, dell'ideazione e della creatività,
mentre questa polarizzazione erode ogni limite geografico e si propone
ovunque, seguendo procedure uniformi, procedure tecniche, simultanee
per loro natura. Dentro le eredità geo - politiche, dentro cioè la
trama degli Stati nazionali e delle loro gerarchie costruite e
stabilite su scala planetaria e in maniera univoca e simultanea
(quindi davvero globale), le popolazioni che non hanno conosciuto la
povertà del mondo moderno, la povertà industriale, sono proiettate
nella povertà post - industriale, passando da un mondo basato su
relazioni sociali circoscritte localmente e su la produzione
artigianale, governata dall'esigenza dell'autoconsumo. Queste
popolazioni sono inserite in un mondo basato su relazioni non -
circoscritte e sul lavoro salariato e astratto senza che il lavoro
salariato sia possibile, ma rimane come un presupposto intangibile,
assoluto, posto al di fuori delle cose, una potenza storica
ingovernabile, ignota e terribile come un dio che incombe da un
passato mai vissuto.
Il mondo che ha conosciuto il lavoro salariato come forma
egemone del valore del lavoro e relazioni sociali allargate, rischia
di dover combattere per conservare livelli di povertà almeno
industriali contro il resto del mondo, che non l'ha conosciuto. Il
passato, però, in maniera diversa, incombe anche contro il mondo
svezzato nella modernità e nell'industrialesimo: modernità e
industrialesimo sono state solo particolari stati dell'economia
assoluta, sono sempre stati limite e crisi, modelli negativi da
oltrepassare.
La guerra civile mondiale non è uno scenario prefigurabile, è già una
realtà di fatto, e gli Stati nazionali funzioneranno come strumenti,
punti di riferimento, ma non protagonisti, (non protagonisti in quanto
Stati - nazione, espressione di una volontà nazionale, ma protagonisti
in quanto strumenti nazionali), di questo scenario. Per tenere dietro
a questi nuovi orizzonti, per essere funzionali in questi nuovi
confini e compiti, sono costretti ad abdicare alla loro natura, ad
acquisire un nuovo senso per perpetrare e amministrare la guerra tra
poveri che si delinea. Esempio lineare è la politica del governo
italiano dal 2011 in poi, che ha ottenuto finanziamenti dal resto
della comunità europea per il ruolo di portale dell'emigrazione nord /
sud dell'emisfero occidentale: uno Stato nazionale realizza progetti
internazionali, in quanto Stato nazionale. Esempi simili in questo
campo li offrono la Grecia, la Turchia e la Bulgaria.
[Nuovi orizzonti] L'orizzonte è oggettivamente barbarico e arcaico, lo
sviluppo economico contemporaneo porta con sè, in tutta naturalezza,
la logica secondo la quale il capitale per vincere la resistenza del
lavoro lo elimina e le risorse umane, le popolazioni, perdono valore
in quanto forze produttive ma concentrano il loro valore in quanto
consumatori, in quanto fisicità slegate dal lavoro, in quanto soggetti
non produttivi. Questo assunto in una società economica che fa della
produzione valore fondante è paradossale, è antinomia all'ennesima
potenza, contraddizione allo stato puro. Siamo orfani di un padre che
ci sopravvive, di un passato che ci ignora, proiettandosi sul futuro
con il quale non possiamo avere dimestichezza, nonostante dovremmo
averne, perchè, in verità, ha tutti i valori del nostro passato.
L'eliminazione del lavoro non è stata una deliberata scelta del
capitalismo, però, è stato il lavoro stesso, sono stati gli uomini
stessi a porre le basi per la distruzione del lavoro. La distruzione
del lavoro è stata critica radicale al lavoro, negli anni sessanta e
settanta, ma anche costituzione di nuove forme di lavoro creativo,
ideativo e comunicativo. Questa lotta al lavoro comandato ha
comportato anche l'idea, importantissima, che la fruizione dei diritti
fondamentali dovesse essere slegata, concretamente slegata, dalla
partecipazione alla produzione. L'estensione dell'ambito di
applicazione e di generazione dei diritti politici, umani e sociali è
stato il naturale portato di questa critica al lavoro della seconda
metà del novecento: il diritto al lavoro è stato sostituito dal
diritto alla vita al di fuori del lavoro. Questa nuova teoria dei
diritti ha lasciato dietro di sè un basamento di idee, relazioni,
sentimenti e di etiche importantissime. Non vada scambiato con
un'argomentazione consolatoria: è inequivocabile che il diritto che ha
stabilito la fine del lavoro vivo non è il diritto esteso dell'operaio
taylorista o dell'operaio sociale, ma il diritto di proprietà sui
mezzi di produzione del capitale collettivo. Dopo l'espressione
autoritaria di questo diritto, le fasi marxiane non sono più valide,
neppure i passi fantascientifici dei grundisse riescono a essere
fantascienza, ma sono passato, mentre le fasi marxiste, anche se
richiamate nel neo - marxismo italiano, non sono mai state valide.
È però da lì che bisogna ripartire, dal nostro soggetto introvabile e
inconoscibile, dall'operaio dimenticato a metà ricarica della penna
dal neo - marxismo italiano, dall'operaio sociale fantasmatico;
operaio sociale è quel coacervo magmatico, ma sotterraneamente
strutturato, strutturato in maniera inconscia, di diritti, abitudini,
pigrizie, sollecitudini, relazioni e comunicazioni che si sono
sviluppate durante la critica operaia al lavoro e poi ancora durante
la destrutturazione del lavoro operaio di fabbrica. Quel coacervo ha
trovato a tratti una pianificazione, una sorta di programmazione
economica dell'emotivo, nel consumismo comunicativo del
biocapitalismo. Quel coacervo è diventato segno tangibile di una
sconfitta storica: il lavoro e i suoi diritti sono stati abbattuti;
esiste solo una forza produttiva: il capitale come forza produttiva.
Ammettere la sconfitta per riprendere la guerra, per riprendere le
armi e affrontare il nemico su un altro campo di battaglia, su un
altro terreno, quello dei diritti collettivi che si contrappongono al
diritto espresso sui rapporti di produzione. Siamo ad un aut
/ aut, nella realtà delle cose, che è necessario affrontare
come un et / et o un sive / sive.
La guerra civile mondiale è disinnescabile solo attraverso la pratica
dei diritti allargati contro il diritto autoritario del capitalismo
collettivo contemporaneo che rende la liberazione del lavoro umano
dalla produzione un suo prodotto esclusivo, un prodotto sottoposto al
suo diritto di proprietà. Come se non fossero stati gli uomini nel
loro insieme a creare scienza e tecnica, ma solo il capitale abbia
avuto, fin da sempre e fin da subito, il monopolio dell'intelligenza
collettiva. La liberazione dal lavoro, sotto il profilo del
capitalismo, è estinzione della cooperazione produttiva e dal momento
che la cooperazione finalizzata alla produzione è stata l'unica forma
di collaborazione che il capitalismo ha saputo intendere, sotto il suo
profilo e amministrata dal capitale collettivo e globale, si
tradurrebbe in fine dei diritti inerenti la collaborazione e
polverizzazione della società.
Mi amareggia il fatto di essere giunto a questa visione dicotomica
radicale a quasi sessanta anni; mi amareggia di aver avuto l'idea, per
decenni e almeno fino dagli anni ottanta, che le cose si avviassero
verso un antagonismo radicale e decisivo, ontologico e antropologico,
e di aver preferito continuare a lavorare, a fruire dei necessari
surrogati della verità, mentre il lavoro e la verità venivano
distrutti. Dopo tanto tempo rimane quasi una cinica constatazione, un
atteggiamento concreto, piuttosto che una sana convinzione
intorno a una nuova e possibile concretezza.
La scommessa storica (e sono convinto che sia una scommessa storica
nel senso che coinvolge il significato di tutta la storia della nostra
specie) è la riorganizzazione della società al di fuori del
capitalismo, che significa anche e soprattutto, anche richiede e rende
necessaria, una riorganizzazione radicale dell'umano, cioè della
relazione della nostra specie con sè stessa. I radicalismi post /
vetero marxisti, i tatticismi nuovo riformisti sono piagnistei sulla
tomba del lavoro e della lotta tra capitale e lavoro, della lotta tra
antiproduzione e produzione. Certo, siamo stati, come specie e come
classe, dei lavoratori e in parte continuiamo ad esserlo, e l'et / et
si accompagna all'aut / aut; la negazione del lavoro non deve essere
il nostro paradigma, questo paradigma va lasciato ed è del
capitalismo, la riorganizzazione del lavoro sarà un fatto, una
necessità ma non generata all'interno del lavoro, del suo mondo, ma
come risultato di una trasformazione complessiva che partirà
necessariamente al di fuori di quello.
Questo movimento si troverà spesso in posizioni scomode, ondeggiando
tra gruppi di vandeani che hanno in odio il potere del Re ma non
combattono affatto la Monarchia, ovvero combattono solo tutto ciò che
ricorda loro uno Stato monarchico, ma sono monarchici, e sarà spesso
per questo scambiato come un partito del Re, e il Re e la Monarchia
autentica, che aizzerà i vandeani, senza tenere contatti concreti con
quelli. Si dovrà combattere i prodotti naturali della Monarchia,
passando per monarchici. Ma non solo. Questo movimento avrà contro la
Gironda, che spingerà a riconoscere la razionalità e umanità della
Monarchia, a richiedere solo aggiustamenti e piccole riforme possibili
e concrete, verso un eterno e mai realizzabile et / et. Ci saranno
sicuramente i profeti dell'aut / aut a ogni costo, della scelta della
guerra civile, della separazione rivoluzionaria a ogni costo. La
Vandea della nuova rivoluzione sarà, quindi, colorata e piena di
sfumature, di segni apparentemente contrari e sarà anche dentro di
noi.
Martedì, 27 settembre
Annotazione. [inconscio collettivo?] Avrei intenzione di consolidare
un complesso di idee, un concetto, che mi gira nella mente, indomito,
da circa un trentennio. Ho spesso ragionato avendo in mente questo
piano concettuale, ma non l'ho mai formalizzato, anche perchè faticavo
a battezzarlo e, dare un nome a una cosa, è definirla compiutamente
(almeno soggettivamente). Inconscio collettivo che è omonimo
di un concetto della psicologia novecentesca potrebbe andare bene.
Inconscio collettivo lo intendo come un concetto storico; si occupa e
comprende quell'area delle relazioni umane che è sempre esistita:
l'area che negli antichi era riservata alla mentalità religiosa e
sociale, ad alcuni aspetti del culto, alla visione delle famiglia,
alle aspettative di vita e in generale ai desideri e alle paure
collettive e comuni. L'inconscio collettivo si è esteso enormemente e
ha perso buona parte della sua natura, non rimanda più al
trascendente, come in epoca classica, ma investe completamente
l'immanente, spesso o quasi sempre, trascendentalizzandolo.
L'inconscio collettivo è il mondo dell'inespresso, o dell'inespresso
in forme politiche compiute e progettuali, che rappresentano, in
questa figura, il conscio. L'inconscio spiega ed è costituivo, in gran
parte oggi, in minor o minima parte nella premodernità, il conscio
collettivo, il politico e l'ideologico. La diffusione, il successo di
determinate ideologie, progettualità e cornici analitiche ha la sua
radice nella corrispondenza con un insieme di idee, aspirazioni e
mentalità inespresse e sotterranee. Nell'inconscio collettivo non
c'è nulla di inconscio, ma manca una mediazione completata con
il piano della storia della società e delle sue idee. Spesso, inoltre,
nel complesso ideale che caratterizza l'inconscio collettivo è una
relazione quasi immediata con la struttura sociale, qualità che manca
al conscio collettivo, con i modi di produzione, la tecnica, gli
strumenti di comunicazione , i mezzi di trasporto e il territorio che
contiene tutti questi elementi. L'inconscio collettivo riguarda ogni
singolo individuo ma esiste solo nelle relazioni tra le persone, e
solo quando queste guardano sè stesse come parte di una socialità, di
una omogeneità, e guardano il mondo come totalità. Anzi il mondo come
totalità è un polo dell'inconscio collettivo e uno dei motori del suo
processo ideativo.
Rivedi settembre
Inizio anno
Domenica, 9 ottobre
Annotazione. [il perimetro dell'inconscio collettivo]. Il campo
concettuale dell'inconscio collettivo va delimitato con estrema
attenzione perché, per la natura che immagino per il concetto,
rischia continuamente di invadere altri campi. Intendo dire che
la cosa che sta dietro al concetto è adattiva,
si contamina e contamina, occupa, per momenti anche lunghi, il
terreno del conscio collettivo, di quello che è definito
storicamente e teorizzato politicamente. Esiste alla base della
cosa, la divisione tra ufficiale e ufficioso, tra la
storia 'monumentale' e la storia della vita quotidiana, e poi
tra le culture 'egemoni', registrate e quelle non egemoni, non
registrate, clandestine alla visibilità, e poi ancora tra le
culture e le sottoculture. La cosa nasce, rispetto al
conscio collettivo, assimigliando a queste divisioni e si divide
da questo in modi simili. Tutti gli elementi elencati concorrono
a costituire, narrare e descrivere l'elemento conscio
collettivamente e quello inconscio, ma non coincidono con la
natura della separazione tra i due; assomigliano ma non
coincidono.
Inoltre il conscio interviene nell'inconscio, con una maggiore
permeabilità che in psicologia, l'osmosi e il dinamismo osmotico
è attivissimo, tra le due parti o cose. Il conscio
istiga alcune pulsioni, che si strutturano e sedimentano in
forme inconscie politicamente, lasciano segni apparentemente non
visibili, non percepibili e non sensibili, ne ferma altre che
tendono ad emergere dall'inconscio e infine ne costituisce, in
maniera studiata, altre, in modo tale che si edifichino come
forme inconscie, come pulsioni spontanee; il conscio non sempre
produce un 'rischiaramento' dell'inconscio, anzi il conscio
politico cerca spesso di tramutarsi in forme inconscie, in
pulsioni sotterranee ma importanti e decisive socialmente.
Sotterra, spesso, tesori nell'inconscio. Anche l'inconscio,
ovviamente, interviene nel conscio politico, si manifesta e si
propone in forme conscie; esce dalla pulsionalità e si dà forma
ideologica.
È completamente al di fuori della mia portata la capacità di
definire i concetti di conscio e inconscio collettivo, ma mi
preme individuarne il campo e indicarne la necessità. L'insieme
del conscio collettivo è estremamente più vasto dell'inconscio,
comprende molti più elementi (cultura, immaginazione, politica,
ideologia, arte, legislazione), l'insieme dell'inconscio
collettivo comprende tutte queste discipline, interessi e
investimenti, solo in relazione alla sua eleborazione, solo in
riferimento a sé. Nell'inconscio tutti questo elementi sono
mescolati, embricati in pulsioni, flussi di immaginazioni e
stati d'animo collettivi.
Pensiamo all'insieme di motivazioni che hanno spinto, in questi
decenni, milioni di uomini a lasciare paesi e continenti di
origine: motivazioni materiali, motivi ideali, ideologie qualche
volta, quindi elementi del conscio, ma insieme con quelli, e
spesso legati gemellarmente a quelli, nuove aspettative, nuove
mentalità, flussi informativi, stereotipi culturali,
immaginazioni sul mondo, che non si risolvono in un
discorso strutturato culturalmente, idealmente e politicamente.
Questo insieme spesso è quasi gemello, delle ideologie,
valutazioni razionali, calcoli economici, sostiene quell'altro
come un dorso. Gli elementi inconsci entrano, cioè spesso, a far
parte dell'ufficialità, entrando in quella come segmenti,
trovano una segmentata ospitalità nell'ideologia e nella cultura
registrata.
Oppure, secondo un processo che appare contrario (ma è
inadeguato pensare a direzioni, a un movimento tra poli), certi
elementi culturali e politici, certe teorie, stimolano e
concorrono a venir diversamente percepite le motivazioni
materiali, le valutazioni di utilità economica, e spesso
'ritornano' su sè medesimi arricchiti, sovradeterminati, dalla
pulsionalitò che hanno incontrato e dentro la quale si sono
diffusi. Così, 150 euro al mese, un tempo accettabili, diventano
motivo di fuga; un lavoro operaio, un tempo obiettivo decisivo,
diventa insopportabile.
L'immagine televisiva, ufficiale e conscia dei paesi
dell'occidente, del post industriale (spot pubblicitari, serie
televisive, informazioni telematiche, passa parola di rete)
concorrono a rielaborare l'immagine conscia dell'occidente e a
sedimentare un nuovo inconscio collettivo, un'immagine inconscia
dell'occidente, una teoria inconscia sull'occidente.
Questa immagine e teoria inconscia è un vero fuori programma,
una variabile, estranea alla sociologia ed estranea agli Stati e
alle istituzioni; viaggia nel basso, nel sottoculturale, nella
'pancia' del migrante.
Al contrario che per la psicoanalisi, conscio e inconscio
collettivo utilizzano lo stesso linguaggio e le stesse parole,
gli stessi elementi e la stessa sintassi, ma scrivono due testi
differenti, due opere diverse, parallele e intersecate,
osmoticamente. Quindi è chiaro che Stati e istituzioni possono
intervenire su questa 'pancia', determinare limiti e percorsi,
estendere o limitare flussi informativi e influenzare il
fenomeno nel suo complesso, lavorando sul basso, lavorando
appunto sulle sue 'motivazioni inconsce'. È il gioco più
importante e il più usato nelle società di massa, nelle società
del tardo capitalismo industrialee in quello post industriale,
in generale in quello che a maggior ragione andrebbe detto il
'capitalismo della vita', il biocapitalismo.
Comunque l'inconscio collettivo non è la novità di quest'epoca,
appartiene alla storia delle società umane, ogni società ha
avuto le sue forme di inconscio collettivo, politico e sociale.
Non c'è mai nulla di assolutamente nuovo sotto il sole.
Comunque che fatica! Signori, perimetrare questo concetto!
Preferirei non mi fosse venuto in mente, ma da troppo tempo
ronzava.
[Il nuovo mercato dei beni culturali]. Pensavo, inoltre, che
oggi i concetti in filosofia, per quel che resta della
filosofia, assomiglino sempre più a prodotti / merci del
mercato dei beni culturali. Un mercato costituito, un concetto,
un dentifricio, proprio un dentifricio e non un automobile
(l'automobile dura troppo), altre volte una linea di bellezza,
ancora altre una cura contro l'ingrossemento epatico e la
colite. La filosofia serve come la psicologia, ma
contrariarmente alla psicologia, usa farmaci generici, non
etichettati così precisamente, privi di eccipienti. La
psicologia, invece, deve produrre effetti programmati,
precisamente delimitati, deve avere un effetto sociale
immediato.
Avremo l'inconscio collettivo, l'immaginario collettivo, la
moltitudine, la massa, il popolo, la popolazione, relativo effetto di media durata, vendita stimata,
diffusione, capacità produttiva e riproduttiva, quotazione
finale nella borsa delle idee.
Mercoledì, 12 ottobre
[L'inconscio collettivo e gli anni ottanta].
L'inconscio collettivo è rappresentazione collettiva della
realtà, la rappresentazione non ufficializzata, un modo di
interpretare la realtà. Non manca affatto di strumenti
analitici, poiché di inconscio in senso psicanalitico non v'è
nulla in questo concetto, è una cosa perfettamente
conscia, consapevole; solo il modo di essere rimanda alle
dinamiche dell'inconscio psiacanalitico.
Un esempio. Negli anni ottanta in Italia, persistette un modo di
vedere le cose, uno stile di pensiero, un modo di sentire tipico
del decennio precedente. Le aspettative e l'atteggiamento verso
il lavoro che avevano caratterizzato la classe operaia nei
settanta si riverberarono in settori che operai non erano più e
che erano stati esclusi dalla fabbrica. Il lavoro dipendente
veniva criticato e censurato come una servitù, si cercava di
liberarsene: l'occasione storica della crisi del lavoro operaio
offriva la possibilità di una pulsione generalizzata, e
generica, verso il rifiuto del lavoro comandato, che andava
verso, nella possibilità concreta offerta dal mercato, una nuova
tipologia di impresa, un lavoro autonomo di seconda generazione,
ben descritto da Sergio Bologna in un'opera omonima.
Ogni sedimentazione organizzativa del rifiuto operaio del
decennio precedente era disciolta, e quella visione non aveva
più cittadinanza politica e ufficialità e in quell'ambito
ridotta a qualcosa di simile a una setta testimoniale e
clandestina; a livello di rappresentazione del mondo e della sua
spiegazione, però, appunto quello che si potrebbe dire un
'comune modo di sentire', i desideri, le aspettative e gli stili
esistenziali del decennio precedente continuavano a proporsi. Si
proponevano senza darsi una forma politica, rimanevano
come un sotto fondo, una tappezzeria, ideologica e culturale; un
inconscio sotto il profilo della comunicazione e
dell'elaborazione comunicativa.
Il peso storico di questa sedimentazione comunicativa,
linguistica ed esistenziale è di difficile valutazione; eppure
sarebbe molto importante per definire i ruoli sociali dei
protagonisti, egemoni e subalterni, in una fase storica. Una
teoria ben strutturata dell'inconscio collettivo potrebbe
aiutare a conoscere, comprendere una fase storica e avere anche
una valenza politica non indifferente nella progettazione
sociale e politica.
[Sul termine] Ho ancora dubbi sulla scelta del termine
'inconscio collettivo', sono due parole ambigue e molto
generiche, ma evocative, come dovrebbe essere il concetto.
Questo ambiguo e generico è proprio quello che rappresenta e
cerca di rappresentare la cosa, che è equivoca, con
parentele inconfessabili e che può essere facilmente sottoposto
a un uso riduttivo e a una rielaborazione continua e perenne.
Come l' inconscio psicanalitico, l'inconscio collettivo lavora
sul conscio, ma il conscio lavora, occultamente, sull'inconscio.
Il procedimento è quasi contrario a quello disegnato dalla
psicanalisi: l'inconscio è spesso il prodotto del lavoro
occulto, nascosto (ma ben programmato) del conscio, anzi è
definibile inconscio anche per questa procedura di occultamento
degli obiettivi del conscio.
Sabato, 22 ottobre
Letture. Lo scambio simbolico e la morte / Jean Baudrillard.
Scritto nel 1976, è un testo che va letto, per ragionare su
quello che dice, senza porsi il ragionamento costantemente di
fronte. È un testo spavent- oso, provoca e porta spavento, lo
spavento della verità.
Qual è questa verità? Qual è la verità di Baudrillard nel 1976?
La verità è che il capitalismo è finito, la sua
esperienza storica si è esaurita, non ha più nulla da dire alla
storia ma, ed è un ma terribile e, per l'appunto, spavent-oso,
il mondo rimane capitalistico; il mondo non sa immaginarsi senza
il capitalismo.
Quello che tutti continuano a chiamare capitalismo, ne segue le
regole, ne segue il gioco, ma non è più un sistema di regole
costruite dall'economia, ma un gioco costruito sull'economia; il
capitalismo è, secondo Baudrillard, un sistema di regole che
utilizza l'economia per legittimarle.
Il sistema attuale, quindi, non è più un sistema capitalistico,
ma un nuovo sistema di dominio che utilizza il capitalismo e il
capitalismo non è più alla sua base, il capitalismo non lo fonda
più; il capitalismo è solo un'occasione per
riprodurre, riempire, vivificare, dare a quello un aspetto
concreto, il dominio sociale, ma non è più l'essenza del
dominio, non è il dominio in sé. In realtà, Baudrillard si
chiede se non sia stato sempre così e cioè se il capitalismo non
sia sempre stato questo, fin dalla sua genesi: uno strumento per
costruire, diffondere e riprodurre controllo sociale, e se Marx
non sia solo superato in ragione dello sviluppo attuale del
capitalismo, ma non abbia sempre sbagliato, scambiando un
elemento 'sovrastrutturale' del dominio, nella sua struttura.
Secondo Baudrillard, al contrario che per Foucault, non è la
fabbrica a fornire il modello per prigioni, manicomi, ospedali e
scuole, non è la produzione a fornire il modello sociale, a
inventare l'autoritarismo, ma è accaduto, probabilmente, il
contrario.
Questa lettura mi ha imposto il silenzio, nache perché erano
cose che erano in me, cose e idee che presagivo, confusamente.
[Baudrillard e l'operaio sociale]. Ecco, forse, dove si deve
andare a cercare l'operaio sociale: tra gli operai che non
producono più; che non sono più operai ma patiscono una
soggezione complessiva che usa l'economia senza avere un
fondamento economico. L'operaio sociale non si individua per la
produzione di valore, ma per situazioni extaeconomiche, valori,
certo, ma di tipo diverso, nuovo, anche se spesso, sempre più
spesso, recuperati dal passato precapitalista. Letto in chiave
antagonista, e secondo la lezione di Negri su Marx non si
dovrebbe fare altrimenti, l'operaio sociale, allora, è
convivenza organizzata contro il Capitale, e quindi estraneità
esistenziale, e non più limitata alla produzione, organizzata.
Questa è la via verso il soggetto indimostrabile che
indica Baudrillard se la mettiamo in relazione con Negri, se la
recintiamo con i paracarri di Negri, che, alla fine, sono ancora
i paracarri di Marx.
Baudrillard, rispetto a Negri e Marx, insegna qualcosa di più e
di assolutamente nuovo: il nuovo soggetto operaio, quel che
chiamiamo per comodità operaio sociale, è necessariamente un
soggetto indimostrabile e la sua composizione non è una
composizione sociale, realizzata sui temi della critica
all'economia politica.
Non è possibile scrivere di composizione, dopo Baudrillard, ma
al massimo di scomposizione, se vista dal punto di
vista marxista, una posteriore frammentazione e frantumazione
assolute.
La composizione non comporrà nulla, non porrà accanto nè insieme
gli individui, la composizione sarà un salto logico,
assimilabile a un progetto scientifico, tecnico ed etico, e un
salto relazionale, assimilabile a un progresso politico, qualcosa di simile al progetto
situazionista originario.
Rivedi ottobre
Inizio anno
Giovedì,
10 novembre
Ai margini (estremi) di Cosa è la
filosofia di Deleuze e Guattari.
La filosofia non ti dice se una cosa è
accaduta, accade o accadrà, ma se
poteva, può e potrà accadere. La
filosofia delimita con precisione il
campo della possibilità, anche e
soprattutto perché essa stessa è quel
campo.
Il pensiero filosofico, nella sua
espressione storica e ufficiale, nella
sua forma pubblica e registrata, entra
in crisi e diminuisce di rilevanza e
importanza, perde campo di applicazione
e di enunciazione, nelle epoche
contraddistinte da società
cristallizzate e in cui l'economia e le
relazioni economiche si personalizzano e
si danno forme di governo
personalizzato. In questi casi il campo
dell'indagine filosofica, il campo della
possibilità, scende o precipita,
addirittura, nell'immanente. Si
stabilisce una coincidenza tra
realizzazione e possibilità, una
coincidenza simbolica, in base alla
quale la realtà è un sistema di simboli,
immanenti, per una realtà simbolica e
trascendente. È il caso della filosofia
medioevale e della scolastica e
soprattutto della filosofia cristiana.
La descrizione simbolica della realtà è
priva di prospettiva, è bidimensionale
ma, e in questo la filosofia non cede,
nemmeno in questi casi storici, al suo
compito, la rappresentazione simbolica
denuncia la mancanza di prospettiva,
presagisce la terza dimensione. Nella
dominazione personalizzata,
individualizzata e singolarizzata
l'elemento della codificazione è
preminente: nei rapporti di dominio si
iscrive un codice. La vita pubblica è
strutturato da un codice univoco,
composto di pochi elementi, declinabili,
poi, secondo le individualità e
singolarità dei rapporti. Nella società
feudale, quindi, il campo della
filosofia è quello del prestabilito, stabilire
e descrivere il prestabilito, il
determinato a priori, e la possibilità
del mondo è nel significato che il
prestabilito e determinato assumono,
nello spiegare la loro azione. Ma è,
comunque, una filosofia, una filosofia
dell'immanenza ma una filosofia.
Il passaggio dal pensiero mitico al
pensiero filosofico segna il passaggio
dalla società tribale a quella
'transtribale'. Nel pensiero mitico la
relazione individualizzata non assurge a
simbolo dell'immanente, ma è fatto
immanente e non spiega l'immanente ma
solo alcune cose di quello, e fatti
autenticamente accaduti comportano con
potenza molti altri fatti, ma mai
tutti i fatti, ma mai la totalità, ma
mai l'immanente. Il pensiero tribale è,
quindi, un pensiero prestabilito e
determinato ma segnato da fatti
individuali, da eventi specifici, da
eroi singolari che intervengono sulla
realtà e non la trasformano
determinandola. Al pensiero tribale è
sconosciuto il concetto di realtà, ma
semmai si occupa di molte realtà.
Nella società post tribale si afferma un
prestabilito e determinato
indifferenziato, indifferente agli
eventi e alle realtà delle tribù, delle
famiglie e dei lignaggi e i miti tribali
sono inseriti in un secondo mito, che
scrive dell'uomo e dell'umanità,
una mitologia generica e generale.
Questa mitologia generica introduce il
campo del possibile, il racconto di
quello che poteva accadere e non di
quello che è accaduto. Introduce
l'interpretazione del mito, perchè il
mito, in sè, non spiega più nulla, nè
una realtà singola, che ha perso
dignità, nè tantomeno una realtà
astratta che non lo riguarda e nasce al
di fuori di quello.
La spiegazione del mito, la sua
astrazione a fatto concettuale, che
perde il carattere di accadimento
storico e di racconto, di memoria
familiare, è all'origine delle procedure
della religione e di nuovi orizzonti
intellettuali che comportano la
filosofia. La religione, intesa come
spiegazione della cosmologia e
cosmologia, è sorella della filosofia:
affronta il mondo come immanenza, e
l'immanenza come totalità. La filosofia
ha lo stesso bersaglio 'geografico',
l'immanenza e la totalità, ma si occupa
non di quello che è il mondo ma di ciò
che può essere.
Venerdì, 11 novembre
Ai margini estremi dello Scambio
simbolico e la morte di Baudrillard.
[Proletariato e classe media] Le
previsioni di Marx intorno alla classe
media, se mai state davvero così, perché
non ho mai avuto modo di leggerle, sono
state rovesciate. Da alcuni decenni è la
destra, il populismo di destra, ad
egemonizzare l'opinione pubblica
dell'occidente, perché l'operaio di
fabbrica e in generale il lavoratore
dipendente è diventato classe media,
dando ragione alle previsioni contrarie
avanzate da Marcuse. Con una
particolarità, però, che Marx aveva
presagito e Marcuse no: la classe media
è rimasta classe media impoverendosi. La
povertà può associarsi alla classe
media, secondo una realissima
contraddizione in termini.
La classe media ha inglobato la classe
operaia, la working class,
proletarizzandosi. L'operaio
contemporaneo è un piccolo - borghese
povero, privo di proprietà, ma
'produce', consuma e crepa come un
piccolo - borghese ricco, come un
piccolo - borghese della prima
modernità. Non è, come era convinzione
di Marx, accaduto il contrario.
L'operaio della fabbrica diffusa,
flessibile e globalizzata è una frazione
della piccola borghesia, istituendo un
legame sempre più tecnicamente indiretto
con la produzione di beni, di plusvalore
e di capitale. Il legame con la
produzione, come nel caso storico della
piccola borghesia, si mantiene solo
ideologicamente, nella rappresentazione
di sè.
Così l'operaio di fabbrica è diventato
una frazione della piccola borghesia ma
una frazione molto particolare. Il
sistema produttivo tradizionale, la
produzione diretta di beni naturali, era
la fonte del riconoscimento operaio
nella società e della sua identità
sociale. L'operaio di fabbrica, però,
non produce più niente, se non il suo
stesso lavoro, che è un concetto, che è
immateriale, che è un valore
immateriale. L'operaio di fabbrica
rimane legato al suo lavoro, come
rappresentazione, non come autentica
forza sociale, come forza produttiva,
rimane legato al teatro del lavoro, alla
cristallizzazione e mummificazione del
lavoro di un tempo; la classe operaia è
diventata, come la classe media di un
tempo e secondo vie sue
particolari, nostalgica e
tradizionalista e tiene lo sguardo
costantemente rivolto al passato dove il
'lavoro aveva un valore'.
[Trump e la fabbrica] La fabbrica non è
una forza produttiva, ma una potenza
ideologica, non è comando ma dominio. La
fabbrica diventa, attraverso i corpi
degli operai che la popolano e che
vivono del suo reddito, l'esistenza
nell'economia anche contro tutte le
leggi dell'economia. Le leggi più
potenti dell'economia sono oggi leggi
extraeconomiche, sono ideologie
economiche senza economia, sono le
scelte politiche che privilegiano la
produzione e che portano dirette alla
nazione d'origine della produzione e
della sua classe. La produzione operaia,
svuotata di contenuti, li ritrova fuori
di sè, nell'identità economica della
produzione nazionale, nella mummia della
produzione materiale nazionale. I dazi
protezionistici e il militarismo tornano
di moda, il freno allo sviluppo
economico torna a governare il mondo
economico. Ma, signori, è un finto -
freno allo sviluppo, poichè la
mummificazione del lavoro entra a far
parte di un'ulteriore evoluzione verso
la dematerializzazione del prodotto del
lavoro, dove il prodotto del lavoro sarà
ideologia accidentalmente fruibile come
bene materiale.
L'operaio di fabbrica ha tutte le
possibilità di trasformarsi in un
vandeano e la fabbrica nazionalistica
nella nuova Vandea. Donald ha vinto in
Ohio e in Michigan, i casi sono due: o
Donald Trump è di 'sinistra', o gli
assetti strategici della 'sinistra'
dovrebbero essere altrove e non in
fabbrica e in Vandea, senza abbandonare
a Donald la Vandea, ovviamente.
[Il lavoro improduttivo e il lavoro anti
. produttivo] Il resto della classe
media, che è costituita in massima parte
da altra gente, non strettamente operai,
che vivono con un reddito elargito
dietro la prestazione regolata da un
orario di lavoro, non produce neppure
quella, nè direttamente nè
indirettamente, beni materiali.
L'economia si fonda solo in finzione
sulla produzione materiale ma in realtà
lo scheletro economico della produzione
di valore, è macchinico, è la macchina,
è il lavoro morto. Il lavoro morto
egemonizza, anche per il pluslavoro
prodotto (è il pluslavoro in massima
parte), la produzione di beni materiali,
quanto quella di beni intellettuali ed
emotivi, la produzione di stati d'animo;
resta, per il momento, secondaria nella
produzione di affettività, ma è sulla
via per esserlo. Eppure lo scheletro
dell'irrigimentazione del lavoro vivo
nella produzione materiale, lo scheletro
della manifattura, è rimasto il segno
della produzione di valore e come tale
connette la totalità delle attività
umane legate all'elargizione di un
reddito. Anche se sotto il profilo
dell'economia classica la cosa non
avrebbe senso alcuno, nessun senso
interno all'economia, lo assume
nell'economia contemporanea che non ha
più un senso interno, una
giustificazione e legittimità interna.
Il concetto stesso di valore economico è
radicalmente cambiato; non è più il
valore un concetto economico, ma un
concetto 'politico' vestito con l'abito
dell'economia. Sotto questo punto di
vista l'estensione pura e semplice,
meccanica, del paradigma produttivo e
del concetto di valore del lavoro di
fabbrica al campo della produzione
intellettuale, che serviva a
disciplinare e definire il lavoro non -
operaio, il lavoro 'improduttivo' nel
capitalismo, non funziona alla stessa
maniera. Tutto il lavoro, anche quello
produttivo, è diventato 'improduttivo'.
Il lavoro, oggi, distrugge i prodotti
per ricreare il vero prodotto che è la
produzione in sé; il lavoro oggi
distrugge il prodotto del lavoro per
riprodurne il ciclo. Il lavoro della
contemporaneità è anti - produttivo. Il
feudalesimo è diventato un fatto di
massa, generalizzato; l'appropriazione
dei prodotti del lavoro da privilegio di
una casta è diventato occupazione dei
produttori. L'anti - produzione è la
vera produzione nel capitalismo
contemporaneo, che è vitale, umano,
istituito sui comportamenti
esistenziali, che è biocapitalismo.
Così la produzione è anti - produzione,
come la non - proprietà è l'essenza
della proprità privata. Il concetto di
utenza sta sostituendo quello di
proprietario, a tutti i livelli: dal
proprietario dei mezzi di produzione e
comunicazione di massa al propietario
dei beni e dei concetti di consumo. Le
grandi corporation non sono più
proprietarie dei loro mezzi di
produzione ma utilizzatori privilegiati,
così come un utente informatico non è
proprietario del software che sta usando
e questo nuovo concetto di proprietà si
sta estendendo a tutti i beni di consumo
non immediatamente deperibili.
Domenica, 13 novembre
[Vandea e Gironda] Tutto quanto scritto
potrebbe far concludere (e la 'destra'
fa questo) che il valore del lavoro è
azzerato e quindi anche i relativi lo
sono: essi apparterebbero al passato,
all'archeologia del capitalismo. La
'sinistra' non ribalta questo
ragionamento, perché è anche il suo
ragionamento: la 'sinistra', la
tradizione riformista e rivoluzionaria
della 'sinistra', mantengono una visione
produttivistica della realtà. Lo
sviluppo sociale è lavoro nella
produzione.
Conseguentemente la 'sinistra' si è
costretta, in verità dopo libera scelta,
a difendere la tradizione operaia,
facendola sua propria e rendendola
indissolubilmente legata al valore della
produzione, in quanto unico elemento
capace di valorizzare il lavoro. In tal
maniera la tradizione operaia non è
un'eredità politica e creativa, ma una
struttura sociologica e culturale:
ideologia del lavoro che valorizza la
produzione, secondo un ribaltamento
antitetico alla verità delle cose.
Questa tradizione ed eredità operaie
hanno delimitato la base elettorale
consueta alla 'sinistra', ma qui ha
incontrato, neppure troppo
inopinatamente, la concorrenza della
'destra', soprattutto di quella 'nuova',
anticapitalista, radicale e nostalgica
di moltissime e diverse nostalgie e
passati. Anche questa 'nuova destra' ha
iniziato a teorizzare il recupero del
valore produttivo nel lavoro operaio e
con quello dell'economia 'reale', contro
il complotto finanziario, contro
l'economia della finanza e il 'Dio -
denaro'. Ma questo non si chiama
recuperare ma inventare:
inventare per il lavoro un valore che
non ha più, e ridare al denaro un ruolo
polare che ha perso. Il danaro non
esiste più come equivalente generale
delle merci, ma solo come segno del
dominio sociale espresso attraverso la
produzione, il denaro è un messaggero di
Dio, ma ben altra cosa è il Dio; verrà
presto il giorno nel quale come il
sistema sta sostituendo la proprietà con
l'uso, così il danaro sarà abolito,
almeno in quanto strumento monetario ed
equivalente generale e forse lo è già in
gran parte.
In verità, tanto la destra quanto la
sinistra (ed è davvero il caso di far
cadere le virgolette a questo punto)
usano lo stesso concetto: il lavoro per
essere fonte di valore e di reddito deve
essere produttivo economicamente.
Chi, come la destra e la sinistra
contemporanee, continua, a quasi un
secolo dall'inizio del declino del
lavoro come valore economico, a
riferirsi al lavoro sotto forma
produttiva ed economica è il più
acerrimo nemico dei diritti del lavoro.
I diritti del lavoro, se vogliono
sopravvivere, devono slegarsi,
emanciparsi dal lavoro.
I diritti al reddito, all'esistenza, al
consumo, alla distribuzione delle
risorse e dei beni, all'assistenza
emotiva, affettiva e medica non devono
essere diritti collegati all'esercizio
del lavoro, del lavoro vivo e collegati
all'uomo soltanto perchè quest'uomo è un
lavoratore; non devono rimanere legati a
una struttura di generazione del valore
agonizzante da un secolo e morta da
mezzo secolo. Se rimangono legati alla
mummia del lavoro operaio ottocentesco,
diverranno mummie tanto puzzolenti da
far fuggire chiunque lontano da loro. I
soggetti non operai, inorriditi da
questo cadavere, finiranno per
integrarsi ferreamente nel dominio
biocapitalista, che, pure, usa quella
putrefazione come un fertilizzante
sociale e biopolitico. I soggetti non
operai e sottoposti formalmente a
relazioni di lavoro salariato potrebbero
essere una pericolosissima Gironda,
accompagnata alla Vandea operaia. Nella
Gironda, però, è già qualcosa della
futura repubblica, nella Vandea operaia,
purtroppo no, è solo nostalgia per la
vecchia 'repubblica borghese' tanto
odiata dagli anarchici. Il federalismo
della nuoba gironda è però un
federalismo orizzontale e non verticale,
multinazionale e non nazionale, sociale
e non geografico ed è una facies
dell'ideologia biocapitalistica, una
delle sue numerose etiche.
Andiamo, infatti, verso una società
stratificata eticamente e socialmente,
dove le corporazioni superano i paesi e
le popolazioni, le attraversano e non
mettono in discussione il disegno
generale e la composizione di una
società di massa su scala planetaria, ma
anzi la costituiscono. Niente
Moltitudine, ma molte Moltitudini, molte
folle eticamente disposte e dirette.
Ai margini estremi dello Scambio
simbolico e la morte di Baudrillard
[Per i diritti del lavoro] I
diritti al
reddito,
all'esistenza,
al consumo,
alla
distribuzione
delle risorse
e dei beni,
all'assistenza
emotiva,
affettiva e
medica sono
certamente
nati nella
fase
industriale
della storia
del
capitalismo,
sono suoi
figli, ma se
li guardiamo
bene,
piuttosto
degeneri e per
fortuna
degeneri. I
diritti operai
sono diritti
che in gran
parte si
applicano al
non lavoro, al
mondo della
riproduzione
del capitale:
l'operaio non
chiedeva di
lavorare
meglio ma di
lavorare di
meno e di
investire il
salario nella
sua negazione,
il non -
lavoro, il
tempo libero
dal lavoro.
Oggi, il mondo
si è liberato
dal lavoro,
non nel senso
che non si
lavora più ma
nel senso che
la produzione
non ha bisogno
di lavoro, di
intervento
diretto
dell'umano nel
macchinico; la
produzione è
un sistema di
potere ma come
sistema
economico non
esiste più,
così come la
proprietà non
esiste più.
Oggi il
dominio
sociale si
fonda sul
controllo
dell'uso delle
risorse
produttive,
creative,
intellettuali
e, ovviamente,
naturali e non
più sulla loro
proprietà
diretta o
indiretta.
Arcaismi,
ovviamente,
permangono, ma
quasi come
mode
occultanti la
reale sostanze
delle cose.
Il lavoro
salariato
generalizzato
si scompone in
molte forme
contrattuali,
che conservano
il rapporto
salariale come
modello, e che
hanno la forza
di attrarre,
senza
assorbirlo, il lavoro autonomo.
L'elasticità del rapporto di dominio è
assoluta e abolisce la rigidità del
rapporto di lavoro salariato
tradizionale: non è il tempo di vita, o
meglio una frazione del tempo di vita,
ad essere oggetto della contesa tra le
'classi', ma la vita stessa, la vita nel
suo insieme. L'elasticità del rapporto
di dominio è assoluta: il salario, ormai
forma economica priva di un diretto
rapporto con l'economia e la creazione
di valore economico, smette di essere
tale, un salario, assume forme nuove,
che continuano la sua funzione
emblematica di governo del tempo della
vita, ma esteso a tutta la vita, anche e
soprattutto al tempo libero.
L'elemento economico nel lavoro è
passato in secondo piano, è una
struttura relazionale quella che governa
il lavoro che si da in forma economica.
L'importanza economica del lavoro è sul
versante del lavoratore, perché la
percezione di un reddito indispensabile
alla sopravvivenza è legata alla
prestazione lavorativa e questo continua
a creare un ambito di costrizione
economica intorno al lavoro che
coinvolge tutti colore che per vivere
hanno bisogno di lavorare; l'importanza
economica del lavoro è sul versante
dell'imprenditore, perché il lavoro si
presenta come un costo economico e la
necessità di usare lavoro altrui
coinvolge tutti coloro che fanno impresa
e quindi di usare la costrizione
economica che sta dietro il salario.
L'uso del salario e della costrizione
economico non fonda l'impresa,
l'impresa si fonda su progetti,
ideazioni e automatismi in larga misura
indipendenti tanto dal lavoro vivo del
dipendente quanto dal lavoro vivo
dell'imprenditore. L'uso del salario e
della costrizione caratterizza
l'impresa, in quel tipo particolare di
impresa.
È l'elemento politico, termine desueto
ma validissimo, di una validità occulta
e ragionatamente occulta oggi, è quindi
il dominio a essere decisivo e a
legittimare la necessità del lavoro. Il
termine di comando d'impresa, inteso
come un insieme di tecniche adatte a
funzionalizzare e organizzare il tempo e
i modi della produzione, va abolito e
sostituito con quello di dominio
d'impresa, inteso come insieme di
tecniche adatte a funzionalizzare i
soggetti produttivi. L'impresa e il suo
dominio, esteso in forme contrattuali
polimorfe, hanno di mira il tempo del
lavoratore e non il tempo di lavoro e il
lavoro, hanno come oggetto la qualità
politica del lavoratore e non la qualità
tecnica, lo stile di vita e non lo stile
del lavoro. Meglio ancora dire che la
qualità tecnica non si distingue dalla
capacità di relazione, di autocontrollo,
quindi politica, la qualità
professionale è fatta di virtù
politiche, le stesse che danno la
struttura a un'etica generale di vita.
In questa maniera, lavoro e produzione,
aboliti come potenze economiche (quindi
reali e concrete secondo la vulgata
tradizionale) diventano una forma
generale della società; però, come un
fantasma fuori dal cimitero, si fa
uscire il mito della produzione e dell'economicità,
tanto da destra che da sinistra, ridando
legittimità all'autoritarismo del
comando, dominio dell'impresa globale.
Questo fantasma va impallinato: i
diritti economici vanno conservati
precisamente come il biocapitalismo
pretende di governare il mondo in nome
dell'economia senza che l'economia
esista più come collante generale del
mondo.
Se lo fanno loro, di usare una cosa
morta, una mummia, perché non farlo
anche noi?
Per dirla con parole plebee, è
necessario criticare apertamente il
dominio dell'economia nella società, non
perché esso sia inumano o immorale, ma
perché illegittimo, perché
l'economia è un gioco piegato alle
esigenze di un dominio astratto, un
gioco dove chi da le carte le decide.
Bisogna criticare apertamente il
capitalismo perché non sa che farsene
dell'economia e costringe la maggioranza
dell'umanità a circoscrivere la propria
esistenza in questioni economiche.
Bisogna criticare apertamente
l'intelaiatura delle regole economiche
che, espressione di una 'politica'
superiore e irraggiungibile ai più, si è
posta al riparo, da lungo tempo, dalle
leggi dell'economia che, invece,
riguardano e sono imposte a tutta la
società. Bisogna criticare apertamente
un progetto politico astratto che è solo
dominio sociale.
Questa politica 'superiore', astratta e
irraggiungibile ha ridotto,
necessariamente, il ruolo della politica
'concreta', alla concretezza dei bilanci
e delle regole finanziarie,
all'amministrazione tecnico - contabile
non certo del sistema, ma
dell'esecuzione del consenso al sistema,
all'amministrazione dell'inconscio
collettivo, al controllo delle variabili
e risultanti del processo generale
generato altrove.
Bisogna riprendere anche ampi brani del
pensiero pre-marxista e anarchico, del
pensiero rivoluzionario del XVIII e XIX
secolo. È necessario tornare a
delle radici troncate dall'onnipotenza
dell'economico, onnipotenza svolta anche
grazie alla critica all'economia.
Giovedì, 17 novembre
Letture. Monadologia di Leibniz. Un
testo per l'infanzia; la filosofia con
gli occhi di un bambino, nella quale
l'attenzione e la curiosità è pari solo
all'ingenuità e innocenza. Leibniz non
pubblicò quasi nulla in vita, ma la sua
opera venne edita nel XIX secolo, nella
primissima parte di quello.
Sabato, 19 novembre
[Biocapitalismo e storia] L'attacco ai
diritti del lavoro è un attacco ai
diritti civili tradizionali della
modernità (lo comporta naturalmente) ma
soprattutto è un attacco ai diritti
umani. In che senso?
È un attacco all'immagine dell'uomo
secondo la quale la nostra specie non ha
l'obbligo o il dovere del vivere
associato, ma ha la possibilità e
libertà di associarsi. La produzione,
divenuto schema sociale, ha associato
all'uomo l'obbligo della cooperazione:
l'uomo deve essere un animale sociale.
Questo attacco è talmente profondo e
viscerale, antitetico, e motivato
eticamente, che ha provocato alcune
rivisitazioni storiche, spesso
intellettualmente notevoli e certo
curiose, anche sopra i periodi
precedenti il capitalismo e la
manifattura industriale.
Lasciando da parte la poliedrica forma
di queste rivisitazioni, la censura dei
diritti del lavoro cerca di associarli
alle istituzioni egoistiche,
localistiche e corporative del medioevo
europeo. E spesso con un fondo di
ragione, chiamamolo oggettivo riscontro.
Questo accade, ma i motivi di questo
richiamo ad altre epoche sono numerosi e
disposti su diversi livelli, perché il
biocapitalismo si sente protagonista di
una nuova epoca, che ha poco a che
vedere con quelle precedenti. Il
biocapitalismo non sa che farsene della
storia, il suo deve essere un eterno
presente e il segno delle epoche
precedenti è il fenomeno di un'infanzia
dalla quale ci si vuole emancipare e ci
si sente emancipati. Non nel senso che
ci si è liberati da quelle epoche, ma
nel senso che ci siamo distaccati da
quelle, nel senso che viaggiano su
un'altra dimensione. La storia, nel
biocapitalismo, è un fatto museale.
L'estrema libertà di descrivere la
storia, di rimescolare e combinare gli
elementi del passato, dipende dal nuovo
senso storico eternizzante del
capitalismo contemporaneo.
Il biocapitalismo, pur non abolendo la
storia dal suo orizzonte analitico e non
tornando a una dimensione arcaica
dell'interpretazione dell'umano, si
avvicina all'assenza della storia e al
pensiero arcaico; attua un'eterna e mai
conclusiva fine della storia, una
lunghissima e niente affatto apparente
morte della storia e della prospettiva
storica. Rimane una visione del passato
che non è prospettica.
Per certi versi ben venga! Liberiamoci
della storia come eterno presente, come
museo dell'umano, per andare verso la
prospettiva di una storia al contrario,
una storia come eterno futuro.
In verità, il biocapitalismo sta
rendendo inefficace una delle sue armi
più potenti: la complessità sistemica e
la velocità evolutiva. La perdita del
lavoro e della storia determina,
infatti, una potenziale immobilità del
sistema, dentro la quale la complessità
non ha il valore del complesso, ma di
una serie indifferente di linee
evolutive, non comunicanti, indifferenti
le une alle altre. La velocità evolutiva
diventa rappresentazione, ma è
immobilità. Solo la mummia dell'economia
mantiene in vita la rappresentazione.
Se, al contrario, rimaniamo affascinati
da complessità e velocità, rischiamo di
farci dominare dalla paura del presente
e dalla nostalgia, dal ritorno al
semplice e al lento, che in realtà sono
e potrebbero essere altrettanto veloci e
complessi, dal recupero del locale e
della tradizione, che in realtà sono
altrettanto indefiniti e contemporanei,
in una parola rischiamo di farci
affascinare dal passato, che è solo,
ormai, una rappresentazione museale.
La storia è diventata quello che per gli
antichi era l'età dell'oro, tanto per i
profeti dell'eterno presente, quanto per
i critici. L'eterno presente esige il
mito dell'età dell'oro per criticarlo,
vuole il desiderio del passato per
biasimarlo, ama il premoderno per
poterlo criticare.
L'eterno presente, la fine della storia,
istituisce una cultura e ideologia, una
condizione, paradossali: idolatra la
storia per distruggerne gli idoli. Una
comunicazione paradossale è la fonte di
una relazione autoritaria: il
biocapitalismo istituisce una relazione
visceralmente autoritaria nei confronti
della storia.
La censura ai diritti del lavoro non
passa solo attraverso un'ideologia
critica verso la storia, ma una
chirurgia storica concreta che comporta
la rivisitazione, il rimescolamento e la
combinazione di relazioni sociali e di
rapporti di produzione precapitalistici.
Il nuovo capitalismo guarda al di fuori
di sè, recupera i sistemi sociali
precedenti, ma non come elementi del
passato, come da un museo, ma come se fossero
ancora nel presente, nel suo eterno
presente.
Il lavoro comandato diventa un'attività
preindustriale e il salario viene
elargito in maniera personalizzata,
singolarizzata. Il rapporto di lavoro si
personalizza e la personalizzazione si
serve di categorie generali che
riguardano lo stile di vita
dell'individuo: la bottega artigiana
risorge, in maniera virtualizzata e post
industriale. Le relazioni astratte
tipiche del lavoro salariato
manifatturiero di specificano in
categorie di classi di individui. È come
se l'artigiano medioevale producesse in
nessun / ogni luogo. È un artigiano
astratto, con un padrone astratto e con
una relazione personalizzata con
l'astrazione.
Il soggetto indimostrabile è questo:
l'operaio si umanizza, l'operaio diventa
uomo, lavorando astrattamente; il
capitalismo si umanizza, sostituendo al
lavoro l'umanità.
Per definizione, tutte le società sono
state società di massa. Quel che è
radicalmente cambiato negli ultimi cento
anni è la sostanza della massa.
La massa non è più un insieme di
tipologie, di abitudini e di credenze,
quella che gli antichi chiamano folla o
moltitudine, capace di coalizzarsi a
tratti e con intermittenza intorno ad
alcune delle sue tipologie, abitudini e
credenze. La massa va oltre le sue
specifiche abitudini, ma è tale perché
pensa che in quanto tale si riconosce in
quelle: la massa, quando è massa, si
pensa come massa, come gruppo non
omogeneo ma con alcune omogeneità
decisive per la sua stessa
sopravvivenza. Nella massa, le
particolarità e singolarità si pensano
in funzione di una forza collettiva, che
le cancella nell'essenza (l'essenza
della massa è di non essere particolare
e singolare ma generale), ma le rispetta
nella forma e addirittura le garantisce
(il singolare e particolare morirebbero
senza il supporto del generale).
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novembre
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anno
Bibliografia consultata e consigliata:
L'America / Jean Baudrillard - Milano : Feltrinelli, 1987.
L'anima al lavoro: Alienazione, estraneità, autonomia /
Franco Berardi Bifo. - Roma : Deriveapprodi, 2016.
(Operaviva)
Che cos'è la filosofia? / Gilles Deleuze, Felix Guattari ; a
cura di Carlo Arcuri. - Torino : Einaudi, stampa 2016. 9.
ristampa, - (Piccola Biblioteca Einaudi, Nuove Serie,
Filosofia ; 209
Convenzione e materialismo : l'unicità senz'aura
/ Paolo Virno. - Roma : Deriveapprodi, 2011. - 2. ed.
rivista e corretta. - 1. ed. 1986
Del Comune o della rivoluzione nel XXI secolo / Pierre
Dardot, Christian Laval ; prefazione di Stefano Rodotà
; postfazione di Antonello Ciervo,
Lorenzo Coccoli, Federico Zappino. - Roma :
Deriveapprodi, 2015
Eneide / Virgilio ; nella versione poetica di G. Vitale.
- Milano : Ceschina, [1971]
Iliade / Omero ; a cura di Maria Grazia Ciani ; commento
di Elisa Avezzù. - Venezia : Marsilio, stampa 2016
(Grandi Classici. Tascabili Marsilio)
Internazionale situazionista : 1958-69 / Internazionale
situazionista ; [traduzione di Andrea Chersi et al.]. -
Torino : Nautilus, 1994
Islam / Khaled Fouad Allam, Claudio Lo Jacono, Alberto
Ventura ; a cura di Giovanni Filoramo. - Roma ; Bari :
Laterza, 2015. - 4. ed. (Economica Laterza, 437)
Lavoro e tecnica nel medioevo / Marc Bloch ; prefazione
di Gino Luzzato. - Bari : Laterza, 1987 (Universale
Laterza, 103)
Monadologia e Discorso di metafisica / Gottfried Wilhelm
Leibniz ; introduzione di Massimo Mugnai. - Bari :
Laterza, 1986. (Universale Laterza, 690)
Per la critica dell'economia politica / Karl Marx ;
Introduzione di Giulio Pietranera. - La Spezia : Club
del Libro Fratelli Melita, 1981. (saggistica, 27)
Lo scambio simbolico e la morte / Jean Baudrillard ;
traduzione di Girolamo Mancuso - Milano : Feltrinelli,
2015. - (Universale economica, Saggi)
Storia degli Stati Uniti : la democrazia americana dalla
fondazione all'era globale / Giovanni Borgognone. -
Milano : Feltrinelli, 2016. - 2. ed. - (Universale
economica Feltrinelli : Storia)
Trattato sui principi della conoscenza umana / George
Berkeley ; introduzione di Paolo Francesco Mugnai. -
Roma ; Bari : Laterza, 1984. (Universale Laterza, 655)
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