pensieri sotto banco (1983)
[1]
La crisi economica è un mezzo, squisito, per coinvolgere ogni
individuo nella coscienza della unicità della società. La
catastrofe dell'economia si presenta come la catastrofe universale, la
fine del mondo. La crisi finisce per essere percepita come una calamità
universale e cosmica, davanti alla quale gli individui possono solo
prostrarsi e piangere. La crisi economica della contemporaneità non
conosce ramificazioni, gradienze e articolazioni ma è un fenomeno
uguale per tutti, omogeneo ed egualitario, è un fatto biologico,
che attenta alla vita dell'individuo. La crisi economica è uno strumento
di semplice e squisito dominio sociale.
[2]
Il catastrofismo che accompagna la crisi economica è un'ideazione del
potere che non può che essere un potere mondiale, perché la crisi
economica contemporanea si presenta come fatto mondiale; il potere
mondiale, attraverso l'ideologia del catastrofismo della crisi, trova
un'arma per evocare la necessità di adesione mistica a sè medesimo
da parte degli individui.
[3]
I rivoluzionari che non riescono a comprendere questo nuovo carattere
della crisi economica si rendono involontariamente partecipi della sua
ideologia, urlando e imprecando contro la crisi economica come se fosse
davvero e solo una crisi economica e non una immensa trappola ideologica.
[4]
È singolare ma interessante l'analogia che si può descrivere tra le
società classiche e quella contemporanea. Da una parte il primato delle
città con i proletari impiegati in lavori saltuari e precari nelle
botteghe artigiane, città pressate da una crisi economica che si
ingigantisce e alimenta lungo i secoli, assomiglia molto al primato
attuale. Da un'altra parte una grande massa di manodopera servile che è
occupata nelle grandi industrie estrattive, boschive e agricole di diretta
proprietà statale (pubblico demanio) e l'emergere del ruolo capitalistico
dello stato, anche qui sono notevoli le assonanze. Infine i grandi
proprietari terrieri che, con la loro concorrenza, provocano la rovina
della piccola e media proprietà contadina, trasformandola in un esercito
di braccianti o affittuari (coloni) o determinandone l'inurbamento. Lo
stato imperiale si pose come effettore (colui che faceva in modo che
potesse verificarsi, organizzandone il contesto) e mediatore, al contempo
articolatissimo e intangibile, di questi percorsi economici e sociali. Lo
stato si appropriò dell'industria estrattiva e di quella bellica, si fece
responsabile e protagonista del controllo delle masse proletarie urbane (i
collegia) e del controllo dei contadini delle province, dotandosi
di eccellenti organismi politici locali, quasi sempre affidati alla locale
emanazione del latifondo, ma sempre supervisionati da rappresentanti di
altre classi e gruppi sociali. Lo stato classico, inoltre, non conobbe
istituzioni geografiche intermedie e fu caratterizzato da un governo
centrale e una miriade di istituzioni locali, poste tra di loro in maniera
orizzontale, prive di un formale coordinamento, struttura verso la quale
si sta muovendo lo stato contemporaneo. Lo stato imperiale fu l'artefice e
non l'esecutore materiale dei suoi provvedimenti: le corporazioni
e le decurie municipali agiranno per lui e in suo nome. In questo senso l'imperum
intese sè stesso come un comando supremo che, però, originava dal popolo
dei cittadini.
Lo stato attuale sta imparando la lezione dei romani: non si incarica o si
incarica sempre meno delle sue funzioni ma le delega a strutture
costituzionalmente autonome da lui: partiti politici (nel caso italiano è
emblematica questa delega), sindacati (qui la logica della delega si
estende a quasi tutta l'Europa) e, soprattutto, organismi locali
rappresentativi che, spesso, sono rappresentati e formati da 'pezzi' di
partiti o sindacati, ma anche da enti locali (comuni, province e regioni)
che vengono donati di nuove attribuzioni, competenze e responsabilità
finanziarie. Attraverso queste strutture di base del potere lo
stato centrale si articola maggiormente nella società non
articolandosi compiutamente e costitutivamente, nello stesso tempo,
secondo un parallelismo che non è affatto casuale, si allarga il ceto
proletario saltuario sotto il profilo del lavoro, perché se fino agli anni
sessanta, almeno in Europa, lo stato, interventista diretto sull'economia
e le realtà decentrate, aveva garantito la classe operaia dalla
concorrenza delle macchine e della tecnologia (welfare
keynesiano), non fermandone lo sviluppo e il progresso ma frenandone gli
effetti sociali, ora abdica a questo suo ruolo. La concorrenza tra
proletari e macchina diviene diretta e frontale e inevitabilmente il
lavoro si devalorizza e perde stabilità sociale ed economica.
Riprendendo anche su questo versante sociologico l'analogia tra classicità
e contemporaneità, possiamo disegnare una riproposizione nella nostra
modernità di una società socialmente schiavista ma priva di
rapporti di produzione servili, cioè priva della condicio sine qua
non della servitù ma nella quale le forme di sfruttamento della
manodopera si estendono e accarezzano forme servili: l'innalzarsi della
potenza delle macchine nella produzione, infatti, distrugge la
tradizionale stabilità e valore della classe operaia, costringendola a una
marginalità dentro la produzione e questa marginalità produce
interscambiabilità estrema nelle mansioni operaie, interscambiabilità che
caratterizzava il contesto servile della classicità.
[5]
Se si sta costituendo un elemento sociale di questo tipo, precario e
saltuario sul lavoro e anche nella vita, allora possiamo anche anticipare
i suoi comportamenti a partire dagli esempi concreti che nella storia
delle lotte sociali si sono avuti finora. Questo nuovo soggetto proletario
identificherà solo nella rivolta volta alla diretta soddisfazione di
qualche bisogno immediato la sua pratica e scopo, conoscerà in
quella la sua espressione politica, l'unica che gli verrà concessa, poichè
questo soggetto sarà proletariato del tutto estraneo all'organizzazione
produttiva e che è capace di garantire solo in sè e attraverso di sè
embrioni di espressione organizzata nella produzione e di conseguenza
nella politica. Devo ipotizzare che questa espressione sarà
disorganizzata, priva di organizzazione per scelta, spontanea, quindi, ma
del tutto dipendente dalle difficoltà materiali e incapace di assumere
valenze ideologiche e politiche 'alte'. Lo sviluppo economico della
società della crisi economica catastrofica e del potere mondiale, del
decentramento degli stati centralizzati e della loro abdicazione, favorivà
forme improvvise e spontanee di lotte determinate a scontrarsi
frontalmente con lo stato per poi cessare immediatamente. Ipotizzo una
disgregazione e scomposizione sociale e politica che non prevede orizzonti
di ricomposizione e aggregazione tra i diversi settori della precarietà
proletaria.
[6]
A fronte di questa disgregazione e scomposizione della classe operaia
tradizionale e massificata, lo stato e il dominio capitalista acquisisce
grandi e insperate fino a solo un lustro fa possibilità di controllare
l'andamento del conflitto sociale e in genere le dinamiche sociali,
soprattutto nella misura in cui nel resto dell'organizzazione sociale (la
classe operaia garantita e aristocratica, il ceto impiegatizio e la classe
media) le contraddizioni sono tenute sotto controllo e in questo il
sindacato e il suo corporativismo si rivelano alleati preziosi.
[7]
È davvero difficile prevedere il destino politico di questo nuovo
proletariato saltuario e precario socialmente poichè questo nuovo
soggetto, per genesi e natura, non è coinvolgibile in un progetto politico
mediatore e riformista, in quanto pensato come 'parte attiva' di quello, e
al massimo, ma quasi al limite delle potenzialità storiche, come oggetto,
'massa di manovra' di un disegno di riforma sociale. D'altra parte non è
affatto facile che questo nuovo soggetto elabori dal suo interno,
indipendentemente, prospettive politiche e dimensioni ideologiche perché
non ha gli strumenti necessari per farlo: un terreno di comunicazione
sociale e produttiva e un'omogeneità che non sia quella determinata dal
rincoglionimento massmediatico quotidiano.
[8]
Il destino del capitale, invece, potrebbe essere quello di produrre
divertimenti, effimero, macabro e crudo, falsità reale da proporre al
sociale, anzi di ridurre l'idea del sociale al suo consumo e l'idea della
produzione a questa produzione.
[9]
Ipotizzo grandi città ribollenti di proletari impoveriti e inebetiti da
divertimenti sempre più raffinati e coinvolgenti, che vengono promossi in
maniera sempre più articolata, sistematica e organizzata; questi proletari
si disperderanno senza obiettivi lavorativi ritualizzati e massificati nel
tessuto urbano. Immagino grandi centri produttivi computerizzati, dove il
lavoro vivo non avrà quasi ruolo e questo non significherà libertà dal
lavoro ma lavoro a turno per tutti e salario ridotto in relazione ai turni
ridotti e quindi fame e penuria per tutti.
[10]
La corsa agli armamenti nucleari è stata ed è ancora di più oggi una
misura preventiva, previsionale, contro questo nuovo strato sociale a
salario, lavoro e reddito ridotto e precario. La sua mobilitazione in una
guerra è necessaria per sfoltirne le esuberanze psicologiche e
indirizzarle verso il nazionalismo. Il nazionalismo assume veste nuova
diventando non solo una delle tradizionali forme per catalizzare in forma
controllata le tensioni sociali ma per concentrare sulla grande paura
verso la catastrofe mondiale, che fa il paio con l'ideologia della crisi
economica mondiale e totale, ogni aspettativa verso il futuro, per
eliminare un senso del futuro alternativo al presente. Il futuro cessa di
esistere.
[11]
Alcuni dicono 'nessun futuro'; lo hanno detto anche i punk e i sex
pistols. Hanno colto il segno: il futuro nel senso tradizionale del
termine non esiste più.
[12]
L'azione della crisi economica mondiale appare vivace ed efficace nelle
sue espressioni sociali, nella sua capacità di coinvolgere e influenzare
la società nel suo complesso. La crisi economica odierna fa vivere la
crisi ad ognuno, anche a colui che non è coinvolto direttamente nei
suoi effetti. Si afferma con la crisi una nuova cultura, che chiamerei
cultura della decadenza e del disfacimento; questa nuova cultura penetra
come un potente farmaco a diffusione rapida e capillare sulle componenti
fresche e da poco generate nel tessuto sociale. È giusto difendersi dal
raffreddore, perché si tratterebbe al momento solo di un raffreddore socio
- politico, ma non è giusto eliminare l'aria per annullare il rischio del
raffreddore, eliminare il naso per evitare il raffreddore. Il nuovo potere
mondiale e il capitalismo danno l'impressione di volersi comportare così e
cioé di voler evitare non solo il rischio di una trasformazione sociale
radicale e rivoluzionaria (rischio che allo stato attuale delle cose non
esiste proprio) ma anche di puntare all'annullamento anche della semplice
evoluzione dentro le compatibilità del sistema che una normale dialettica
sociale comporta. Il nuovo capitalismo non intende progettare
trasformazioni che generino dall'esterno dei suoi bisogni, da soggetti
estranei al dominio e basta. La forma di stato che si delinea è
quella di uno stato assolutista.
Non si può dire, però, che questa sia un'autentica rottura con il passato
quanto se mai la continuità di una tendenza verso la formazione di uno
stato assolutista che oggi si catalizza. La propositività non è mai stata,
nella storia, la dote caratterizzante il potere, che ha sempre agito e si
è riprodotto in regime di reattività alle sollecitazioni altrui,
estranee. Il potere potrebbe essere dipinto come una barca alla deriva di
potenti correnti e la sua unica speranza è quella di non sfasciarsi
definitivamente contro le secche o gli scogli della costa; la speranza
dell'umanità, al contrario, è proprio nella tempesta.
Se, infatti, le cose continueranno ad andare avanti come sono andate fino
ad adesso, tra piccole tempeste e forti correnti che mai hanno messo in
discussione la sopravvivenza della barca ma, al massimo, la sua integrità
in qualche punto, allora l'unico esito possibile sarà la demolizione
psichica e anche fisica, biologica, dell'esterno al potere, al complesso
di poteri alti e bassi che strutturano lo stato contemporaneo. Lo stato
odia l'esterno a sè, detesta il non - potere, tutto ciò che si manifesta
secondo un'altra organizzazione dalla sua. L'umanità si trova davanti a un
semplice bivio che non è socialismo o barbarie ma qualcosa di drastico:
suicidio o post - capitalismo.
[13]
Certamente questi pensieri potrebbero essere il prodotto della crisi, un
prodotto storico e storicizzabile, e, quindi, la catastrofe percepita come
imminente, fatale e totale (la scomparsa di un mondo, quello operaio, e di
una cultura, quella rivoluzionaria in arte, politica e storia) mi
costringono a vedere una one way out, una strada a senso unico,
priva di riformismo, dialettica e rivolta verso una sola direzione: la
fine dell'umanità per come l'abbiamo conosciuta, la fine dell'uomo. Il
pensiero rivoluzionario è sempre stato dialettico e ha trovato nel
riformismo una sponda ideologica, un basamento, una maniera per dire: si
può ottenere quello e quindi possiamo ottenere ancora più di quello,
possiamo ottenere tutto. Questo meccanismo oggi non funziona più, non c'è
proprio più il meccanismo. Spero, con tutto il cuore, che questo modo di
pensare sia solo il prodotto dell'attuale contingenza storica, anche se ho
forti dubbi in materia.
[14]
La ragione è la mia unica difesa. Il fine ultimo dell'umanità non è stato
sempre quello di difendersi e di cambiare in ragione di questo scopo?
[15]
Quello che pensa è quello che rimane di veramente bello e intelligente di
un uomo, qualsiasi cosa pensi. Questo si traduce anche in una sensazione
perché il pensiero è capace di sopperire a ogni mancanza. È strano, però,
come la più ferrea attività logica, strettamente razionale, alberghi nelle
personalità sicure di sè medesime, aggressive, personalità
fotografiche, che amano e sono naturalmente portate a fotografare
la realtà, separandosi da quella e facendone un'immagine sulla quale
lavorare intellettualmente. Al contrario, una notevole intuitività, un
procedere per legami analogici tra i pensieri è propria delle
personalità timide e introverse.
Sono banali ma arguti i primi, audaci e sostanziali i secondi. Io sono
stato in tempi diversi entrambe le cose, ma ora, dolorosamente, mi trovo a
essere le due cose insieme, a viverle come si dice. Si tratta di due
sistemi psichici assolutamente diversi che non possono convivere
pacificamente, proprio un po' come i sistemi sociali alternativi (penso al
feudalesimo e al capitalismo), che si scontrano tra di loro, non solo e
non tanto frontalmente, quanto, cosa che produce effetti molecolari, in
ogni loro più infima articolazione.
Ovviamente sono consapevole di questo scontro e prendo parte alla lotta,
non sono affatto uno spettatore passivo della lotta e non potrei esserlo;
pensare significa precisamente questo: pensare anche il pensare. Pensare
il pensare è temerario ma inevitabile, mina le radici del pensiero ma non
può fare a meno di minarle affinché il pensiero rimanga tale e non una
vuota formalità adatta a farci dire: "io sono un essere umano". Il
pensiero che ragiona su sè medesimo prende parte naturalmente a favore
della componente fotografica della personalità e inorridisce all'idea che
la componente intuitiva e analogica domini la mente. La componente
intuitiva e analogica è, però, naturale e immediata, connaturata all'uomo,
quasi un trattino d'unione con il resto del mondo animale.
La tendenza verso l'intuizione e l'analogia è tanto radicata che da
entrambe le parti della personalità si giunge a una specie di patto: si
nega l'antitesi tra logica e intuizione e a costruire quella che può
essere detta un'ideologia: la lotta interiore non esiste, non è vera,
è solo il frutto di un'illusione. E se davvero fosse il frutto di
un'illusione?
[16]
Le pagine aperte di questa agenda sulla quale scrivo sono spesso in me.
L'agenda diventa un libro e questo significa che il pensiero deve trovare
uno strumento attraverso il quale concentrarsi.
[17]
Una volta che un uomo abbia raggiunta la piena soddisfazione materiale, o
meglio la maggior possibile soddisfazione materiale, intendo dire che sia
inebetito (anche l'ebetudine è soddisfazione), abbia fatto l'amore (anche
l'orgasmo è soddisfazione) o si sia cibato abbondantemente, e che abbia la
sufficiente certezza che nel futuro queste cose continueranno a ripetersi,
avendo messo su famiglia e possedendo un tranquillo reddito da lavoro, che
altro può chiedere? Teoricamente più nulla. Ma gli rimane l'amaro
nell'animo perché sà di aver raggiunto i suoi limiti naturali, i suoi
limiti animali, sà di essere limitato, sà di non essere Dio in modo
inequivocabile. Da questo punto di vista la polemica cristiana contro il
bene effimero della vita è anche giusta, ha un fondo di verità.
[18]
La piena felicità è irraggiungibile per definizione. Ancora di più,
quindi, ci devono far ridere i profeti dei paradisi futuri e ultramondani.
La sofferenza è connaturata all'animo umano, anche nel paradiso che
immaginano i profeti.
[19]
Le lacrime, gli sforzi e in genere le preoccupazioni umane sono inutili ma
necessarie. La civiltà che si fonda sulla loro organizzazione è davvero un
mostro di illusioni. Non ci sono che vie di fuga parziali e
monche al dolore ma che è stupido non utilizzare: le uniche vie di fuga
che io riesco a riconoscere stanno nella trasformazione sociale, nella
trasformazione della civiltà in modo che cessi di essere organizzazione di
un'illusione. Nella civiltà trasformata, nella nuova civiltà, gli uomini
dovranno, quantomeno, avere piena e serena consapevolezza della loro
limitatezza, essi saranno dei coraggiosi che hanno cessato di nascondersi
a loro stessi.
[20]
Spesso, dopo l'Iran e la sua rivoluzione, mi sono trovato da ateo a
invocare Allah misericordioso perché mi spiegasse il significato di questa
trasformazione genetica che il capitalismo e il potere stanno subendo.
Allah era l'unico possibile destinatario di questa mia richiesta, l'unica
nota stonata dentro la restaurazione mondiale, dopo gli anni settanta; era
affascinante la semplicità del messaggio storico dell'islam: armarsi
per redimersi. Si scopre facilmente, però, che queste invocazioni
fanno parte integrante della vita, quando questa è assoggettata e
sovradeterminata, e ce la svuotano come qualsiasi altra operazione di
potere, che punta a lasciarci privi di energie autentiche, concedendone
solo illusorie, presto, tra le altre cose, cancellate. Non esiste nessun
codice divino, trascendente, posto al di fuori dell'immanenza e del
sociale, capace di generare e accogliere energie autentiche. Rimane allora
una sorta di penombra dell'animo e del pensiero, una strana attesa del
futuro, quasi esistesse il destino.
[21]
I sentimenti di resistenza si ingrossano sempre di più. Resistenza come
nostalgia del passato, come testimonianza di un periodo di attacco al
potere ormai finito.
[22]
I rapinatori conoscono e stabiliscono l'esatto prezzo della vita umana e
sono spudoratamente sereni in quello. A buona ragione: è il loro mestiere.
[23]
Testardi e cocciuti sono coloro che, ancora oggi, spesso sotto mentite
spoglie, con abiti rinnovati, continuano a sottintendere la necessità di
organizzazione comunista, facendolo partendo da considerazioni
squisitamente resistenziali e testimoniali. Dopo aver affermato che la
fase è del tutto nuova, che l'operaio massa ha fatto posto all'operaio
sociale, che il dominio e il comando del capitale sono radicalmente
cambiati, dopo aver fatto il verso di essersi informati della novità e di
averla accettata, poi ripropongono, con vestito nuovo e sotto mentite
spoglie, una specie di partito, che non può che essere una specie,
un'imitazione di qualcosa precedente, che era stato adeguato ma ora non lo
è, irreversibilmente, più.
Costoro mancano, proprio come ogni testardo e cocciuto, della capacità di
essere elastici e di aprirsi alla nuova era, l'era della seconda
rivoluzione tecnologica, che sta chiudendo con l'epoca della civiltà
neolitica, che sta costituendo un nuovo universo capitalista e statuale, e
sono costantemente con il volto piegato all'indietro, al loro occultamente
amato "cio che è stato, ciò che è successo". I testardi e i cocciuti non
hanno capacità di indagare, perché non desiderano indagare, perché questo
desiderio entrerebbe in contraddizione con la loro fittizia e ben protetta
idea di realtà e di presente (fittizia proprio perché ben protetta),
perchè in verità temono il presente e quello che presenta loro. I cocciuti
e i testardi propongono per il futuro l'evoluzione del passato che salti
il presente, che faccia in modo che il presente non esista e non sia mai
esistito. Non importa che anche a un bambino apparirebbe chiaro che
un'ipotesi rivoluzionaria così costruita sarebbe semplicemente idiota,
perchè quello che conta è il mantenimento di testardaggine e cocciutaggine
come garanzia del mantenimento di sè. Ideologia e organizzazione, non
importa quale organizzazione mentre l'ideologia rimane congelata e
cristallizzata negli anni settanta, seppur riverniciata con colori presi
in questo decennio, sono i cardini di questa operazione che è basata sul
ricordo, sulla memoria e i vecchi schemi, inadeguati rispetto
all'attualità, sono ricostruiti, sempre sotto mentite spoglie (perché si
sono fatte letture aggiornate). Così ci si comporta (mi si perdoni
l'anacronismo) da biechi controrivoluzionari, togliendo aria, ossigeno e
intelligenza alla rivoluzione, rinchiudendola di nuovo nella setta dei perduti
della storia. E pensare che questa sconfitta e la restaurazione
complessiva, totale, che contraddistingue questi anni è occasione di
ricostruzione e, paradossalmente, di ripensamenti notevoli e di un nuovo
orizzonte di pensiero liberato.
[24]
I testardi e cocciuti si mettono sul terreno del conflitto, sbagliando il
terreno dello scontro e le armi. Lo scontro si è spostato al di fuori del
mondo della produzione ed è passato a quello della riproduzione, ma non ci
si può comportare di fronte alla riproduzione come davanti ai soggetti
della produzione; i testardi e i cocciuti fanno questo e porteranno con
ciò alla rovina anche il territorio resistenziale e testimoniale nel quale
si sono barricati. Si trovano a brandire delle lance e delle spade mentre
il nuovo potere usa i carri armati.
La scelta rimane, così, come se esistesse ancora il traino dell'operaio
massa, quello dello scontro a ogni costo, della lotta di strada dove
possibile, della testimonianza plateale, spesso il dare voce ai soggetti
più arrabbiati, sole perché arrabbiati, facendo una sorta di elogio alla
rabbia (degli stadi, delle carceri e di alcune periferie), senza esplorare
le motivazioni della rabbia e sopratutto quelle dell'assenza di rabbia,
della rassegnazione che oggi è assolutamente egemone.
Quando uno sceglie una guerra stupida e una guerra stupida è quella che è
persa in partenza, lavora, consapevolmente o no, per l'accettazione della
superiorità del nemico e per la sua legittimazione: il nemico diventa
un'entità, inevitabilmente, invincibile, anche se, ovviamente, ne viene
denunciata l'ingiustizia e la crudeltà. Alla fine di questa strada senza
alcuno sbocco rivoluzionario è, non dichiarata, la soluzione trasformista,
una graduale deriva verso l'incorporazione in alcuni segmenti del
vincitore, oppure l'occultamento, il nascondersi silenzioso e catacombale
in un rito chiuso, che segna un piccolo territorio privo di riferimenti
con altri territori. Le possibilità di partecipare in maniera critica e di
comprendere l'evoluzione sociale ed economica in atto è perduta e le
lance, alla fine, si spezzano.
[25]
Un carattere dei tempi contemporanei che viene generalmente considerato da
tutti i testardi e cocciuti e da buona parte dei rivoluzionari residuali
negativo, vale a dire la disgregazione dell'esperienza organizzativa
comunista degli anni sessanta e settanta, e in generale la crisi delle
ideologie è, invece, davvero positivo. Le due crisi ci indicano nuovi
sentieri di liberazione, nuove forme di critica e rivolta, e soprattutto
quello che il proletariato è in questa nuova epoca. Perché le ideologie
politiche non dovrebbero essere definitivamente superate in forza delle
trasformazioni nei rapporti di produzione come lo furono le ideologie
religiose quattro secoli fa? Daltronde non eravamo noi comunisti
rivoluzionari ad affermare e praticare l'idea secondo la quale l'ideologia
è sempre e in ogni caso (anche il nostro) una falsa coscienza
della realtà?
[26]
I testardi e i cocciuti, legati come a un padre edipico (pare davvero il
caso di scomodare Freud), al loro bagaglio ideologico e organizzativo
fingono due cose: di non esserci legati e di essersene emancipati e che,
alla fine, la trasformazione in atto non sia reale, che la crisi economica
non sia strutturale ma passeggera e che la nostra epoca ritornerà sui suoi
passi. Vivono nella negazione del presente come i cristiani integralisti e
come i cristiani storici, vivono nella speranza e di speranza che non è
vita, ma attesa, anche se questa attesa si percepisce come prodotto di
un'analisi scientifica della realtà. In loro, dentro il loro modo di
sentire, il comunismo è solo una speranza giustificata
scientificamente (che è una contraddizione in termini) e quel che è peggio
questa speranza va ad ogni costo praticata: diventa uno stile di vita, una
virtù testimoniale e una scelta quasi monastica. Al di fuori di questo
stile di vita e modo di sentire, il comunismo non può essere possibile e
non si può essere comunisti cosicchè il comunismo non è il mondo della
novità che si sviluppa sulle novità, anche scomode, offerte dal presente,
ma è un museo e un monastero.
[27]
Quando l'organizzazione viene immaginata come entità di resistenza alla
società presente, in una sorta di concorrenza con il presente sociale e
politico, solo un elemento rimane come costituivo di quell'organizzazione:
la coazione all'ordine e all'ubbidienza, realizzata attraverso
svariati strumenti, quasi tutti non politici o che, al massimo, intendono
trovare una giustificazione nel politico. Promotori di questa coazione
sono quelli più legati alle esperienze politiche passate, perché incapaci
di rompere questo legame 'edipico', (altresì dette 'maggiori esperienze
politiche', con una mistificazione notevole della verità su loro stessi)
ma non tutti, solo quelli che hanno più chiara la natura della loro
organizzazione e che dunque hanno anche sviluppato una certa 'auto -
analisi' in materia, e conseguentemente
si legittimano nel diritto ad usarla come una specie di
'proprietà privata'. L'uso privatistico delle residue strutture
organizzative resitenziali e testimoniali comporta anche la pretesa di
selezionare le esperienze proletarie e solitamente la tendenza a
difendersi dal presente proletario, percepito come inadeguato e informe.
Mancando l'elemento proletario, ovverossia il contributo esterno
all'analisi, l'analisi rimane formale e abbozzata, sostanzialmente ferma e
di converso fortissima è la tendenza a valorizzare la purezza ideologica
del gruppo. Quindi ordine, ubbedienza e purezza ideologica. Ogni
infrazione analitica diviene immediatamente messa in discussione
dell'ordine, disubbidienza e deviazione ideologica, impurità. Fondamentale
diviene il controllo del tempo dei militanti, cioè del lavoro che si
svolge nella struttura dell'organizzazione, per piccola che sia.
L'organizzazione si comporta, allora, come qualunque altra realtà
imprenditoriale con una politica dei 'premi', della ordinaria
amministrazione e degli investimenti. Compaiono gli straordinari (gli
sforzi) che devono essere controllati, ogni straordinario non approvato,
ogni sforzo spontaneo, ogni interesse autonomo viene guardato con
sospetto, prima come spreco di risorse poi come occasione di una possibile
deviazione organizzativa e ideologica. La negazione del presente, cioè il
modo di non vivere le contraddizioni del presente, di non guardare in
faccia la propria vita, di non parlarne mai, neanche per errore,
all'interno del gruppo organizzato, e naturalmente di guardare alle
esperienze degli altri proletari informa ogni militante. Si tratta di una
scelta lavorativa e ogni scelta lavorativa significa proprio questo: il
lavoro è lo strumento più raffinato di estraniazione da sè stessi o no?.
Cosicché il lavoro politico diviene riproduzione del lavoro salariato, lo
strumento per essere definitivamente al di fuori del presente.
[28]
Il proletario che oggi si avvicina (ma sono pochissimi) all'organizzazione
comunista e che lo fa a partire dal presente, dal suo presente e dal
desiderio di cambiare la sua vita, si trova costretto a rinunciare a
questa parte fondamentale di sè. Solitamente giunge speranzoso e un po'
goffo e viene accettato, tatticamente, per la sua speranza e ingenuità,
che viene lodata ma annotata. Lui stesso penserà, inizialmente, di 'usare'
l'organizzazione per vedere quantomeno tracciate le strade della sua
emancipazione. Due tattiche contrapposte nel cui confronto la forza del
gruppo, come tradizione, potere della presistenza e degli equilibri
realizzati, sarà inevitabilmente vincente. La purezza ideologica, infine,
insegnerà al neofita a deporre la sua tattica e a separarsi da sè stesso e
da quello che lo aveva condotto verso l'organizzazione, cioè il presente.
[29]
Il militantismo non fa della politica la propria vita, ma fa della vita
uno strumento della politica, come la vita è uno strumento del lavoro. Il
personale diventa strumento politico, ma dal momento che il personale è
decisamente limitato pure la politica lo sarà.
[30]
C'è da chiedersi se l'organizzazione comunista come viene riproposta non
sia entrata a fare parte del controllo del capitale. Lasciamo da parte la
discriminazione terminologica in base alla quale non si parla di
organizzazione ma di movimento, perché questo movimento ha tutte le
caratteristiche di un'organizzazione priva della capacità di
formalizzarsi. Il problema è che di anticapitalista nell'organizzazione -
movimento comunista sono solo le purezze ideologiche e le dichiarazioni di
massima, ma nulla di progettuale e solo un vago programma, talmente vago
da contenere tutti i difetti di un programma e nessuno dei suoi pregi:
impegno antimperialista e denuncia sulla politica carceraria. Un radicale
estremo potrebbe tranquillamente aderire a questo programma, ignorando la
'purezza ideologica' discriminante; non lo può fare solo perché c'è
appunto questa discriminante, vuota di contenuto, contenuto di sè stessa.
In secondo luogo c'è da chiedersi come sia possibile proseguire senza
organizzazione nella nostra esperienza e ragionare quindi sul concetto di
organizzazione, ma ragionare sull'organizzazione significherebbe mettere
in discussione la realtà di fatto dell'organizzazione e quindi
abbandonarla. Per come si sono messe le cose dopo gli ultimissimi anni
settanta e soprattutto dopo il 7 aprile pare quasi vietato da un tabù il
proposito di aprire naso, bocca e occhi al sociale, lasciar da parte il
militantismo resistenziale e iniziare a fare indagine e inchiesta. Eppure
questa è l'unica strada che rimane, anche se si desidera rimanere ancorati
a una logica resistenziale: bisogna usare il proprio testimone in maniera
diversa, per abolirlo. Si tratterebbe di uno sforzo notevole, coinvolgente
anche nella vita, che imporrebbe di abbandonare la discriminante priva di
contenuto che ci identifica senza avere la certezza di essere capaci di
costituirne un'altra. Sarebbe sicuramente dura e richiederebbe una
trasformazione in ognuno di noi.
[31]
Perché dopo cento cinquanta anni dal 1848 tutti i movimenti rivoluzionari
sono falliti? Le ragioni di questi reiterati fallimenti stanno proprio
nella parte proletaria e rivoluzionaria, direi le più importanti.
In primo luogo lo sclerotizzarsi di forme organizzative che non erano più
in grado di seguire i bisogni e le esigenze del sociale che rimanevano
sempre 'altri' rispetto all'organizzazione. La rivolta spartachista e
l'insurrezione di Kronstadt sono emblematiche in questo senso, dimostrando
quanto bisogni, esigenze e progetti proletari si esprimevano sempre più
fuori o addirittura contro l'organizzazione comunista. In generale è
evidente e cronica l'incapacità dell'organizzazione comunista di adeguarsi
alla composizione politica del proletariato che o l'evoluzione capitalista
o i processi rivoluzionari stessi avevano determinato. Si ha la sensazione
di una forbice endemica.
In secondo luogo va denunciato il ruolo dell'ideologia come termine
contrattuale nelle organizzazioni comuniste, come vero e proprio
danaro e contratto di parte comunista; l'ideologia è potere ideologico,
l'ideologia rappresenta sè stessa e l'organizzazione di fronte al resto
del mondo sociale, pretende di descrivere l'organizzazione, il militante,
e il referente dell'organizzazione, il proletario. Esiste nell'ideologia e
nella sua determinazione un rapporto biunivoco, vertice - massa e massa -
vertice, ma questo rapporto, proprio perché ideologizzato, dona al vertice
il compito di mediare, interpretare e coordinare le spinte politiche delle
masse, di darsi fin da subito un aspetto 'statalista', porsi come
riassunto complessivo, istituzionale. In questa maniera di intendere la
relazione tra organizzazione, ideologia e proletariato le organizzazioni e
partiti comunisti si sono limitati a dare risposte agli input
delle masse e dei movimenti, attraverso trasformazioni strategiche e
tattiche, raramente nei modelli organizzativi, volte più spesso al
mantenimento - conservazione di questa relazione che non a seguire
l'andamento dei processi reali, perché questa relazione garantiva il
potere dell'ideologia, e quindi del vertice, dentro l'organizzazione.
In terzo luogo l'organizzazione comunista intesa come un complesso di
volontà di separazione dalla concretezza del presente (purezza ideale,
potere ideologico, lavoro politico, struttura gerarchica, livelli
politici) non è espressione della coscienza politica delle masse ma solo
un'espressione parziale di quella (come ribadiva Lenin) e in più struttura
che vive della repressione continua e strisciante di quello che i
movimenti esprimono, repressione che viene, però, temperata dalla propria
necessità di riproduzione che sarebbe impossibile al di fuori di un
rapporto, seppur mistificato, con i movimenti e le masse; solo quando
entravano nella fase della riproduzione, quando ragionavano sulla loro
riproduzione, l'organizzazione e i partiti comunisti andavano incontro
alla forza e alla coscienza magmatica e informe delle masse.
Le organizzazioni e i partiti comunisti sono sempre stati, nonostante loro
ma per conservarsi, espressione di una particolare composizione storica
della classe operaia e proletaria, una volta ricevuto questo imprinting
generativo e riproduttivo si sono semplicemente fermate. L'idea di
rappresentare, in embrione, il futuro stato, di essere il riassunto della
complessità sociale ha fermato ogni dinamica di allineamento con le novità
del sociale.
Per dirla in maniera plebea, le organizzazioni e i partiti sono diventati,
rapidissimamente (escluderei solo la prima internazionale) il terreno di
affermazione di vita e di gratificazione intellettuale per una discreta
mandria di intellettuali, solitamente mediocri, di elementi votati al
proprio auto - compiacimento e allo sfruttamento delle risorse antagoniste
altrui, secondo i quali quanto più ci si poteva escludere dalle dinamiche
reali tanto più la correttezza ideologica e organizzativa era garantita.
[32]
Le domande sono molte. Cosa può essere oggi un'organizzazione comunista? È
ancora necessaria oggi un'organizzazione comunista? L'assunto marxiano
della necessità dell'organizzazione, del partito, è ancora valido? È
possibile una rivoluzione senza partito o organizzazione? In verità
proprio la disgregazione sociale provocata dall'attacco alle posizioni
dell'operaio taylorista e la crisi economica diventata ristrutturazione
politica inducono al sì, a un sì convinto e deciso. Sarebbe, però,
necessario uscire dalla prospettiva macabra e funeraria del
recupero del passato, del glorioso passato, ad ogni costo e in tutte le
sue forme, perchè continuando a fare così si e perduta di vista anche
quello che è stato antagonisticamente quel passato, imbalsamandolo.
Sarebbe anche necessario uscire dalla ripetitiva fino alla nausea e
maledetta denuncia e lotta contro la repressione carceraria, contro le
leggi speciali, dalla sua centralità nel nostro debolissimo intervento,
oppure abbandonare la seconda centralità dell'antimperialismo; entrambi i
temi di 'programma' sono perseguiti in maniera radicalmente slegata dal
tessuto sociale, se non in un davvero vago richiamo al 'proletariato
detenuto' e che difficilmente si lega a quello dei detenuti per motivi
politici.
Carceri speciali e riarmo imperialista sono lontani anni luce dalla
decomposizione sociale, politica e ideologica che la crisi economica
mondiale gestita con diretta politicità ha provocato tra i proletari
protagonisti, solo cinque - dieci anni fa, di un'incredibile stagione di
lotte.
[33]
Il rifiuto del lavoro salariato può passare, oggi, solo attraverso la
negazione completa, totale e storica della società del capitale, non in
quanto società della produzione ma in quanto realtà organizzata
socialmente contro non solo la socialità proletaria ma anche contro
la società in genere. La panstatalista società di tutti i post
agisce sulle strutture della soggettività dell'individuo, puntando al suo
annullamento, all'eliminazione di qualsiasi margine di autonomia
dell'individuo, a livello comportamentale, psicologico e solo alla fine
politico.
La città (è stato più volte scritto) non si riduce alla fabbrica e alla
produzione di beni materiali, la città è fabbrica di circolazione e
produzione, è fabbrica di organizzazione sociale, di ritmi di vita che si
impongono anche a settori estranei alla produzione di fabbrica. Dov'è la
fabbrica? Ovunque e da nessuna parte: la città è tutta capitalismo, potere
del capitale in ogni suo angolo, potere delle merci, potere del lavoro
comandato, potere militare, potere dei trasporti, potere della
disposizione urbanistica stessa. Tutto il tempo della vita deve fare i
conti con questi poteri, questi estranei all'individuo che lo costruiscono
integralmente. La borghesia ha fatto del suo modello produttivo storico e
concreto il modello produttivo ideale vale a dire separato dai
suoi modi originari, concreti, che può, dunque, sopravvivere
all'industrialesimo, per certi versi negando i suoi presupposti storici,
anche nella società dei computer.
Si tratta di decidere della propria vita. Non ha importanza se sarà
necessario usare violenza o no, se la violenza sarà proporzionale oppure
no a quella del sistema, non sarà il caso di usare delle bilance in quel
campo, sarà, invece, il caso di mettere al centro la propria vita, la
decisione sulla propria vita, anche nel ragionamento sull'uso della forza,
in senso pieno, completo del termine, come desideravano fare gli operai di
Vyborg nel 1917 o i marinai di Kronstadt nel 1921 o ancora i proletari
italiani qualche decennio più tardi. Sarà un respiro a pieni polmoni dopo
anni di asfissia, tutto questo sarà comunismo che genera dal presente e
può generare solo nel presente.
Oggi conosciamo, appena per esperienza, la linea di sviluppo del capitale,
le sue direzioni molteplici, nell'apparenza, ma unitarie nella sostanza:
militarizzazione della vita sociale e delle relazioni internazionali,
intervento repressivo dello stato a ogni livello (politico, sociale,
legislativo, giuridico, mediatico e carcerario) che è molto articolato,
disorientante per il suo impatto e dispiegamento, perchè è articolato il
rischio sociale, presente e occultato nel nuovo sviluppo capitalistico.
Conosciamo procedimenti di creazione del consenso diversi dai precedenti,
che non eliminano o ignorano gli antagonismi e le contraddizioni, ma li
obliterano, adattandoli alla logica dello sviluppo del dominio,
recuperandoli alla compatibilità con il sistema (penso al movimento delle
donne e a quello degli omosessuali che sono emblematici in questo senso:
anche le serie televisive di largo consumo approcciano al problema,
cancellandone i contenuti socialmente dirompenti), come dall'altra parte
si affermano metodi di detenzione carceraria scientifica, di
differenziazione assoluta della gestione della pena a seconda dei soggetti
e della loro pericolosità, indipendentemente dalla condanna di legge, o si
affermano contesti giuridici in cui il giudizio sull'individuo diventa più
importante del suo reato nello stabilire la pena, (questi due tratti sono
ben riassunti dalla legislazione dell'emergenza e speciale italiana, nata
per sgominare le organizzazioni combattenti ed estesasi con naturalezza
contro tutte le devianze). Poi l'elemento mediatico e cioè la
spettacolarizzazione dei rapporti sociali e dello scontro sociale che
realizzano molti canali TV che, se apparentemente si aprono alle 'nuove
istanze sociali, alle nuove aspirazioni' (secondo la fraseologia
solitamente usata in quelli), negano, trascinandole in un contesto
già circoscritto, la loro originalità, il loro vero luogo e il loro
carattere critico e sovversivo.
Siamo in presenza di un grande regista: lo stato. Lo stato è sempre più
accondiscendente, allargato, strutturato orizzontalmente e disgregato
proprio perchè, in verità, onnipotente: non teme più di scendere tra la
folla e nel conflitto. La onnipotenza non conclamata dello stato è
costruita oggi, mattone dopo mattone, soprattutto nell'immaginario
collettivo attraverso la diffusione dell'idea che lo stato è l'unica
realtà legittima possibile e apparentemente eroica per la sua lotta contro
la disgregazione sociale, che pure è proprio il prodotto dello sviluppo
che garantisce e con il quale si identifica. Lo stato oggi non sopporta
più una dialettica che abbia il suo punto di forza e di appoggio
all'esterno di sè, ma si propne di comprendere tutto in sè
destrutturando ogni punto di vista antagonista generalizzato.
Il punto di vista antagonista generalizzato non può che essere, oggi, il
prodotto di una decisione da prendere sulla nostra vita, un modo di
affermare la nostra vita in maniera diversa se il tempo di vita è il tempo
del capitale e il tempo del nuovo lavoro salariato. Non è affatto facile.
[34]
Esiste un grande convinzione forzata che informa ogni tipo di
organizzazione politica e non: la volontà di essere produttivi anche sul
terreno dell'improduttivo, cioè la scelta politica e non diventa scelta
esistenziale tesa a giustificare il non - senso del presente,
destinata a giustificare la propria inattività davanti all'esistente. È
ovvio che ogni scelta è dialettica, è interna al capitale se ne informa,
così anche l'attività politica è riproduzione della necessità di una
onorevole sopravvivenza all'interno di questa società distesa sulla
progettazione del futuro (onorevole sopravvivenza che mai riesce
completamente a concretizzarsi nel presente).
[35]
È comodo il rifiuto della politica. Ma se oggi fosse necessario e
rivoluzionario, e necessario perché rivoluzionario, rifiutare la politica?
E se il presente e la vita non va sacrificata a qualcosa che sta, per
definizione e statuizione, al di fuori di essa? E se nell'immergersi nella
vita fosse una capacità rivoluzionaria? Nei termini in cui abbiamo posto e
proposto la politica a noi stessi, questa è stata un costante rimandare
l'oggi al domani, attraverso un messianesimo scientista o
presunto tale, e più la nostra politica intendeva essere rivoluzionaria
più cogente è stato questo imperativo a rimandare l'oggi al domani.
[36]
La graduale perdita di significanza della storia non è un fatto apparente
ma reale, non tanto perché è un fatto oggettivo e dimostrabile, quanto
perchè è un fatto soggettivo. Il futuro non è affatto predeterminato e
predefinito, non va verso un fine preciso e intelleggibile, e alla
soggettività, oggi, interessa il presente, nient'altro che il presente. La
significanza della storia, il suo senso, perdono qualsiasi valore quando
ad esse non partecipa la soggettività, quando la soggettività non va a
nozze con quelle e rimangono esigenze aristoteliche, meccaniche,
macchinistiche e irrealizzabili. Proprio perché il soggettivo interviene
sul suo oggettivo e dà vita a una nuova significanza nel presente e solo
nel presente, abolendo il mito del senso della storia e anche del senso
storico, il senso nello sguardo al futuro come anche il senso nel suo
guardare il passato, il soggettivo percepisce che nulla è oggettivo
senza il suo intervento e che l'oggettivo è il prodotto del soggettivo.
Questa novità percettiva, chiara e solida, verifica e registra la grande
trasformazione del presente, del concetto di presente intendo dire,
dove ogni particella della propria volontà o ricerca di significanza
per l'esistenza sostituisce quella volta verso la storia, sempre più
diversa dall'esistenza, portatrice di un presente al quale si contrappone
un altro presente, chiusa nei suoi significati diversi dall'esistenza
presente. Alla fine è tutto qui. La perdita di significato dell'ideologia,
anche dell'ideologia rivoluzionaria e comunista, la perdita di senso della
creazione di significati storici futuri per il presente e per
l'esistenza nel presente ha la sua radice in questa ricerca
'antagonista' sul presente. Questo significa che essere rivoluzionari è
riscattare completamente la propria vita dalla storia, come tirarla fuori
dal flusso dell'oggi e del domani. Questo significa ancora che
rivoluzionario è completa rimozione di ogni ostacolo a questo processo
rivoluzionario che comporta di entrare con la carne e con le ossa nel
bisogno attuale del nuovo soggettivo, lasciando la paccottiglia
dell'oggettivo e dell'ideologia derivata ad altri.
[37]
L'ideologia forse lo ha sempre posseduto ma oggi può avere solo un
significato repressivo. Ideologia vuol dire costringere i percorsi di
liberazione a passare per una ghiandola pineale sociale che
faccia confluire miracolosamente il soggettivo e l'oggettivo. Di questa
ghiandola i percorsi di liberazione, se sono davvero tali, non hanno alcun
bisogno.
[38]
Avere coscienza ideologica, possedere un'ideologia ha un valore solo nella
misura in cui significhi pensare: "La mia vita può cambiare solo se le
cose che la circondano cambiano e le cose che la circondano cambiano solo
se la mia vita cambia. Se potessi cambiare la mia vita senza cambiare le
cose che la circondano non sarei un comunista e mi limiterei a cambiare la
mia vita". Molti comunisti si comportano, invece, come se
ritenessero che il loro fondamentale obiettivo e il fondamento della loro
vita sia cambiare le cose che li circondano senza cambiare la loro
vita, le cose rimangono delle circostanze esterne e anche la vita
una circostanza tra le altre, alla fine. Finiscono per avere disinteresse
tanto per le cose quanto per la vita e principiano a nutrire disprezzo per
tutti gli altri che si accontenterebbero solo di cambiare la loro vita
mentre non concepiscono neppure che si possa cambiare la vita nello stesso
tempo in cui si cambiano le cose che la circondano. Molti proletari
sconfitti e dispersi in questi anni, tra crisi economica e
ristrutturazione industriale, scelgono ormai di cambiare la vita, di
fuggire alla fabbrica e cercare altre strade e facendo così acquisiscono
un grado di coscienza ben più alto di quello di molti comunisti
rivoluzionari in quanto non idealizzano al loro vita, astraendola da sé
stessa e dalle circostanze, e partono sempre nella vita dalle
contraddizioni che la vita propone loro.
[39]
Esiste una nuova falsa coscienza proletaria, molto concreta e attuale.
Questa è la coscienza secondo la quale è possibile cambiare la propria
vita senza cambiare nulla o quasi nulla di quello che la circonda e non
esiste bisogno di cambiare le circostanze per cambiare la propria vita.
Molto spesso questa falsa ma concreta coscienza comporta la selezione tra
le cose che ci circondano e l'elezione di alcune di quelle come migliori e
più interessanti: una parte dello stato di cose presenti diviene il nostro
rifugio, la nostra tana ideale. Le contraddizioni, così, non scompaiono ma
divengono sopportabili e la falsa coscienza si fa ancora più concreta e
sempre meno falsa.
[40]
Coloro che criticano la rivoluzione di ottobre e il bolscevismo come fatti
storici interpretabili secondo lo stalinismo non hanno certamente
ogni torto. Quando, però, criticano ogni movimento rivoluzionario come
inevitabilmente stalinista e disposto al totalitarismo, come lo chiamano,
e necessariamente portato alla negazione della democrazia, di qualsiasi
tipo essa sia, iniziano a essere sospetti. Quando, poi, rivendicano la
loro lotta contro lo spirito stalinista come il naturale prodotto del loro
essere democratici e riformisti e anzi creano l'equazione tra riformismo,
democrazia e antistalinismo scivolano in una conclamata ipocrisia.
Sogliono in generale dimenticare che esiste, comunque, una linea di
demarcazione, anche se non sufficientemente profonda, tra fase
rivoluzionaria e fase di assestamento stalinista e che nella seconda fase
non domina la volontà di proseguire nel processo rivoluzionario ma quella
di conservare i prodotti immediati di quello. La cosa ridicola e ipocrita
è che, in Italia, i teorici odierni del riformismo e della democrazia e i
peggiori critici dello stalinismo in ogni sua forma, anche quella che loro
individuano nei movimenti rivoluzionari, un tempo difendevano la
rivoluzione russa proprio in ragione del sua assestamento stalinista, in
ragione del 'nuovo ordine' che si era data. In realtà lo stalinismo è
stato riformista, ha introdotto il riformismo del capitale in Russia e i
riformisti nostrani non hanno faticato molto ad allontanarsi da quel
pesante paludamento per scoprire quello che ci stava sotto ed adottarlo
con furia 'stalinista'. Lo stalinismo si è storicamente dimostrato come un
'movimento riformista senza l'habitus mentale proprio del riformismo'. È
storicamente istruttivo vedere i riformisti nostrani riprodurre, senza
paludamenti ideologici, lo stalinismo riformista e la teoria di una
democrazia autoritaria in una mistificazione dei termini del reale che è
loro connaturata, perché tipicamente stalinista.
[41]
C'è ben poco di più deprimente della visione di un cocciuto aggrappato ai
suoi canali mentali predeterminati e alla sue serie prefissate di
ragionamenti che si trovi a misurarsi con un problema nuovo, non compreso
in quelli. Dopo una breve proposizione iniziale genericamente pertinente
all'oggetto, inizierà a individuare un analogia qualsiasi, qualsiasi ma
usuale, e proromperà in un 'come'. Quel 'come' sarà un'analogia verso la
sua serie e i suoi canali, sarà un'analogia di potere. Sotto il profilo
conoscitivo potrebbe non esserci alcun male in questo come di potere
se le sue analogie non fossero necessariamente riduttive, perché un come
di potere non è un come del sapere. Attendersi la liberazione
del mondo dai cocciuti è come stare ad aspettare che le pietre germoglino.
In realtà costoro si troveranno coinvolti, loro malgrado, in una
liberazione e la riconosceranno per quello che hanno letto sulla
liberazione.
[42]
Che fare? La domanda che la donna superstiziosa pone al suo Dio. Ognuno
ama questa domanda, presupponendo molteplici risposte e, soprattutto,
intelligenti. La domanda è un perfido inganno perché contiene già una
risposta, implicitamente. Che fare? Contiene in sè l'occultamento del
flusso storico dirompente e disordinato e il potenziamento di un
sostitutivo: un flusso storico ordinato. Non ci deve essere nè un
che né un fare.
[43]
Teoria scientifica della conoscenza, sapere scientifico, una diluizione
accettabile della pretesa borghese di scrivere la storia.
[44]
I vecchi panni si apprestano a ripresentarsi: la nostra epoca come tutte
le altre è in attesa di questi vecchi panni inesistenti.
[45]
La grande forza dell'uomo e della sua interiorità più turbolenta, in preda
agli istinti e a ferrei ragionamenti, è nel non farsi percepire e toccare
come cosa sotterranea, ma come cosa manifesta ma imprevedibile. Ecco
perchè molte cose umane non sono prevedibile; penso all'amore, alla
rivolta e all'ironia che quando sono prevedibili ma non manifeste, quando
sono scelte interiori è come se non fossero tali. L'amore quando è scelto
si trasforma in matrimonio, la rivolta in sindacato e l'ironia in
umorismo.
[46]
Che bisogno c'è di confessarsi? Se anche ipotizzassi l'esistenza di Dio,
un Dio qualunque, potrei tranquillamente essere il confessore di me
stesso, ma non sarebbe necessaria neppure la confessione, basterebbero i
miei pensieri. Se Dio è l'essere assolutamente perfetto, come vuole la
scolastica e la teologia, come può egli non avvedersi della mia
imperfezione senza che io mi metta nell'attitudine della confessione? Se
devo ricorrere alla confessione e al suggerimento verso Dio allora Dio non
è l'essere assolutamente perfetto.
[47]
Gesù Cristo aveva ragione quando diceva di non giudicare e da qualche
altra parte consigliava di perdonare i propri persecutori. Quanto al
perdonare non sono d'accordo, se si perdona si giudica: Gesù era in
contraddizione con il suo vangelo. È necessario stare tranquilli a vedere
tutto quello che la vita produce senza alcuna aspettativa, così come viene
l'acqua da un fiume. Oggi come ieri essa verrà, oggi come ieri essa ti
chiamerà a raccolta e ti dirà: obbedisci a te stesso e vai verso un mondo
dove nessuno abbia la facoltà di giudicare e di perdonare, ritienilo
possibile anzi ritienilo già in atto; questo sarà il mondo in cui si avrà
il coraggio di dubitare di ogni legge precisata e fissata, del male e del
bene, vai ed ascolta il suo abbraccio perchè devi conquistartelo.
[48]
Conquistare. Nella conquista l'uomo ha rinnegato i suoi principi iniziali
e per ottenerla ha snaturato i suoi fini confondendoli con i mezzi per
ottenerli. Conquistare, però, è vincere e bisogna vincere, è necessario
che le acque si liberino e si possa dormire giocosi dopo la vittoria. E la
candela vale il gioco.
[49]
Parole, frasi, proposizioni e periodi. Quante parole, quanto fiato e
quanto inchiostro che non sortisce alcun effetto. Eppure ognuno di noi
ritiene di avere la capacità di organizzare il proprio logos e
di ricamare la trama dei suoi giudizi. Tutte queste frasi, queste parole
non ricamano alcuna tela e nascondono al loro ideatore la capacità di
essere al mondo. È l'arte dell'occultamento che domina i discorsi. Gli
stati, pretendendo di tessere l'intera società, utilizzano i linguaggi, le
parole, le frasi facendone uno solo, unificando i loro significati, in uno
solo, considerato pieno e completo. Anche gli stati mentono: che bisogno
avrebbero, infatti, di rincorrere tutte le parole in giro per
imprigionarle e rinchiuderle? Che bisogno avrebbero di stipendiare
carcerieri e poliziotti? Che senso avrebbe questa affannosa ricerca di
carri armati e fucili automatici ben esposti nelle strade del centro se
non quello di evitare che le parole possano essere interpretate
diversamente?
[50]
Oggi nell'istinto di conservazione si nascondono delle qualità importanti;
ci sono andate a finire, si sono associate a quello, mentre prima erano
indipendenti da quello, o meglio quello era indipendente da esse. La
principale tra queste è il sapere giustificare naturalmente la nostra
presenza al mondo, perché la filosofia è scesa nelle strade insieme con la
necessità di orizzontarsi in quelle. Non si trova più nessuno disposto a
dire "io vivo e basta", come è altrettanto difficile trovare qualcuno che
pensi di vivere per volontà divina. La volontà di Dio viene sentita sempre
più spesso come un mostro torturante, la mano pesante di un padre e un
dato privo di conseguenze piuttosto che una credenza capace di
trasfigurare i fatti dell'esistenza in valori. Il problema, oggi, è quello
dell'uomo, di ogni uomo che abbia gli occhi spalancati contro il suo
desiderio, suo malgrado, che debba e sia costretto a tenerli sbalancati a
guardare gli orizzonti delle strade. Il problema è, oggi, quello dell'uomo
quando è tanto intelligente da capire che l'arte della sopravvivenza è
quella della menzogna, di un amante della realtà che è costretto a
mentire.
[51]
Non ci si deve stupire del fatto che le perversioni, per perversioni
intendo quei desideri che richiedono una soddisfazione priva di oggetto,
anaoggettuale, siano così diffuse. La perversione sta in tutta la macchina
sociale che è una macchina perversa che va avanti senza un
oggetto e uno scopo, va avanti per sè medesima. Gli uomini, inoltre, sono
perversi, rifuggono da qualsiasi oggetto concreto, di fronte alla diffusa
e totalizzante strumentazione di menzogna e tortura che vive di
disgiunzioni e separazioni, che crea categorie e che sadicamente le
controlla. La grande macchina sadica è la macchina statale. Perversione?
Certo perversione di massa. È la perversione ad aver garantito la
sopravvivenza dell'organizzazione sociale. Moralità è perversione,
immoralità è perversione. Non c'è semplicemente modo di non essere
perversi.
[52]
L'uomo si divide da sè, fino al punto di non riconoscere sè. Taglia ogni
flusso di comunicazione verso gli altri uomini affinchè la macchina mondo
continui a funzionare, a funzionalizzare, a tagliare gli aspetti
della vita sociale, a intervenire sullo sviluppo della macchina sociale,
produttiva e libera. Una macchina di tortura si dirige contro una macchina
non finalizzata; per prendere la difesa di quest'ultima bisogna annullare
la perversione, la divisione che la macchina mondo fa urlare in noi con il
nostro stesso fiato e quindi essere diversi da noi stessi. Ma è mai
possibile essere diversi da noi stessi e dire una verità su noi stessi?
[53]
Nel passato, nell'epoca delle grandi rivoluzioni (quella inglese,
americana, francese e russa), si è sostituita, in nome degli interessi
della macchina sociale, a una macchina di tortura un'altra macchina di
tortura; si sono contrapposte diverse forme di tortura. Durante le
rivoluzioni la macchina sociale iniziava a torturare sè stessa da un altro
punto di vista e cioè quello secondo il quale la macchina di tortura
arrogava a sé il diritto di definire la macchina sociale. Prima la
macchina di tortura non pretendeva di definire nulla se non sé stessa e
non aveva neppure la lontana idea di far coincidere la sua macchina con la
macchina mondo. Dopo le grandi rivoluzioni la tortura è diventata un
complesso articolato e in connessione con il corpo sociale, fino al punto
da non poter distinguere empiricamente l'una dall'altro. Il controllo
esterno sul corpo sociale si articolava come intervento, ridefinizione e
razionalizzazione necessaria e naturale della macchina sociale sulla
macchina sociale. La dittatura del proletariato socialista è stata una
macchina di tortura capitalistica all'estremo livello di sviluppo.
[54]
Molto spesso oggi ci sentiamo nella condizione di chi non ha nulla da
imparare. Sentiamo, cioè, che il mondo ha detto tutto quello che doveva
dire e che nulla ci potranno insegnare le epoche future, perché percepiamo
che i principi, le tendenze e gli scopi sono già ben definiti nell'oggi e
il domani non saprà fare altro che approfondirli. Ma se tutto è già
conosciuto, se non ci sono terre nuove da esplorare, ci sarà il futuro?
[55]
Le due qualità contrapposte dell'umanità vengono a scontrarsi, la qualità
del controllo, della coercizione e della tortura e quella della libertà e
della scelta. Sono due macchine al lavoro diverse tra di loro ma non è
affatto scontato che l'una escluda l'altra: la macchina torturatrice
possiede un suo ordine e un ordine compresente a quello lo possiede anche
la macchina libera, produttiva e sociale. Non sono ordini contrapposti ma
ordini paralleli disposti su piani diversi. L'ordine che richiede
coercizione, controllo e forza repressiva non è antagonista e diverso da
quello che esige produzione, socialità e libertà. Sono, invece, due
ordini adiacenti che hanno tra di loro delle relazioni strette:
stanno gomiti a gomito, fianco a fianco. Ma mentre l'ordine della prima
macchina sociale è dominato dalla necessità del controllo, dal quale
derivano coercizione e forza repressiva, l'ordine della seconda macchina
sociale è governato dalla libertà dalla quale derivano socialità e
produttività. Le due macchine non sono affatto in guerra e divengono
nemiche solo quando in entrambe le necessità dominanti divengono primarie.
Allora la macchina della tortura interviene direttamente sul funzionamento
della seconda, ne taglia settori di sviluppo, ne allontana la libertà
materiale e ancora a sé la macchina sociale a partire da nuove basi. Si
verificano, allora, potenti e laceranti tensioni, quelle che si chiamano
tensioni rivoluzionarie che tengono dietro a contraddizioni
rivoluzionarie, grazie e dentro alle quali la macchina della tortura
riorganizza se stessa. Questa riorganizzazione è un'operazione costruita
per rompere i nessi con la vecchia e sorpassata macchina sociale, nessi
che la renderebbero direttamente antagonista alla nuova e per tornare a un
livello di adiacenza con quella. Le rivoluzioni sono state questo.
La macchina sociale, infatti, si riproduce, si complica, acquista nuovi
componenti, nuove tecniche, nuove potenzialità produttive e nuove forme
produttive e adiacentemente l'altra macchina deve ingigantirsi e
ipertrofizzarsi. Più le nuove forme della produzione, la corsa della
macchina sociale, sono complesse e autosufficienti, più la macchina della
tortura si articola e si giustifica, costituendosi in un'articolazione
sconfinata di giustificazioni per sé medesima. Più la la macchina della
produzione marcia verso la libertà, più quell'altra approfondisce il
controllo, lo ispessisce, e quanto è più spessa e complicata la
realizzazione dell'azione della macchina sociale tanto più pluriforme,
radicato e articolato il controllo. Questo processo, che si è inaugurato
nel XVII secolo, produce una progressiva paranoidizzazione del mondo, le
cui ragioni politiche e istituzionali sono deliranti e vivono nel delirio
ipertrofico e gigantista: la pazzia diviene la componente determinante del
linguaggio politico. Avete visto che oggi si parla con discorsi protetti e
tutelati da testate nucleari e su quella base ideati, si discute di
politica internazionale e si fa diplomazia sulle soglie della distruzione
del mondo, si fa del mondo l'oggetto di un discorso in preda al delirio.
[56]
Il linguaggio politico oggi è un linguaggio paranoico, come la macchina
dello stato è diventata una macchina paranoica, affetta da una paranoia
che induce all'annientamento dell'esterno, che parla il linguaggio
delirante del complesso di persecuzione e punta conseguentemente
all'annientamento fisico dei suoi persecutori. Il controllo che informa
questa macchina paranoica tende a identificarsi, a riconoscersi e a
immedesimarsi nelle forme e nella qualità di un controllo onnipotente, un
controllo divino. Lo stato delirante e paranoico si trasfigura in un Dio
piramidale che valuta e giudica l'organizzazione sociale secondo la
pericolosità che esprime verso la sua sacra persona. Lo stato è il sacro,
non più come nell'antichità e nel medioevo il prodotto del sacro.
Tra i tanti effetti di questa materializzazione del sacro uno
dei principali si riscontra in ambito penale e giudiziario: contano sempre
meno, oggi, le accuse e le prove che vengono messe in atto contro gli
individui, contano sempre meno la colpa effettiva sotto il profilo
penale, la gravità delle azioni, ma la posizione rispetto allo stato,
l'atteggiamento e la pericolosità: una rapina compiuta in un certo modo e
un rapinatore che non si ravvede può provocare una reazione penale ben
peggiore di quella rivolta contro un serial killer che ammette
la sua serialità e la sua malattia. La valutazione giuridica si fonda
sempre di più sull'atteggiamento che ha ispirato il reato ed è questo a
decidere il grado della pena e la sua durezza o mitezza. Dio è sceso
sulla terra, oggi è sceso sicuramente e materialmente, Dio è
un'istituzione terrena e fa parte di tutti noi.
[57]
Dio disse: "Lo stato sono io".
[58]
Spesso non riesco a prendere respiro nello scrivere queste pagine; si
capisce come noi, miseri figli di un padre paranoico, noi continuamente
sospettati e indagati da questo padre per metà prussiano e per metà
orwelliano, preferiamo tacere anche a noi stessi, tenerci i pensieri
dentro, trattenere il respiro con tranquilla pena. Oggi parlare di 'liberi
pensatori', per carità! Facciamoci il piacere! C'è che non soltanto il
termine 'liberi' quanto quello di 'pensatori' è improbabile. Non c'è nulla
da dire e da pensare che non sia stato detto e pensato, catalogato,
inventariato, criticato e nuovamente sottoposto alla critica e che non sia
già vecchio, anche se appena nato. Ogni recente deduzione assomiglia a una
convinzione vecchia e stantia. Liberi pensatori! Il mondo oggi è pieno di
giornalisti di cronaca 'liberi pensatori', di politicanti e di onorevoli
deputati ereditari 'liberi pensatori'. So perfettamente che non sto
scrivendo niente di nuovo, ma questo è necessario (tanto scrivere quanto
non essere nuovo). Non pretendo da me stesso di essere un 'libero
pensatore'.
[59]
Capì che per salvarsi doveva fingersi morto, dunque trattenne il respiro e
con quello ogni pensiero, fece fare il silenzio nella mente, un gran buio
scottante nelle orecchie. L'assassino passò e non fece caso a lui.
[60]
L'uomo silenzioso, che serba in sé i suoi pensieri e ne fa dei misteri, è
da ammirare, poiche non svuota con inutili parole il suo operare, lo fa e
lo elegge a suo linguaggio. L'operare diviene la sua arma più affilata e
tagliente poiché è il suo unico modo di parlare agli altri.
[61]
Non dovrei mai cessare di sottolineare quanto l'agire sia utile alla
mente; la costringe a prendere delle decisioni, a risolversi nell'utile e
nell'inutile, a dissolversi nell'azione, in un certo senso. Ha ragione chi
afferma che nell'azione la mente viene meno a una delle prerogative che le
sono di fondamento: la profondità analitica. In verità nell'azione, che
pure nasce dalla valutazione dell'utile dell'inutile, la mente non si pone
più il problema dell'utile e dell'inutile e, per così dire, se lo lascia
dietro, e non si pone più la questione di quali siano gli effetti
dell'azione; se continuasse a porsi questi problemi e queste questioni non
si risolverebbe mai ad agire poichè il giudizio più disincantato e
materialista (e per disincantato intendo privo di incantamenti, di fascini
che dominano quello che noi definiamo come utile e inutile, mentre uso per
materialista un'accezione di una grande esperienza delle cose materiali,
una conoscenza empirica e diretta) nessuna azione potrà essere valida di
per sé e non potrà essere utile ed inutile in assoluto, perchè dietro il
concetto di utile e inutile si nascondono migliaia e forse infinite
indicazioni contrarie, valutazioni avverse.
[62]
La profondità analitica inibisce l'iniziativa umana e innalza
nell'uomo la consapevolezza che qualunque cosa egli faccia gliene verrà
solo del danno e null'altro che male.
[63]
L'uomo silenzioso è colui che ha capito, tramite una profondità di
giudizio empirico e grazie a una grande sensibilità empirica, la validità
dell'agire umano che non risiede al di fuori di sé ma dentro di sè: la
validità dell'agire è una regola interna all'agire. Conosce, riconosce e
accetta, allora, la potenza degli istinti che inducono a vivere e li segue
perché, in un certo senso, questi sono scritti in lui e questa scrittura è
veramente l'unica norma universale, soggiogata e rivisitata in modi
diversissimi dalle dinamiche sensitive e razionali degli esseri umani: la
sopravvivenza.
[64]
Soprattutto di questi tempi duri, soprattutto oggi, epoca nella quale le
grandi macchine di controllo e persecuzione si perfezionano e
ingigantiscono quasi a vista d'occhio, dopo la 'rivoluzione mancata' del
decennio passato, nella quale ogni parola, ogni ragionamento su sé stessi
che sia approfondito, viene penalizzato, vale a dire sottoposto a pena
(minaccia di pena) e persecuzione (che è minaccia di pena), la qualità
fondamentale di questo tipo di intelletto è il silenzio insieme con
l'agire silenzioso e obbediente ma mai rassegnato. Questo agire silenzioso
e questo silenzio si trasformano, gradatamente, in un silenzio generale
della mente che è un rifiuto oggettivo del ragionamento egemone, utile,
adeguato e buono. Si preferisce privarsi di ogni facoltà di
ragionamento ma dal momento che è impossibile raggiungere questa
privazione si sceglie di ridurre la mente al silenzio.
[65]
Guardarsi dai ciarlieri, che si profondono in ragionamenti esposti, serie
di voci, che parlano e dimostrano valori di socievolezza ad ogni costo,
che vedono valori positivi, eventi positivi ovunque, anche nella
sconfitta, anche nella repressione, anche nella negazione dei diritti più
banali. La macchina paranoica ha fatto di loro i suoi strumenti di
riproduzione gioiosa; costoro ne registrano gioiosamente la riproduzione
ed evoluzione. Bisogna, però, anche guardarsi dai ciarlieri severi, da
tutti coloro che si prendono sul serio, e prendono sul serio quello che
dicono e pensano, come se non potesse essere detto e pensato altro. Oltre
che noiosi sono anche inutili e pericolosi.
Ci sono poi i faceti, coloro che ridono delle cose; costoro assomigliano
agli uomini silenziosi, ne sono la componente bizzarra; il loro rischio è
quello di dimostrare la legittimità della gioia nella macchina
persecutoria e di cessare di considerarla per quello che è.
[66]
Quello che è stato, e a buon diritto, criticato e alla fine negato dal
cambiare dei tempi, dall'evolversi del mondo e dall'affermarsi dell'epoca
moderna e del capitalismo, è questo: la divisione intellettuale tra gli
uomini, cioè l'idea che esistano degli uomini migliori e degli uomini
peggiori, degli aristocratici e dei plebei intellettuali per nascita,
quasi per genetica. Oggi non esisterebbero neppure i parametri, le misure,
i modelli aritmetici o analoghi, per individuare qualcosa di superiore e
inferiore. Gli uomini silenziosi non sono, così, nè più intelligenti, nè
più sensibili, nè più speculativi degli altri uomini, hanno semplicemente
imparato a sopravvivere attraverso il silenzio come gli altri lo fanno
attraverso la ciarla, hanno imparato a sentire sé stessi al di là e al di
fuori di ogni valore, precisamente come gli altri lo fanno grazie
all'adesione a ogni valore e a qualsiasi cosa che assomigli a un valore.
In entrambe le tipologie intellettuali l'energia spesa e consumata, le
imprese intellettuali nel numero e nella qualità, sono uguali ma non
identiche: il lavoro della mente è il medesimo e l'intelligenza spesa
nella stessa misura.
[67]
La scelta è libera, quando si sceglie si è liberi dentro i parametri della
scelta. Ma quali parametri che inducono la scelta sono liberi? Liberi
nella sostanza? Se anche i parametri della scelta e quindi i parametri
della libertà fossero liberi e quindi non determinati da altri parameteri,
precedenti, collaterali e affiancati, allora bisognerebbe ammettere che
l'intero ordine cosmico si è basato ed è proceduto sul caso, sulla libertà
dettata dal caso.
[68]
L'ordine casuale non è la libertà, ma la pura schiavitù, perché anche i
binari della scelta e la scelta stessa sarebbe casualmente determinati:
agire a caso non è agire liberamente. Io non credo che i dadi siano liberi
quando cadono sul tavolo e combinano il numero. Abbandonarsi alla
necessità dell'ordinamento delle cose, aderire a quelle come una pellicola
d'olio aderisce all'acqua è agire liberamente, poiché faremo sentire il
peso dell'olio all'acqua e l'acqua, l'ordine dell'acqua, si muterà,
troverà una nuova causa e un nuovo elemento. Aderire alle motivazioni
delle cose è come aderire alle motivazioni della mente o, se preferite,
alle motivazioni dell'anima.
[69]
La morale è il prodotto di un'astrazione dall'ordine causale generale di
alcune sezioni di quello che vengono, appunto, tirate fuori dal loro
contesto e isolate. I legami e i nessi che hanno con l'ordinamento causale
vengono spezzati e interrotti e in tal maniera è possibile definire degli
opposti, degli aut aut e degli o - o, quindi delle esclusioni
dal flusso generale degli eventi, delle cose e dei pensieri. Operando in
tal modo il pensiero morale ha considerato sè stesso come un pensiero
universale, poiché sciolto dalle cose determinate e dai pensieri
determinati e come l'unico capace di produrre degli autentici universali,
delle cose che valgono in ogni parte dell'ordinamento causale sia al
principio che in mezzo che alla fine. L'epoca che le ha generate, cioé
quella particolare sezione / segmento del flusso causale dalla quale si
sono separate, non è più direttamente riconoscibile nel pensiero morale e
quindi il figlio cerca di non assomigliare al padre e lo rinnega, in un
certo cerso se ne vergogna. Il pensiero morale si vergogna delle sue
origini, perché riconoscerle sarebbe come negarsi da sè medesimo,
annullarsi. Oppure il pensiero morale riconosce un padre, si riconosce
figlio di un'epoca, si sente storico ma, contemporaneamente, divinizza il
padre e proclama quell'epoca, la sua epoca, come santa, sacra e
universalmente valida: la grande nutrice e generatrice del mondo. Le
morali devono fare violenza, in ogni caso, alla realtà dei fatti e
condannare i pensieri che si basano sulla realtà dei fatti perché hanno la
pretesa di possedere la virtù adatta a giudicare ogni epoca, il metro per
giudicare la storia, tutta quanta. Per andare a un esempio banale e
schematico non è forse un caso se c'è qualcuno che afferma che all'origine
della violenza carnale e dello stupro stia la morale e la sua cultura ma
non in quanto la morale, provocando repressione determina poi una pulsione
incontrollata in una sorta di effetto involontario e indesiderato, ma per
un'analogia profonda verso la violenza che normalmente esercita contro il
flusso e l'ordine causale delle cose, dei pensieri e dei sentimenti: la
morale insegna a usare la violenza perché alla sua base è un'operazione
violenta.
[70]
Quello che oggi si è creato tra gli uomini, quali siano le relazioni
umane, quelle dei singoli con i singoli, delle persone con le altre
persone, è diventato un campo difficilissimo da esplorare ed è un campo
dominato da un grande disordine analitico. Da più parti si descrive la
fine del pensiero morale, ma questa fine è solo apparente. Le morali
risorgono dalle loro ceneri, perché hanno sempre un terreno dal quale
risorgere e ricostituirsi. Il grande edificio della morale cristiana è
crollato, poiché si è storicizzato ed è stato costretto a rivelare le sue
origini, è stato costretto a denunciare il padre, ma da ogni sua pietra,
sparsa sul terreno, è sorta una morale privata, una nuova forbice che
taglia e separa, anzi infinite forbici che tagliano e separano, prendono
pezzi di connessioni e interconnessioni, segmenti, sezioni, secondo
infiniti orizzonti, infiniti tagli, e producono infinite astrazioni. La
morale è diventata una miriade di mondi egocentrici, quindi l'apparente
negazione della morale e di qui la denuncia fallace della sua morte, che
si giustificano con la morale e sono morali.
Le grandi costruzioni morali si sono sgretolate ma a quella si è
sostituita la morale della necessità minima individuale, la morale del
benessere individuale e della felicità e appagamento. Benessere, felicità
e appagamento hanno come inevitabile condizione un contesto collettivo
favorevole se vogliono realizzarsi. La morale, quindi, ha scoperto quello
che originariamente aveva negato: le connessioni e i nessi. Le infinite
morali individuali si collegano tra di loro e costituiscono un disegno
unico e alla fine un discorso unico, un coro. Questa coralità rende la
morale abbastanza vicina alla scienza e alla tecnologia.
[71]
Della grande morale, come di un grande ed eterno ed eppure morto amore,
chi non può non sentire la mancanza, anche se l'ha disprezzata, fuggita e
dileggiata? Di queste pietruzze moralistiche, governate dal benessere,
l'appagamento e la felicità, dalla 'pace con sé stessi', dalla
realizzazione di sè stessi, di questo coro caotico che ricerca la
protezione del tribunale e del poliziotto, la sicurezza del partito
politico o del parlamento e l'ordine nella società, senza neanche
menzionarli e spesso facendo il verso di criticarli o tra i più stupidi
criticandoli apertamente e con sincerità (pensando di essere
'sinceramente' sinceri mentre si è solo sinceramente stupidi) chi mai
potrà sentire la mancanza e, soprattutto, chi mai si ricorderà? Solo
stato, io credo, la macchina paranoica sentirà la mancanza di questo
incredibile consenso caotico e ben ordinato.
[72]
La macchina paranoica e torturante, lo stato capitalista contemporaneo,
non si sconforta della fine della grande macchina morale, anche se la cosa
potrebbe apparire strana. Alla diabolica stupidità della grande macchina
morale unificata si è sostituita la molto meno ingombrante ma
terribilmente molto più efficace teoria di tanti meccanismi morali
interconnessi. Questi meccanismi seguono e perseguono la difesa della loro
necessità minima individuale: l'adattamento alla miriade di situazioni di
vita che incontrano. Le piccole morali singole inseguono senza nessuna
intelligenza la dinamica veloce delle situazioni, vi si accodano, vi si
adattano e danno a questo adattamento un significato generale tanto più
che ricercano la solidarietà e collaborazione di altri piccoli meccanismi
morali e, alla fine, costituiscono una macchina, senza neppure sapere che
l'hanno costruita. I meccanismi morali singoli lavorano sotto la spinta
dell'istinto della sopravvivenza tutto appiattito sulla legge
dell'adattamento, della potenza della circostanza e di quello che ci
circonda.
[73]
Se prima, prima della grande trasformazione di questi anni nella quale gli
orizzonti della classe operaia si stanno restringendo drammaticamente e il
pensiero critico e antagonista è in riflusso in tutto il mondo, gli uomini
dovevano affrontare la grande macchina della morale, lottare contro di
quella e sabotarla e in questa lotta si univano, anzi questa lotta
imponeva la loro unione, oggi vivono rinchiusi nel loro angolo morale. La
critica alla morale è diventato un fatto privato, personale e
apparentemente libero. La lotta oggi si deve spostare dietro a quello che
sta dietro questa nuova morale distribuita e che determina
questi infiniti atomi morali. La lotta salta la morale e va verso una
critica allo spirito di adattamento e solo la lotta allo spirito di
adattamento potrà sgretolare questa nuova morale distribuita.
[74]
La logica conseguenza (una delle logiche conseguenze) della nuova morale
individuale e distribuita è la fine dell'amore. Per amore intendo la
capacità di uscire dalla propria individualità, dal proprio adattamento,
individuare un terreno comune con gli altri uomini e rinunciare al proprio
spirito di adattamento. Questo ha anche coinvolto l'amore
sentimentale che fa parte di questa forza di scambio e di messa in
comune, e che è finito soffocato più che nei presistenti matrimoni nelle
coppie aperte e nelle prospettive single di relazione di coppia.
[75]
Alcune brevi annotazioni sull'amore. L'amore è una forza che ci può
uccidere ma è anche un luogo produttivo; l'amore produce immagini secondo
una concatenazione infinita e interminabile. L'amore è l'unico sentimento
capace di fare in modo che il nostro intelletto, per più di qualche breve
istante come accade per altri sentimenti, sia finalizzato alla sua
produzione e riproduzione. L'amore ci fa sentire integri tanto da farci
distrarre da tutto e da tutti. Eppure l'amore non ha un inizio preciso e
non ci si accorge di quando inizia. Si deve capire la bellezza del potere
dell'amore per comprendere la potenza dell'uomo e il suo irrimediabile
fascino davanti a qualsiasi altro animale. L'amore possiede e comporta,
infatti, un fascino che è il fascino di una forza irrefrenabile in mano
all'uomo, non comune a nessun altro animale, che quasi è una sua
caratteristica. L'amore produce il fascino di una forza scatenata contro
ogni ostacolo che circonda l'uomo.
[76]
La macchina statale, la macchina torturante, di fronte al crescente
silenzio del sociale, è diventata sempre più blaterante, chiaccherina. Si
è messo in moto un processo interattivo in maniera iperbolica: lo stato definisce
esso stesso il sociale, lo inventa, crea un immaginario mondo
parallelo, mentre il corpo sociale tace sempre di più, diviene sempre meno
partecipe a sè stesso e sempre più ammutolito. Così come lo stato ha
maggiore capacità di manipolare la società, così è sempre di più solo uno
scheletro della società quello che tiene tra le mani. È in atto, oggi, una
dinamica di estraniazione del corpo sociale da sè stesso i cui effetti
sono difficili da valutare, ma è chiaro che un'interazione di questo tipo,
annichilente e silenziante, non potrà che risolversi con la fine di uno
dei due soggetti: o lo stato o il corpo sociale.
[77]
La macchina torturante dello stato ha distrutto ogni possibilità di
mediazione con il corpo sociale. Insieme con la fine della possibilità è
declinata anche la capacità della mediazione con il corpo sociale e dunque
la fine, per definizione e antonomasia, della politica, politica intesa
come categoria del dialogo, del discorso sensato e della dialettica. Oggi
la politica è solo una strategia unilateralmente data che ha come scopo la
definizione / annullamento del corpo sociale, oggi la politica appartiene
esclusivamente allo stato.
[78]
Signori! In questa sede raccolgo pensieri ben materiali, pensieri
storici e storicizzabili, pensieri quotidiani, nel senso che
riguardano la quotidianità e che non hanno affatto pretese di originalità,
anche perchè in questa data e ben determinata epoca è l'arido e il secco
che domina la totalità sociale. Sono l'arido, il siccitoso e il silenzio a
dominare. I rapporti sociali che sono comunicazione per definizione sono
dominati dall'incomunicabilità e non sono più rapporti sociali. Che senso
ha, di fronte a questa novità, parlare di nuovo oggi? È terribilmente
impossibile parlare di nuovo oggi e pronunciare la parola stessa 'nuovo'.
Tutto quello che abbiamo di fronte è un nuovo che propone il vecchio in
forme chimicamente pure e proprio per questo che dovremmo soffermarci
attentamente sull'aspetto dello stato torturatore e persecutore, che è uno
dei segni della nostra epoca, ma non è un segno nuovo, non è un nuovo
assioma, ed è una trappola intellettuale e politica.
[79]
Stabilisco un assioma della incomunicabilità. Tra stato e corpo
sociale non esiste un tessuto comunicativo, oggi, un tessuto
dialettico positivo, affermativo. Quello che era garantito, fino al
decennio precedente questo, dal linguaggio politico è venuto a mancare e
non fa più parte del linguaggio politico.
[80]
Assioma della dialettica. Siamo ben lontani dalla definitiva
chiusura della dialettica. La dialettica rimane la sostanza stessa delle
cose sociali, ma non è più una dialettica positiva espressa tra stato e
corpo sociale. La dialettica si è trasferita altrove, direttamente nelle
relazioni tra capitale e lavoro e ha abbandonato il terreno della
relazione tra lo stato e la società. È che oggi siamo di fronte a un
confronto tra due interlocutori dove non esiste interlocuzione e
l'interazione è solo immaginata e rappresentata da uno solo degli
interlocutori, quindi non c'è interazione se non nella rappresentazione.
Lo stato rappresenta la società, solo in quanto società statale e solo in
quanto società politica e civile, non in quanto corpo sociale, complesso
esterno allo stato, quello è morto alla dialettica.
[81]
Assioma dello stato assoluto. Si è riproposto in nuove forme e
con nuovi contenuti uno stato collettivo di classe, come fu lo stato
assoluto aristocratico. È lo stato assoluto della borghesia. L'analogia
tra queste due forme di potere è nella loro incapacità di usare un
linguaggio che coinvolga il corpo sociale attivamente. L'analogia sta
anche nel fatto che l'incapacità confina con la mancanza di volontà di
parlare con il corpo sociale: è una scelta cosciente non il risultato di
un processo. Non esiste un linguaggio dello stato sul corpo sociale
perchè, ed è questa la novità di quest'epoca, influenzata dalla Thatcher e
da Ronald Reagan, lo stato non ha più fini e progetti per il corpo
sociale; lo stato vive della sua conservazione, come ultimo e primo al
contempo termine istituzionale del dominio di una classe sulla società.
Questo dominio non è il prodotto del caso e neppure il risultato di un
complesso di cause, o meglio non è solo questo, ma è il prodotto di una
scelta deliberata, di un'intelligenza; la borghesia è intelligente, più di
quanto si pensasse.
[82]
Questi tre assiomi, incomunicabilità, nuove forme della dialettica e stato
assoluto e collettivo, sono interdipendenti, vale a dire che ognuno
richiede l'altro e non può esistere e sostenersi senza l'altro e che l'uno
è la conseguenza e al contempo l'origine dell'altro. È in atto un duello
paradossale, una lotta mortale inimmaginabile prima: lo stato
assoluto della borghesia non è in grado di spostarsi da sè, mentre il
corpo sociale non è assolutamente capace di progettarsi come stato.
Per il corpo sociale, in qualsiasi sua articolazione e nelle diverse
ideologie che esprime in questa fase, il potere sta assumendo solo
un'accezione negativa: lo stato ha assunto un significato politico
negativo, è un nemico. E questo vale per la destra e per la sinistra. In
realtà tanto lo stato quanto il corpo sociale non hanno gli strumenti per
condurre la lotta reciproca. Per lo stato, che diviene sempre più una
macchina torturante e persecutoria, l'obiettivo è l'annientamento del
corpo sociale e la sua energia che è, però, una soluzione paradossale
poichè lo stato si è sempre fondato, istituito ed evoluto sulla dialettica
con il corpo sociale. Per il corpo sociale l'obiettivo è l'annientamento
delo stato torturante, cioè di quello che è divenuto inevitabilmente
l'altro da sè, il proprio io definitore. Il corpo sociale ha
perduto il proprio io perchè se l'è preso lo stato e il potere politico.
Al contrario dello stato, però, il corpo sociale cambia e si trasforma,
soffre e patisce, lo stato si arrocca e si cristallizza. Sono due processi
antagonisti ma dialettici, ma di una dialettica stravolta, una dialettica
della fuga e della separazione. L'irrisolvibilità di questo antagonismo
potrebbe essere dato solo nell'oggi, in questo caso sarà il futuro
sviluppo del corpo sociale a decidere della sorte dello stato, oppure è un
dato strutturale e allora sarà lo stato a innalzarsi a estremo e ultimo
distruttore dello sviluppo del corpo sociale e quindi, alla fine, del
corpo sociale per come si è dato storicamente. L'aspetto dominante è oggi
quello dell'incompatibilità tra la trasformazione assolutistica dello
stato e la sopravvivenza del corpo sociale.
[83]
Le strade si stanno riempiendo di soggetti sociali incompatibili tra loro.
Che continuino a riempirsi di questa incompatibilità! Che le strade urlino
dei bisogni e dei desideri dei silenziosi! Basteranno pochi e banali
bisogni a scatenare il putiferio.
[84]
Quale genialità albergava nel primo uomo che si inventò re, che si sentì
re. Quell'uomo divenne, nel suo corpo, essenza e fondamento dello
stato: una genialità che richiama quella dell'imprenditore moderno e il
suo lavoro primigenio e primitivo che è quello di assegnare alle cose un
valore nuovo.
[85]
Un popolo è un complesso di relazioni, di equilibri tra individui, tra
gruppi. Da dove potè trarre le doti necessarie per mutare quel complesso,
intervenire su quegli equilibri il re? La sua dote era solo nel saper
leggere la mancanza in quelle, l'insufficienza in quelle? Si erano forse
ammalate? Le relazioni all'interno di una comunità per accettare e
richiedere (che sono la stessa cosa in questo caso) la presenza di un re
non bastavano più a loro stesse: c'era un surplus che non si
riusciva più a comprendere in quelle. Il regno nasce dalla salute, non
dalla malattia. Ogni gruppo umano genera sè stesso in maniera indefinita,
la relazione tra gli individui del gruppo non si definisce e non si
chiama, non ha un nome, è un'esecuzione del gesto e del linguaggio; anche
quando entra in contatto e conosce altri gruppi umani, e quindi le loro
relazioni interne, trova in primo luogo una giustificazione alle sue
relazioni interne. Il contatto con altri gruppi non fonda e giustifica la
monarchia di per sè stesso e immediatamente. Quando, però, più gruppi si
trovarono in continua vicinanza e in competizione per il territorio o le
risorse del territorio, allora il tessuto delle loro relazioni interne
trova un competitore in una nuova trama: quella delle relazioni esterne;
in verità, non è che le relazioni all'interno del gruppo e quelle con
gruppi esterni tendono a individuarsi precisamente: tra gruppi possono
esistere delle compenetrazioni, dei trasferimenti e dei trasbordi. In ogni
caso il complesso delle relazioni interne conosceva anche il complesso di
altre relazioni interne, a maggior ragione se contaminavano quelle proprie
del gruppo, se interferivano, introducendosi, con quelle. È a questo
punto che sorge la necessità di un corpo, un individuo, che sia al di
fuori delle relazioni precedenti, ma non per distruggerle e per meglio
rappresentarle. Si sentì la necessità di un'entità capace di ridare forza
a ognuna delle relazioni dei gruppi e tra i gruppi. Comparve qualcosa di
analogo all'imprenditore che, invece che quello moderno, produceva nuove
relazioni e dava nuovo nome in base al suo atto creativo a quelle vecchie
e come quello moderno otteneva del plusvalore e del profitto su quelle, ma
non sotto forma di beni materiali ma di beni relazionali: il re e il suo
potere accumulavano relazioni umane. Le nuove relazioni instaurate erano
di proprietà esclusiva del re che sostituiva alla comunanza geografica e
prossimità territoriale, la comunanza delle relazioni tra i gruppi che
convergevano su di lui e sul suo corpo. Tutto ciò venne ottenuto anche con
l'uso del ferro e del fuoco, ma mai a detrimento del complesso delle
relazioni, mettendo un complesso relazionale contro un altro complesso
relazione, poichè sarebbe stato come negare la regalità stessa.
[86]
Il re si pose come unità di molti complessi relazionali autonomi e
indipendenti, come loro coordinamento capace di arricchirle e di
registrare il loro arricchimento spontaneo. Il re divenne la sommatoria ma
anche il senso di tutte le relazioni, qualcosa che stava 'appena al di
sopra' di quelle. Per fare questo la monarchia o lo stato nascente deve
togliere alle relazioni ogni indefinitezza, ogni anomimato, ogni mancanza
di nome e deve chiamarle e dare loro un nome. L'oralità è stata certamente
la forma di comunicazione propria delle comunità primordiali e anche delle
monarchie primordiali ma la monarchia tendeva verso una nuova forma di
comunicazione e di registrazione e narrazione delle relazioni. È la
scrittura questa nuova forma comunicativa che compare come soppiantatrice
della tradizione orale: la scrittura, andando oltre il tempo,
cristallizzandolo, va oltre le relazioni, fermandole. La scrittura è una
relazione stabilita, la scrittura è la monarchia espressa sulle relazioni
umane. Ogni cosa che viene detta è stata detta, ha significato, solo se
poi è stata scritta, come ogni gruppo umano ha significato solo se fa
parte del regno. Ogni parte del regno deve abbandonare la sua forma
comunicativa a favore di quella del re, ogni tessuto relazionale deve
essere finalizzato a quello amministrato dal re, il complesso delle
relazioni precedenti che possono anche resistere (anzi devono resistere)
deve diventare una componente di una funzione generale, di una macchina.
Questa macchina, che è lo stato, funziona grazie a degli ingranaggi che
sono i gruppi di relazioni tra gli individui, rinnovati e rinominati, anzi
nominati.
[87]
Chi viene scelto in questo processo di rinnovamento e rinominazione delle
relazioni umane, dei gesti e delle parole, chi parla la stessa lingua del
re, è un gruppo che sta in mezzo agli altri gruppi, una relazione che sta
in mezzo alle altre relazioni ma istituisce la sua relazione particolare:
quella di nominare e rinominare le relazioni umane e di partecipare a
questo meccanismo. È la nobiltà che è un gruppo di congiunzione tra il re
e la tribù, un gruppo che scrive come il re e parla come il popolo, un
gruppo che traduce, in un senso e nell'altro. L'aristocrazia nell'impero
romano è la quintessenza di questo modo di intendere ed usare la nobiltà
da parte del potere monarchico.
[88]
Il re, la scrittura e la morale? Il re, la primitiva macchina dello stato,
la scrittura, la primitiva codificazione delle relazioni umane hanno
generato la morale? Astrazione ed estrazione sono le due funzioni espresse
sulle relazioni umane che ha espresso la monarchia. La morale estrae
alcuni comportamenti e gli astrae dal loro contesto, fa la stessa cosa.
Oppure è possibile accomunare la nascita di morale e stato? La morale ha
un aspetto religioso che non è proprio nella costituzione della figura del
re. Nonostanza la similitudine logica, morale e stato paiono camminare
lungo strade diverse che, magari, si intersecano. Il re, infatti, tende,
nel corso dell'evoluzione della sua figura ad acquisire uno stato
religioso, un aspetto religioso e sacro: la funzione del re è sacra. La
morale, allora, attraverso la religione penetra nella politica, non più
come risultato delle relazioni di base ma come importazione del sacro nel
potere.
[89]
Le divinità locali, imperfette e limitate geograficamente nella loro
potestà, rimasero come segno delle relazioni preessitenti e fondanti la
primitiva monarchia e il primitivo stato e furono inizialmente adottati.
Il sacro dello stato era limitato geograficamente alle pertinenze
territoriali dello stato, anche se questo impose il coordinamento del
sacro e la formazione di un gruppo di divinità che si emancipavano (pur
nascendo il più delle volte da quelle) dalle tradizioni locali e
assumevano un aspetto inter - divino e rappresentavano, anche, le
specializzazioni che parte e frazioni dei singoli gruppi di
relazioni avevano acquisito. Si costituirono in questo periodo le
genealogie degli dei che erano isomorfe alle genealogie regali (Antico
Egitto, Ittiti, Babilonesi fino a giungere a Greci, Italici e Romani)
grazie alle quali il sacro rappresentava la complessità del corpo sociale,
anzi la religione definiva e strutturava l'idea di corpo sociale. In
questa fase, in maniera diversa da luogo a luogo, secondo gradienti
disimogeneamente distribuiti nel tempo, anche la classe sacerdotale, che
prima viveva di relazioni proprie con i gruppi costitutivi il corpo
sociale, prima ancora che fosse corpo sociale, ora si associa al potere
del monarca e dei nobili, ed entra a far parte delle nuove relazioni che
istituiscono il corpo sociale. Il potere del monarca stabilendo e
favorendo dinamiche di generazione del corpo sociale, come insieme
organico collaborante e strutturato secondo gerarchie, favorendo
estrazioni e astrazioni tra i gruppi primitivi (i clan e le tribù e i loro
lignaggi) oltrepassa la tradizione locale, anzi inventa il concetto di
locale proprio eleborandone il superamento. Emerge, anche qui gradatamente
e disomogeneamente per tempo e spazio, il concetto di universale. l'idea
di mondo. Il mondo presuppone un ordine universale e quindi un
coordinamento divino e figure divine ancora più elevate e astratte. I
vecchi dei tradizionali, locali, famigliari, di clan e tribali sono
respinti nella sottocultura della tradizione locale, mentre quello che
guarda al mondo, guarda all'universale e a quel fenomeno nuovo che è il
discorso (il logos) sul mondo. È la filosofia che si
associa alla religione, alla morale e la potere politico, si associa al
loro cammino: il mondo permette la nascita della filosofia. La filosofia
offre alla religione una nuova precettistica morale e una teologia: il
repertorio dell'umano come elemento indifferenziato e l'idea
dell'universalità del divino. Il passaggio dalle divinità supreme e
coordinatrici dell'ultima tradizione pagana al monoteismo cristiano fu
abbastanza naturale, come fu abbastanza naturale l'affermazione dell'idea
di un regno universale, un regno dei regni, il regno del mondo e
l'impero. A ogni fase ed evoluzione del potere politico corrisponde
un'evoluzione nell'organizzazione sociale, una precisazione dell'idea di
corpo sociale, e, infine, una universalizzazione e astrazione dell'ordine
mitico e divino: dal naturismo all'animismo, dal politeismo localistico al
politeismo coordinato e dal politeismo piramidale al monoteismo.
[90]
Dell'istituzione statale sappiamo che è nata, più o meno quando è nata e
anche come potrebbe essere nata ma in ragione di che cosa è nata no. Il
come non ci spiega il perché. Mai l'umanità, intorno al sorgere dello
stato nella preistoria, ha generato un enigma così grande. Lo stato può
essere stato molte ragioni e molti risultati: il prodotto di una
precedente tipologia classista e di una divisione del lavoro,
l'espressione del predominio di una tribù su altre tribù, il desiderio di
colmare difetti di relazione all'interno della tribù oppure tutte e tre
queste cose, per come si presenta lo stato alla storia, le prime
monarchie, potrebbe essere tutte e tre queste cose. Il problema di fondo
rimane il motivo per il quale queste caratteristiche sono divenute
requisiti e condizioni della formazione dello stato. Anche nella
compresenza di queste condizioni io non vedo la formazione dello stato
come inevitabile, come il naturale portato di queste. Ci sono stati una
serie di atti individuali che hanno reso necessaria, o meglio presentato
come necessaria, la formazione dello stato. Il genio del re, quindi. Solo
dopo la sua costituzione lo stato è diventato necessario. Si afferma
tradizionalmente che senza stato e senza classi non si sarebbe dato lo
sviluppo storico, la formazione della scienza morale, l'evoluzione della
tecnologia e il pensiero scientifico: lo stato, provocando un utile
pervertimento delle relazioni umane e del desiderio, ha tradotto il surplus
di energie che ne derivava in lavoro manuale e scientifico, ha catturato e
tesaurizzato queste energie relazionali. Forse questo surplus
esisteva già prima ed era tra le condizioni per la formazione potenziale
dello stato e non tra i suoi prodotti: con lo stato il surplus
inizia a darsi nella forma della sublimazione. Quindi una delle necessità,
a priori e a posteriori, dell'organizzazione statale decade. Anche la
guerra potrebbe decadere come causa della formazione dello stato: lo stato
di guerra può aver comportato il rafforzamento dei legami comunitari, le
relazioni tra i lignaggi ma, solitamente, i guerrieri sono ciò che di più
anarchico esprima un gruppo, in loro il valore individuale sopravanza
l'azione collettiva e l'azione collettiva è tale solo per la capacità
individuale. Anche un'embrionale divisione del lavoro e di classe non
necessariamente doveva tradursi nella formazione dello stato, un gruppo di
individui specializzato in un'operazione può in ragione di quella
organizzare relazioni paritetiche con gli altri gruppi. L'esercito
guerriero e la classe, come corpi separati della società, vengono dopo lo
stato, non prima: è lo stato che fa in modo che le loro relazioni con gli
altri gruppi divengano particolari e si costituiscano in corpi separati.
I difetti di relazione e i surplus di relazione e comunicazione
sono stati tra i tre elementi analizzati come requisiti, non cause
efficienti, della nascita dello stato quello più importante. La società
tribale si trovava in una situazione di abbondanza, il flusso della natura
non coincideva più con il flusso storico e l'uomo non aveva più un
rapporto animalesco con la natura e non solo il branco si era trasformato
in clan ma il clan si coniugava con altri clan, dando vita a una ricchezza
comunicativa e interattiva notevole che, lo ripeto, era anche rispecchiata
dalla religione. Esisteva quindi una forza che spingeva alla
trasformazione della natura, alla trasformazione dei clan e delle
relazioni tra famiglie e lignaggi, una forza economica e culturale. Questa
forza economica e culturale spingeva verso una ipotesi e concretezza
politica, una federazione tra i clan e le tribù e la formazione di
genealogie e di affinità allargate. Qui entra in gioco il secondo elemento
quello della guerra e diseguaglianza tra le tribù. Le differenti risorse,
determinate da situazioni geografiche, orografiche e idrografiche,
determinarono una diversità tra le le diverse tribù, rompendo il terreno
federativo e imponendo con la guerra o senza la guerra, la formazione di
relazioni asimmetriche tra quelle. Ma anche questo non rende necessario il
monarca e lo stato, anche se qui il suo genio può già essere meno eccelso
per imporre nuove relazioni e la specializzazioni che tagliano le tribù in
relazioni, corpi, particolari. Relazioni particolari tra clan e lignaggi e
federazioni simmetriche o asimmetriche tra tribù si stabilirono: parte
delle famiglie, clan e lignaggi iniziarono a differenziarsi al loro
interno e alla relazioni di lignaggio si sovrapposero altre relazioni,
determinate da un'ulteriore parte, particolari in base all'attività
economica e produttiva: un prototipo di classe che poteva rimanere tale.
La formazione dello stato precede anche la formazione della classe, come
la subordinazione inter tribale e la trasformazione delle relazioni o
meglio dà a tutte queste cose l'aspetto di prototipi: prima dello stato,
relazioni asimmetriche tra lignaggi, federazioni asimmetriche tra tribù e
relazioni particolari dentro lignaggi, clan e tribù, sono prototipi,
ombre, fenditure, dopo la stato sono matrici, chiarezze e linee.
L'asimmetria diviene norma, modo di essere della società; nasce, anzi, la
società, il corpo sociale.
Fu qualche 'cosa' di oggettivo, certamente la relazione asimmetrica,
basata sul debito e sul credito, a fare in modo che debito e credito
divenissero precisi e immutabili, una tribù dominante e l'altra
subalterna, una proprietà particolare e un'altra comune, ma soprattutto
un'intenzione, una soggettività sviluppatasi su questa asimmetria. Nacque
lo stato prima delle classi anche se nacque con quelle in seno come entità
inespresse, se non le avesse avute nel suo seno non sarebbe nata, non
sarebbe derivata la soggettività che decideva di dare espressione
all'inespresso: questa soggettività non avrebbe, infatti, trovato dentro
clan, lignaggi e tribù dei referenti, dei solidali, degli agganci e i
futuri rappresentanti di sè stessa. Questa nuova soggettività non avrebbe,
inoltre, trovato degli strumenti per dividere l'indifferenziato sociale in
differenze, in corpi separati e in organismi sociali.
Con la struttura dello stato si affermò il suo ingranaggio sociale, che
prima era una potenza non espressa, il rapporto privilegiato con il
possesso della terra, che prima era privo di conseguenze di relazione e si
sviluppava dentro relazioni simmetriche, divenne un rapporto codificato,
una relazione che coinvolgeva non solo il proprietario ma anche i soggetti
esterni alla proprietà, una relazione di dominio. Gli assiomi relazionali,
comunicativi e produttivi profilerarono codici, stravolgendosi,
caricandosi di precisione e immutabilità: la terra era ancora in larga
parte sottoposta all'uso comune della tribù, ma non era della tribù,
poiché la relazione diretta della tribù con la terra diventava indiretta a
causa della presenza e rappresentanza del re e dello stato. Il re assumeva
la garanzia sulle risorse, definendole e chiamandole, scrivendole e
catalogandole: lo stato fu fin da subito archivistica e geografia. Sotto
un altro aspetto e livello la terra rimaneva usufrutto comune esteso a
tutti i membri dei clan e dei lignaggi ma alcuni, partecipando alla
soggettività regale e statuale che comportava un impegno presso lo stato,
assumevano il privilegio di distribuirla e di usarne in maggior misura. I
clan esistevano ancora, con tutti i loro significati di schiatta,
parentela, relazioni interne, ma una parte di queste relazioni doveva
guardare e essere pensata a qualcosa di esterno, l'insieme degli altri
clan che, attraverso il re, si presentava in maniera uniforme,
indifferenziata e astratta, un insieme di organi, la demografia del regno
e dello stato. Gli assiomi etici, gli stili di comportamento, le
tradizioni e le attitudini si trasformarono, non rivoluzionandosi ma
stravolgendosi, ribaltandosi nella loro forza genetica, in norme morali.
La proprietà privata non è indispensabile allo stato e al monarca e alla
loro affermazione: è necessario il concetto di proprietà, di cio che è
proprio e non comune. Lo stato e il monarca fanno proprie (e non
privatizzano) le risorse economiche, soprattutto la terra, e sottopongono
i clan e i lignaggi, gli uomini, a questa diversificazione dell'immagine
delle risorse, li sottopongono a un codice di dominio. Pur spesso non
avendo o avendo pochissimi schiavi e servi le società statuali primitive e
primordiali sono società schiavistiche, nelle quali la servitù è una
condizione antropologica assolutamente normale: rappresenta, infatti, la
possibilità limite, la quintessenza, dell'espressione delle relazioni
asimmetriche protette e incentivate dallo stato.
Anche l'uomo libero e più tardi la proprietà agnatizia, la proprietà
privata, sono sottoposti alla normalità della condizione servile dove il
proprietario ha in usufrutto la terra dal monarca e dallo stato. La
fiscalità agricola che contraddistingue l'impero romano è il segno
tangibile di questa situazione giuridica: la proprietà privata è un
usufrutto ereditario. Solo con il feudalesimo, quando la proprietà
privata incorona letteralmentelo
stato e i beni della corona divengono i beni privati del re, si fa avanti
l'idea giuridica di una proprietà prediale piena, libera che discende dal
colmo della piramide per diffondersi nel corpo sociale e lo sviluppo delle
classi acquisisce una relazione davvero diretta con la proprietà e le sue
vicissitudini. Il feudalesimo fu un fenomeno moderno sotto il profilo dei
rapporti di produzione.
[91]
Tra stato classico e feudale esiste una netta contrapposizione sotto il
profilo della giurisprudenza relativa ai rapporti di produzione: nello
stato feudale la proprietà privata emerge come potenza sociale, capace di
definire e innervare i rapporti sociali, potenza che manca alla grande
proprietà dell'epoca classica. Legami e legacci alla proprietà permangono
ma sono legami e limiti posti sulla proprietà e non innervano la proprietà
e la sua essenza. C'è però un elemento di continuità per il quale il
sacro romano impero non ha usurpato il nome dell'impero classico: lo stato
feudale è tendenzialmente assoluto, eredita i caratteri accentratori dello
stato classico e, malgrado le contingenze storiche che in parte offuscano
questo carattere, con molto maggiore forza proprio in ragione della
necessità di controllare la nuova potenza dei rapporti di produzione.
Nello stato feudale il centralismo, che nello stato classico era
realizzato dall'alta burocrazia militare e amministrativa, viene
supportato direttamento dalla classe dei grandi proprietari,
dall'aristocrazia. Nello stato classico il ceto economicamente dominante
non era integrato nel governo dello stato, in quello feudale vi è invece
coincidenza tra i due elementi. Lo stato capitalistico è davvero, sotto
questo profilo, la sintesi dei due: rivaluta l'esperienza del governo
burocratico ma la sostiene con l'intervento diretto della classe egemone
economicamente.
[92]
Sotto altri profili una comparazione tra stato classico o primitivo, stato
feudale o moderno e stato capitalista o contemporaneo induce a scrivere
che il primo riproduceva e formalizzava le relazioni asimmetriche presenti
dentro le comunità, il secondo le assumeva in sè, rendendole costituenti
di sè, l'ultimo le formalizza, le assume e le rende perennemente
costituenti.
[93]
Il linguaggio ha perduto il suo valore oggettivo e non si può parlare in
una stessa nazione o città di omologia di linguaggi. Ogni individuo sembra
dominato da un suo codice comunicativo, da un significato che imprime alle
parole, alle impressioni e ai concetti.
[94]
I linguaggi hanno assunto un'estrema libertà, questa libertà è
diversificazione; pensiamo al linguaggio di un parlamentare e di una
femminista, di un coatto nella curva dello stadio e all'operaio nella
fabbrica. Ognuno sente legittimo, ha assunto la legittimità, di esplorarsi
e di esplorare gli altri e di esprimere questa esplorazione. Il problema
sta nel fatto che la diversificazione ha sciolto il terreno oggettivo del
linguaggio, l'elemento unificante, per cui tutta questa libertà,
diversificazione, produzione di oggettività specifiche e individuali,
determina il suo contrario: il crollo del linguaggio e della circolazione
comunicativa verso il silenzio. Le distinzioni, inoltre, che passavano tra
classi e gruppi sociali sono, sotto il profilo del linguaggio, cadute e le
distinzioni si sono estese, ramificandosi, creando gerghi e sotto gerghi,
quello del coatto che va allo stadio e quello del coatto che sta in
quartiere, ad esempio, che spesso neppure si assomigliano. Siamo di fronte
e sperimentiamo la possibilità di un'incredibile libertà che, però, ci
condanna all'isolamento e alla solitudine; da una parte abbiamo acquisito
o riacquisito l'audacia nel sentire ed esplorare ma dall'altra
abbiamo finito per percepire, alla fine di questo nuovo sentire, il mondo
come libero scorrimento, vortice instabile. È anche vero che lo stesso
aspetto del mondo di oggi, come continua e repentina trasformazione,
spiazzamento, ci induce a essere audaci con noi stessi e quindi a
sotterrare il valore oggettivo del linguaggio e a lanciarci
nell'esplorazione libera e diversificata.
[95]
Tutti i linguaggi non hanno più un significato comune e univoco, ma solo
delle analogie, qualcosa di simile alla scrittura che è comune e alla
lettura che è particolare. Il sistema sociale attuale ha tra i suoi scopi
principali, vitale direi, quello di creare codici significativi, catene di
significati, ai quali sono assolutamente indifferenti i significanti che
verranno usati per rappresentarli. La relazione tra significato e
significante non è fondamentale. Un'operazione finanziaria ha significato,
è un significato, in sè, insieme con tutta la catena di significati
conseguenti che si porta dietro e determina: profitto, investimenti e via
discorrendo. Questi saranno i suoi significati minimi ai quali possono
essere associati moltissimi significanti, a seconda del linguaggio che
usiamo (speculazione, accaparramento, sfruttamento, tesaurizzazione,
privatizzazione etc. etc.). Mancano le relazioni oggettive, perchè il
significato si libera dalla relazione con il significante, poiché il
significato si giustifica da sè medesimo. Si ha un'estrema libertà nei
codici comunicativi ma un'assenza di una formalizzazione dei loro
significanti. Questo significa che questa libertà è apparente, perché il
significato si riduce a sè stesso e come tale è chiuso in sè,
inspiegabile, in una parola dittatoriale e trascendente, tutto il
contrario di libero. C'è alla fine un solo modo di chiamare le cose e una
solo maniera di chiamarle, ma dentro una babele di linguaggi e di
significanti ininfluenti al significato.
[96]
Il significato di un'operazione finanziaria ha gradienze infinite, è
formata da dati finanziari che possono cambiare di continuo e
continuamente introdurre nuovi significati, un po' come per la frase "sono
felice".
[97]
Si prospetta una guerra, aperta: da una parte processi altri e
indipendenti, liberi, codici empre più diversificati, dall'altra processi
di accentramento del capitalismo e dello stato, ma soprattutto dello
stato. Lo stato oggi garantisce il controllo militare non tanto per
esercitare la guerra ma produrre messaggi di guerra potenziale contro i
proletari, per esibire la guerra. Si è giunti in un vicolo psicotico, nel
quale è una scissione tra una macchina economica che è creatrice di merci
e che è merce essa stessa, in ogni sua componente, che non ha bisogno di
una struttura connettiva perchè è essa stessa il tessuto connettivo, e
questo è il capitalismo contemporaneo, e una macchina sovraeconomica,
politica, torturante, che ha preso in ostaggio, la usa e codifica la
macchina economica, la rallenta e frena. La dimensione della guerra salva
la macchina politica e le ridona giustificazione.
[98]
Quello che si prospetta è una stato assoluto, lo stato assoluto della
borghesia, che non è assolutamente pacifico per la borghesia come non lo
fu quello di Luigi XIV per gli aristocratici. Questo stato può meglio
dire, rispetto a re Sole: "Lo stato sono io, Dio sono io e nient'altro è
al di fuori di me". Uno stato assolutizzante la realtà, attraverso quello
lo realtà si separa da sè stessa, anche quella che cerca di preservare e
difendere dagli attacchi; questi attacchi, infatti, sono interni alla
realtà che cerca di difendere e preservare, il sistema economico non
conosce esterni, e il vero rischio è il suo sviluppo. Perchè questo
sviluppo continui a essere capitalistico deve privarsi di molti elementi
del sistema capitalistico, deve privarsi della logica stessa dello
sviluppo: perché la merce e il mercato continuino a essere delle relazioni
sociali dominanti devono per alcuni aspetti perdere alcune caratteristiche
della merce e del mercato. Questo stato, che istituisce l'intelligenza
collettiva della borghesia, ben rappresentata dal suo anonimato
finanziario, fa i conti con la realtà che assolutizza, che separa da sè
medesima, e proprio perchè organizza
la borghesia e non l'aristocrazia del XVI secolo, è un'entità
polimorfa, capace di seguire lo sviluppo, un camaleonte, attento a ogni
momento di crisi nello sviluppo. Lo stato attuale ha due sguardi: uno
volto verso lo sviluppo e il sistema sociale e uno volto verso sè stesso,
in una continua comparazione. Questo sguardo richiede il puro dominio e
come tale è incontrollabile, non deve subire controlli: costitutivamente
lo stato dell'attualità e quello che si prospetta sarà uno stato sempre
meno democratico e sempre più autoritario. Se, però, il dominio risulta
sempre meno controllabile, anche il processo che il dominio assolutizza lo
sarà e così i gruppi sociali e le classi che si formano e si formeranno:
lo sviluppo, guidato dall'intelligenza collettiva della borghesia, sarà
sempre più vorticoso ma ricondotto a un unico linguaggio, determinerà
l'esplosione di linguaggi ricondotti a un unico linguaggio assolutizzato e
incontrollabile e quindi fittizio, una tale babele dove, a un certo punto,
non si saprà quale sarà il linguaggio fondante del sistema economico e
sociale e alla fine, ancora una volta, solo la potenza militare, la guerra
esercitata o esibita sarà decisiva, per rappresentare la necessità dello
stato.
[99]
Il significato del mondo è la creazione di sè stesso. Il significato crea
significato e così facendo trova il suo significato che è interno e non ha
esterni. Lo stato e il capitalismo, oggi, sono l'esatta imitazione del
mondo: il capitalismo produce produzione mentre lo stato produce dominio
sulla produzione. La funzione dello stato, un tempo,è stata quella di
creare potere ma anche di creare società, cioè di costruire dei referenti
sociali con i quali costituirsi e questo ancora agli albori del
capitalismo: l'esistenza dello stato era la condizione indispensabile per
lo sviluppo della società capitalistica, per la sua deghettizzazione
dall'alveo dei rapporti sociali feudali. Una volta, però, deghettizzata,
l'economia capitalistica ha preteso dallo stato di più di quanto non
richiedessero allo stato il feudalesimo e la proprietà feudale: non solo
di cambiare i referenti per la sua struttura ma soprattutto di cambiare
istituzioni, forme di rappresentanza e di esercizio di potere. La
borghesia ha chiesto allo stato di rappresentare in maniera puntuale la
società e dunque di fare politica nel senso moderno del termine.
Oggi, però, la società capitalistica, la macchina sociale ed economica, è
arrivata a un tale livello di sviluppo da porsi in contrasto con le stesse
leggi che ne regolano lo sviluppo: la macchina stessa è diventata sviluppo
ed ha perso i suoi meccanismi e il suo corpo. Lo stato, allora, non può
più produrre società (come faceva nell'epoca classica, durante il
feudalesimo e nella prima fase del capitalismo) perchè gli spazi per la
produzione della società sono completamente in mano al capitalismo come
movimento sociale ed economico, perchè, in una frase, la società è già
stata prodotta tutta.
La macchina economica e sociale, coinvolgendosi interamente nella
produzione, marcia contro i suoi stessi presupposti e quindi anche contro
lo stato; lo stato, allora, può solo svilupparsi in ragione del controllo
della macchina, fare in modo che quella macchina sia ancora macchina e
abbia degli agganci per l'azione, per l'ingranaggio, statale. Il lavoro
dello stato cessa di essere rappresentanza e diventa quello di dominio,
anche sulla macchina economica e sociale.
Oggi lo stato è puro, chimicamente puro, dominio di classe
sull'organizzazione sociale, senza che si riconosca neppure la classe che
domina. Lo stato assoluto borghese non può dialettizzarsi con la realtà,
ma può solo astrarla e assolutizzarla, separarla da sè medesima, la classe
dei capitalisti coincide con lo stato e lo stato si fà società, ma
entrambe le cose avvengono solo in funzione del controllo e non più, come
prima, della creazione di significati e di segmenti sociali. Lo stato
capitalistico diviene, separandosi dai suoi presupposti originari,
astratto e assoluto in forme nuove: si fa essenza di tutte le
tendenze stataliste della storia, stato degli stati, e anche ultimo
degli stati dopo di quello non un nuovo stato ma un superamento dello
stato.
[100]
Il nostro grande nemico è dunque lo stato? Certo lo stato è uno dei grandi
nemici, ma considerarlo 'il grande' è fare nostra la frase: "Non avrai
nulla al di fuori di me" che lo stato continua a recitare a tutta la
macchina sociale ed economica. Ma in realtà lo stato è 'grande' solo per
il potere che la macchina economica e sociale fa scendere in lui, gli
concede per timore di dissolversi attraverso il suo progresso.
Esiste oggi ancora un terreno dialettico in senso tradizionale che imposta
la relazione tra dominati e dominatori, il vecchio e ancora attuale
concetto di sfruttamento. Non esiste più, invece, una dialettica presente
- futuro o meglio stato di cose presenti / stato di cose future, una
situazione che vive nel presente sulla quale elaborare una situazione
futura, per il semplice fatto che lo stato degli stati non lascia
alla macchina sociale ed economica nessuno
spazio di immaginazione se non in senso negativo, di distruzione
dello stato (sia di parte capitalistica che proletaria, sia di parte
liberista che rivoluzionaria). Esisterà uno stato post - capitalistico?
Esisterà una politica negativa dello stato onnicomprensivo e totalizzante
del capitale che non condurrà alla fine del capitalismo?
[101]
Dopo la fine dei terreni inesplorati, conosciuti, dopo la fine del nuovo,
interessa riscoprire il vecchio, piuttosto che accettare la fine della
possibilità di avventura.
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