pensieri sotto banco (1983)


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La crisi economica è un mezzo, squisito, per coinvolgere ogni individuo nella coscienza della unicità della società. La catastrofe dell'economia si presenta come la catastrofe universale, la fine del mondo. La crisi finisce per essere percepita come una calamità universale e cosmica, davanti alla quale gli individui possono solo prostrarsi e piangere. La crisi economica della contemporaneità non conosce ramificazioni, gradienze e articolazioni ma è un fenomeno uguale per tutti, omogeneo ed egualitario, è un fatto biologico, che attenta alla vita dell'individuo. La crisi economica è uno strumento di semplice e squisito dominio sociale.

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Il catastrofismo che accompagna la crisi economica è un'ideazione del potere che non può che essere un potere mondiale, perché la crisi economica contemporanea si presenta come fatto mondiale; il potere mondiale, attraverso l'ideologia del catastrofismo della crisi, trova un'arma per evocare la necessità di adesione mistica a sè medesimo da parte degli individui.

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I rivoluzionari che non riescono a comprendere questo nuovo carattere della crisi economica si rendono involontariamente partecipi della sua ideologia, urlando e imprecando contro la crisi economica come se fosse davvero e solo una crisi economica e non una immensa trappola ideologica.

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È singolare ma interessante l'analogia che si può descrivere tra le società classiche e quella contemporanea. Da una parte il primato delle città con i proletari impiegati in lavori saltuari e precari nelle botteghe artigiane, città pressate da una crisi economica che si ingigantisce e alimenta lungo i secoli, assomiglia molto al primato attuale. Da un'altra parte una grande massa di manodopera servile che è occupata nelle grandi industrie estrattive, boschive e agricole di diretta proprietà statale (pubblico demanio) e l'emergere del ruolo capitalistico dello stato, anche qui sono notevoli le assonanze. Infine i grandi proprietari terrieri che, con la loro concorrenza, provocano la rovina della piccola e media proprietà contadina, trasformandola in un esercito di braccianti o affittuari (coloni) o determinandone l'inurbamento. Lo stato imperiale si pose come effettore (colui che faceva in modo che potesse verificarsi, organizzandone il contesto) e mediatore, al contempo articolatissimo e intangibile, di questi percorsi economici e sociali. Lo stato si appropriò dell'industria estrattiva e di quella bellica, si fece responsabile e protagonista del controllo delle masse proletarie urbane (i collegia) e del controllo dei contadini delle province, dotandosi di eccellenti organismi politici locali, quasi sempre affidati alla locale emanazione del latifondo, ma sempre supervisionati da rappresentanti di altre classi e gruppi sociali. Lo stato classico, inoltre, non conobbe istituzioni geografiche intermedie e fu caratterizzato da un governo centrale e una miriade di istituzioni locali, poste tra di loro in maniera orizzontale, prive di un formale coordinamento, struttura verso la quale si sta muovendo lo stato contemporaneo. Lo stato imperiale fu l'artefice e non l'esecutore materiale dei suoi provvedimenti: le corporazioni e le decurie municipali agiranno per lui e in suo nome. In questo senso l'imperum intese sè stesso come un comando supremo che, però, originava dal popolo dei cittadini.
Lo stato attuale sta imparando la lezione dei romani: non si incarica o si incarica sempre meno delle sue funzioni ma le delega a strutture costituzionalmente autonome da lui: partiti politici (nel caso italiano è emblematica questa delega), sindacati (qui la logica della delega si estende a quasi tutta l'Europa) e, soprattutto, organismi locali rappresentativi che, spesso, sono rappresentati e formati da 'pezzi' di partiti o sindacati, ma anche da enti locali (comuni, province e regioni) che vengono donati di nuove attribuzioni, competenze e responsabilità finanziarie. Attraverso queste strutture di base del potere lo stato centrale si articola maggiormente nella società non articolandosi compiutamente e costitutivamente, nello stesso tempo, secondo un parallelismo che non è affatto casuale, si allarga il ceto proletario saltuario sotto il profilo del lavoro, perché se fino agli anni sessanta, almeno in Europa, lo stato, interventista diretto sull'economia e le realtà decentrate, aveva garantito la classe operaia dalla concorrenza delle macchine e della tecnologia (welfare keynesiano), non fermandone lo sviluppo e il progresso ma frenandone gli effetti sociali, ora abdica a questo suo ruolo. La concorrenza tra proletari e macchina diviene diretta e frontale e inevitabilmente il lavoro si devalorizza e perde stabilità sociale ed economica.
Riprendendo anche su questo versante sociologico l'analogia tra classicità e contemporaneità, possiamo disegnare una riproposizione nella nostra modernità di una società socialmente schiavista ma priva di rapporti di produzione servili, cioè priva della condicio sine qua non della servitù ma nella quale le forme di sfruttamento della manodopera si estendono e accarezzano forme servili: l'innalzarsi della potenza delle macchine nella produzione, infatti, distrugge la tradizionale stabilità e valore della classe operaia, costringendola a una marginalità dentro la produzione e questa marginalità produce interscambiabilità estrema nelle mansioni operaie, interscambiabilità che caratterizzava il contesto servile della classicità.

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Se si sta costituendo un elemento sociale di questo tipo, precario e saltuario sul lavoro e anche nella vita, allora possiamo anche anticipare i suoi comportamenti a partire dagli esempi concreti che nella storia delle lotte sociali si sono avuti finora. Questo nuovo soggetto proletario identificherà solo nella rivolta volta alla diretta soddisfazione di qualche bisogno immediato la sua pratica e scopo, conoscerà in quella la sua espressione politica, l'unica che gli verrà concessa, poichè questo soggetto sarà proletariato del tutto estraneo all'organizzazione produttiva e che è capace di garantire solo in sè e attraverso di sè embrioni di espressione organizzata nella produzione e di conseguenza nella politica. Devo ipotizzare che questa espressione sarà disorganizzata, priva di organizzazione per scelta, spontanea, quindi, ma del tutto dipendente dalle difficoltà materiali e incapace di assumere valenze ideologiche e politiche 'alte'. Lo sviluppo economico della società della crisi economica catastrofica e del potere mondiale, del decentramento degli stati centralizzati e della loro abdicazione, favorivà forme improvvise e spontanee di lotte determinate a scontrarsi frontalmente con lo stato per poi cessare immediatamente. Ipotizzo una disgregazione e scomposizione sociale e politica che non prevede orizzonti di ricomposizione e aggregazione tra i diversi settori della precarietà proletaria.

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A fronte di questa disgregazione e scomposizione della classe operaia tradizionale e massificata, lo stato e il dominio capitalista acquisisce grandi e insperate fino a solo un lustro fa possibilità di controllare l'andamento del conflitto sociale e in genere le dinamiche sociali, soprattutto nella misura in cui nel resto dell'organizzazione sociale (la classe operaia garantita e aristocratica, il ceto impiegatizio e la classe media) le contraddizioni sono tenute sotto controllo e in questo il sindacato e il suo corporativismo si rivelano alleati preziosi.

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È davvero difficile prevedere il destino politico di questo nuovo proletariato saltuario e precario socialmente poichè questo nuovo soggetto, per genesi e natura, non è coinvolgibile in un progetto politico mediatore e riformista, in quanto pensato come 'parte attiva' di quello, e al massimo, ma quasi al limite delle potenzialità storiche, come oggetto, 'massa di manovra' di un disegno di riforma sociale. D'altra parte non è affatto facile che questo nuovo soggetto elabori  dal suo interno, indipendentemente, prospettive politiche e dimensioni ideologiche perché non ha gli strumenti necessari per farlo: un terreno di comunicazione sociale e produttiva e un'omogeneità che non sia quella determinata dal rincoglionimento massmediatico quotidiano.

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Il destino del capitale, invece, potrebbe essere quello di produrre divertimenti, effimero, macabro e crudo, falsità reale da proporre al sociale, anzi di ridurre l'idea del sociale al suo consumo e l'idea della produzione a questa produzione.

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Ipotizzo grandi città ribollenti di proletari impoveriti e inebetiti da divertimenti sempre più raffinati e coinvolgenti, che vengono promossi in maniera sempre più articolata, sistematica e organizzata; questi proletari si disperderanno senza obiettivi lavorativi ritualizzati e massificati nel tessuto urbano. Immagino grandi centri produttivi computerizzati, dove il lavoro vivo non avrà quasi ruolo e questo non significherà libertà dal lavoro ma lavoro a turno per tutti e salario ridotto in relazione ai turni ridotti e quindi fame e penuria per tutti.

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La corsa agli armamenti nucleari è stata ed è ancora di più oggi una misura preventiva, previsionale, contro questo nuovo strato sociale a salario, lavoro e reddito ridotto e precario. La sua mobilitazione in una guerra è necessaria per sfoltirne le esuberanze psicologiche e indirizzarle verso il nazionalismo. Il nazionalismo assume veste nuova diventando non solo una delle tradizionali forme per catalizzare in forma controllata le tensioni sociali ma per concentrare sulla grande paura verso la catastrofe mondiale, che fa il paio con l'ideologia della crisi economica mondiale e totale, ogni aspettativa verso il futuro, per eliminare un senso del futuro alternativo al presente. Il futuro cessa di esistere.

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Alcuni dicono 'nessun futuro'; lo hanno detto anche i punk e i sex pistols. Hanno colto il segno: il futuro nel senso tradizionale del termine non esiste più.

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L'azione della crisi economica mondiale appare vivace ed efficace nelle sue espressioni sociali, nella sua capacità di coinvolgere e influenzare la società nel suo complesso. La crisi economica odierna fa vivere la crisi ad ognuno, anche a colui che non è coinvolto direttamente nei suoi effetti. Si afferma con la crisi una nuova cultura, che chiamerei cultura della decadenza e del disfacimento; questa nuova cultura penetra come un potente farmaco a diffusione rapida e capillare sulle componenti fresche e da poco generate nel tessuto sociale. È giusto difendersi dal raffreddore, perché si tratterebbe al momento solo di un raffreddore socio - politico, ma non è giusto eliminare l'aria per annullare il rischio del raffreddore, eliminare il naso per evitare il raffreddore. Il nuovo potere mondiale e il capitalismo danno l'impressione di volersi comportare così e cioé di voler evitare non solo il rischio di una trasformazione sociale radicale e rivoluzionaria (rischio che allo stato attuale delle cose non esiste proprio) ma anche di puntare all'annullamento anche della semplice evoluzione dentro le compatibilità del sistema che una normale dialettica sociale comporta. Il nuovo capitalismo non intende progettare trasformazioni che generino dall'esterno dei suoi bisogni, da soggetti estranei al dominio e basta. La  forma di stato che si delinea è quella di uno stato assolutista.
Non si può dire, però, che questa sia un'autentica rottura con il passato quanto se mai la continuità di una tendenza verso la formazione di uno stato assolutista che oggi si catalizza. La propositività non è mai stata, nella storia, la dote caratterizzante il potere, che ha sempre agito e si è riprodotto in regime di reattività alle sollecitazioni altrui, estranee. Il potere potrebbe essere dipinto come una barca alla deriva di potenti correnti e la sua unica speranza è quella di non sfasciarsi definitivamente contro le secche o gli scogli della costa; la speranza dell'umanità, al contrario, è proprio nella tempesta.
Se, infatti, le cose continueranno ad andare avanti come sono andate fino ad adesso, tra piccole tempeste e forti correnti che mai hanno messo in discussione la sopravvivenza della barca ma, al massimo, la sua integrità in qualche punto, allora l'unico esito possibile sarà la demolizione psichica e anche fisica, biologica, dell'esterno al potere, al complesso di poteri alti e bassi che strutturano lo stato contemporaneo. Lo stato odia l'esterno a sè, detesta il non - potere, tutto ciò che si manifesta secondo un'altra organizzazione dalla sua. L'umanità si trova davanti a un semplice bivio che non è socialismo o barbarie ma qualcosa di drastico: suicidio o post - capitalismo.

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Certamente questi pensieri potrebbero essere il prodotto della crisi, un prodotto storico e storicizzabile, e, quindi, la catastrofe percepita come imminente, fatale e totale (la scomparsa di un mondo, quello operaio, e di una cultura, quella rivoluzionaria in arte, politica e storia) mi costringono a vedere una one way out, una strada a senso unico, priva di riformismo, dialettica e rivolta verso una sola direzione: la fine dell'umanità per come l'abbiamo conosciuta, la fine dell'uomo. Il pensiero rivoluzionario è sempre stato dialettico e ha trovato nel riformismo una sponda ideologica, un basamento, una maniera per dire: si può ottenere quello e quindi possiamo ottenere ancora più di quello, possiamo ottenere tutto. Questo meccanismo oggi non funziona più, non c'è proprio più il meccanismo. Spero, con tutto il cuore, che questo modo di pensare sia solo il prodotto dell'attuale contingenza storica, anche se ho forti dubbi in materia.

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La ragione è la mia unica difesa. Il fine ultimo dell'umanità non è stato sempre quello di difendersi e di cambiare in ragione di questo scopo?

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Quello che pensa è quello che rimane di veramente bello e intelligente di un uomo, qualsiasi cosa pensi. Questo si traduce anche in una sensazione perché il pensiero è capace di sopperire a ogni mancanza. È strano, però, come la più ferrea attività logica, strettamente razionale, alberghi nelle personalità sicure di sè medesime, aggressive, personalità fotografiche, che amano e sono naturalmente portate a fotografare la realtà, separandosi da quella e facendone un'immagine sulla quale lavorare intellettualmente. Al contrario, una notevole intuitività, un procedere per legami analogici  tra i pensieri è propria delle personalità timide e introverse.
Sono banali ma arguti i primi, audaci e sostanziali i secondi. Io sono stato in tempi diversi entrambe le cose, ma ora, dolorosamente, mi trovo a essere le due cose insieme, a viverle come si dice. Si tratta di due sistemi psichici assolutamente diversi che non possono convivere pacificamente, proprio un po' come i sistemi sociali alternativi (penso al feudalesimo e al capitalismo), che si scontrano tra di loro, non solo e non tanto frontalmente, quanto, cosa che produce effetti molecolari, in ogni loro più infima articolazione.
Ovviamente sono consapevole di questo scontro e prendo parte alla lotta, non sono affatto uno spettatore passivo della lotta e non potrei esserlo; pensare significa precisamente questo: pensare anche il pensare. Pensare il pensare è temerario ma inevitabile, mina le radici del pensiero ma non può fare a meno di minarle affinché il pensiero rimanga tale e non una vuota formalità adatta a farci dire: "io sono un essere umano". Il pensiero che ragiona su sè medesimo prende parte naturalmente a favore della componente fotografica della personalità e inorridisce all'idea che la componente intuitiva e analogica domini la mente. La componente intuitiva e analogica è, però, naturale e immediata, connaturata all'uomo, quasi un trattino d'unione con il resto del mondo animale.
La tendenza verso l'intuizione e l'analogia è tanto radicata che da entrambe le parti della personalità si giunge a una specie di patto: si nega l'antitesi tra logica e intuizione e a costruire quella che può essere detta un'ideologia: la lotta interiore non esiste, non è vera, è solo il frutto di un'illusione. E se davvero fosse il frutto di un'illusione?

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Le pagine aperte di questa agenda sulla quale scrivo sono spesso in me. L'agenda diventa un libro e questo significa che il pensiero deve trovare uno strumento attraverso il quale concentrarsi.

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Una volta che un uomo abbia raggiunta la piena soddisfazione materiale, o meglio la maggior possibile soddisfazione materiale, intendo dire che sia inebetito (anche l'ebetudine è soddisfazione), abbia fatto l'amore (anche l'orgasmo è soddisfazione) o si sia cibato abbondantemente, e che abbia la sufficiente certezza che nel futuro queste cose continueranno a ripetersi, avendo messo su famiglia e possedendo un tranquillo reddito da lavoro, che altro può chiedere? Teoricamente più nulla. Ma gli rimane l'amaro nell'animo perché sà di aver raggiunto i suoi limiti naturali, i suoi limiti animali, sà di essere limitato, sà di non essere Dio in modo inequivocabile. Da questo punto di vista la polemica cristiana contro il bene effimero della vita è anche giusta, ha un fondo di verità.

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La piena felicità è irraggiungibile per definizione. Ancora di più, quindi, ci devono far ridere i profeti dei paradisi futuri e ultramondani. La sofferenza è connaturata all'animo umano, anche nel paradiso che immaginano i profeti.

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Le lacrime, gli sforzi e in genere le preoccupazioni umane sono inutili ma necessarie. La civiltà che si fonda sulla loro organizzazione è davvero un mostro di illusioni. Non ci sono che vie di fuga parziali e monche al dolore ma che è stupido non utilizzare: le uniche vie di fuga che io riesco a riconoscere stanno nella trasformazione sociale, nella trasformazione della civiltà in modo che cessi di essere organizzazione di un'illusione. Nella civiltà trasformata, nella nuova civiltà, gli uomini dovranno, quantomeno, avere piena e serena consapevolezza della loro limitatezza, essi saranno dei coraggiosi che hanno cessato di nascondersi a loro stessi.

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Spesso, dopo l'Iran e la sua rivoluzione, mi sono trovato da ateo a invocare Allah misericordioso perché mi spiegasse il significato di questa trasformazione genetica che il capitalismo e il potere stanno subendo. Allah era l'unico possibile destinatario di questa mia richiesta, l'unica nota stonata dentro la restaurazione mondiale, dopo gli anni settanta; era affascinante la semplicità del messaggio storico dell'islam: armarsi per redimersi. Si scopre facilmente, però, che queste invocazioni fanno parte integrante della vita, quando questa è assoggettata e sovradeterminata, e ce la svuotano come qualsiasi altra operazione di potere, che punta a lasciarci privi di energie autentiche, concedendone solo illusorie, presto, tra le altre cose, cancellate. Non esiste nessun codice divino, trascendente, posto al di fuori dell'immanenza e del sociale, capace di generare e accogliere energie autentiche. Rimane allora una sorta di penombra dell'animo e del pensiero, una strana attesa del futuro, quasi esistesse il destino.

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I sentimenti di resistenza si ingrossano sempre di più. Resistenza come nostalgia del passato, come testimonianza di un periodo di attacco al potere ormai finito.

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I rapinatori conoscono e stabiliscono l'esatto prezzo della vita umana e sono spudoratamente sereni in quello. A buona ragione: è il loro mestiere.

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Testardi e cocciuti sono coloro che, ancora oggi, spesso sotto mentite spoglie, con abiti rinnovati, continuano a sottintendere la necessità di organizzazione comunista, facendolo partendo da considerazioni squisitamente resistenziali e testimoniali. Dopo aver affermato che la fase è del tutto nuova, che l'operaio massa ha fatto posto all'operaio sociale, che il dominio e il comando del capitale sono radicalmente cambiati, dopo aver fatto il verso di essersi informati della novità e di averla accettata, poi ripropongono, con vestito nuovo e sotto mentite spoglie, una specie di partito, che non può che essere una specie, un'imitazione di qualcosa precedente, che era stato adeguato ma ora non lo è, irreversibilmente, più.
Costoro mancano, proprio come ogni testardo e cocciuto, della capacità di essere elastici e di aprirsi alla nuova era, l'era della seconda rivoluzione tecnologica, che sta chiudendo con l'epoca della civiltà neolitica, che sta costituendo un nuovo universo capitalista e statuale, e sono costantemente con il volto piegato all'indietro, al loro occultamente amato "cio che è stato, ciò che è successo". I testardi e i cocciuti non hanno capacità di indagare, perché non desiderano indagare, perché questo desiderio entrerebbe in contraddizione con la loro fittizia e ben protetta idea di realtà e di presente (fittizia proprio perché ben protetta), perchè in verità temono il presente e quello che presenta loro. I cocciuti e i testardi propongono per il futuro l'evoluzione del passato che salti il presente, che faccia in modo che il presente non esista e non sia mai esistito. Non importa che anche a un bambino apparirebbe chiaro che un'ipotesi rivoluzionaria così costruita sarebbe semplicemente idiota, perchè quello che conta è il mantenimento di testardaggine e cocciutaggine come garanzia del mantenimento di sè. Ideologia e organizzazione, non importa quale organizzazione mentre l'ideologia rimane congelata e cristallizzata negli anni settanta, seppur riverniciata con colori presi in questo decennio, sono i cardini di questa operazione che è basata sul ricordo, sulla memoria e i vecchi schemi, inadeguati rispetto all'attualità, sono ricostruiti, sempre sotto mentite spoglie (perché si sono fatte letture aggiornate). Così ci si comporta (mi si perdoni l'anacronismo) da biechi controrivoluzionari, togliendo aria, ossigeno e intelligenza alla rivoluzione, rinchiudendola di nuovo nella setta dei perduti della storia. E pensare che questa sconfitta e la restaurazione complessiva, totale, che contraddistingue questi anni è occasione di ricostruzione e, paradossalmente, di ripensamenti notevoli e di un nuovo orizzonte di pensiero liberato.

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I testardi e cocciuti si mettono sul terreno del conflitto, sbagliando il terreno dello scontro e le armi. Lo scontro si è spostato al di fuori del mondo della produzione ed è passato a quello della riproduzione, ma non ci si può comportare di fronte alla riproduzione come davanti ai soggetti della produzione; i testardi e i cocciuti fanno questo e porteranno con ciò alla rovina anche il territorio resistenziale e testimoniale nel quale si sono barricati. Si trovano a brandire delle lance e delle spade mentre il nuovo potere usa i carri armati.
La scelta rimane, così, come se esistesse ancora il traino dell'operaio massa, quello dello scontro a ogni costo, della lotta di strada dove possibile, della testimonianza plateale, spesso il dare voce ai soggetti più arrabbiati, sole perché arrabbiati, facendo una sorta di elogio alla rabbia (degli stadi, delle carceri e di alcune periferie), senza esplorare le motivazioni della rabbia e sopratutto quelle dell'assenza di rabbia, della rassegnazione che oggi è assolutamente egemone.
Quando uno sceglie una guerra stupida e una guerra stupida è quella che è persa in partenza, lavora, consapevolmente o no, per l'accettazione della superiorità del nemico e per la sua legittimazione: il nemico diventa un'entità, inevitabilmente, invincibile, anche se, ovviamente, ne viene denunciata l'ingiustizia e la crudeltà. Alla fine di questa strada senza alcuno sbocco rivoluzionario è, non dichiarata, la soluzione trasformista, una graduale deriva verso l'incorporazione in alcuni segmenti del vincitore, oppure l'occultamento, il nascondersi silenzioso e catacombale in un rito chiuso, che segna un piccolo territorio privo di riferimenti con altri territori. Le possibilità di partecipare in maniera critica e di comprendere l'evoluzione sociale ed economica in atto è perduta e le lance, alla fine, si spezzano.

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Un carattere dei tempi contemporanei che viene generalmente considerato da tutti i testardi e cocciuti e da buona parte dei rivoluzionari residuali negativo, vale a dire la disgregazione dell'esperienza organizzativa comunista degli anni sessanta e settanta, e in generale la crisi delle ideologie è, invece, davvero positivo. Le due crisi ci indicano nuovi sentieri di liberazione, nuove forme di critica e rivolta, e soprattutto quello che il proletariato è in questa nuova epoca. Perché le ideologie politiche non dovrebbero essere definitivamente superate in forza delle trasformazioni nei rapporti di produzione come lo furono le ideologie religiose quattro secoli fa? Daltronde non eravamo noi comunisti rivoluzionari ad affermare e praticare l'idea secondo la quale l'ideologia è sempre e in ogni caso (anche il nostro) una falsa coscienza della realtà?

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I testardi e i cocciuti, legati come a un padre edipico (pare davvero il caso di scomodare Freud), al loro bagaglio ideologico e organizzativo fingono due cose: di non esserci legati e di essersene emancipati e che, alla fine, la trasformazione in atto non sia reale, che la crisi economica non sia strutturale ma passeggera e che la nostra epoca ritornerà sui suoi passi. Vivono nella negazione del presente come i cristiani integralisti e come i cristiani storici, vivono nella speranza e di speranza che non è vita, ma attesa, anche se questa attesa si percepisce come prodotto di un'analisi scientifica della realtà. In loro, dentro il loro modo di sentire, il comunismo è solo una speranza giustificata scientificamente (che è una contraddizione in termini) e quel che è peggio questa speranza va ad ogni costo praticata: diventa uno stile di vita, una virtù testimoniale e una scelta quasi monastica. Al di fuori di questo stile di vita e modo di sentire, il comunismo non può essere possibile e non si può essere comunisti cosicchè il comunismo non è il mondo della novità che si sviluppa sulle novità, anche scomode, offerte dal presente, ma è un museo e un monastero.

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Quando l'organizzazione viene immaginata come entità di resistenza alla società presente, in una sorta di concorrenza con il presente sociale e politico, solo un elemento rimane come costituivo di quell'organizzazione: la coazione all'ordine e all'ubbidienza, realizzata attraverso svariati strumenti, quasi tutti non politici o che, al massimo, intendono trovare una giustificazione nel politico. Promotori di questa coazione sono quelli più legati alle esperienze politiche passate, perché incapaci di rompere questo legame 'edipico', (altresì dette 'maggiori esperienze politiche', con una mistificazione notevole della verità su loro stessi) ma non tutti, solo quelli che hanno più chiara la natura della loro organizzazione e che dunque hanno anche sviluppato una certa 'auto - analisi' in materia, e
conseguentemente si legittimano  nel diritto ad usarla come una specie di 'proprietà privata'. L'uso privatistico delle residue strutture organizzative resitenziali e testimoniali comporta anche la pretesa di selezionare le esperienze proletarie e solitamente la tendenza a difendersi dal presente proletario, percepito come inadeguato e informe.
Mancando l'elemento proletario, ovverossia il contributo esterno all'analisi, l'analisi rimane formale e abbozzata, sostanzialmente ferma e di converso fortissima è la tendenza a valorizzare la purezza ideologica del gruppo. Quindi ordine, ubbedienza e purezza ideologica. Ogni infrazione analitica diviene immediatamente messa in discussione dell'ordine, disubbidienza e deviazione ideologica, impurità. Fondamentale diviene il controllo del tempo dei militanti, cioè del lavoro che si svolge nella struttura dell'organizzazione, per piccola che sia. L'organizzazione si comporta, allora, come qualunque altra realtà imprenditoriale con una politica dei 'premi', della ordinaria amministrazione e degli investimenti. Compaiono gli straordinari (gli sforzi) che devono essere controllati, ogni straordinario non approvato, ogni sforzo spontaneo, ogni interesse autonomo viene guardato con sospetto, prima come spreco di risorse poi come occasione di una possibile deviazione organizzativa e ideologica. La negazione del presente, cioè il modo di non vivere le contraddizioni del presente, di non guardare in faccia la propria vita, di non parlarne mai, neanche per errore, all'interno del gruppo organizzato, e naturalmente di guardare alle esperienze degli altri proletari informa ogni militante. Si tratta di una scelta lavorativa e ogni scelta lavorativa significa proprio questo: il lavoro è lo strumento più raffinato di estraniazione da sè stessi o no?. Cosicché il lavoro politico diviene riproduzione del lavoro salariato, lo strumento per essere definitivamente al di fuori del presente.

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Il proletario che oggi si avvicina (ma sono pochissimi) all'organizzazione comunista e che lo fa a partire dal presente, dal suo presente e dal desiderio di cambiare la sua vita, si trova costretto a rinunciare a questa parte fondamentale di sè. Solitamente giunge speranzoso e un po' goffo e viene accettato, tatticamente, per la sua speranza e ingenuità, che viene lodata ma annotata. Lui stesso penserà, inizialmente, di 'usare' l'organizzazione per vedere quantomeno tracciate le strade della sua emancipazione. Due tattiche contrapposte nel cui confronto la forza del gruppo, come tradizione, potere della presistenza e degli equilibri realizzati, sarà inevitabilmente vincente. La purezza ideologica, infine, insegnerà al neofita a deporre la sua tattica e a separarsi da sè stesso e da quello che lo aveva condotto verso l'organizzazione, cioè il presente.

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Il militantismo non fa della politica la propria vita, ma fa della vita uno strumento della politica, come la vita è uno strumento del lavoro. Il personale diventa strumento politico, ma dal momento che il personale è decisamente limitato pure la politica lo sarà.

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C'è da chiedersi se l'organizzazione comunista come viene riproposta non sia entrata a fare parte del controllo del capitale. Lasciamo da parte la discriminazione terminologica in base alla quale non si parla di organizzazione ma di movimento, perché questo movimento ha tutte le caratteristiche di un'organizzazione priva della capacità di formalizzarsi. Il problema è che di anticapitalista nell'organizzazione - movimento comunista sono solo le purezze ideologiche e le dichiarazioni di massima, ma nulla di progettuale e solo un vago programma, talmente vago da contenere tutti i difetti di un programma e nessuno dei suoi pregi: impegno antimperialista e denuncia sulla politica carceraria. Un radicale estremo potrebbe tranquillamente aderire a questo programma, ignorando la 'purezza ideologica' discriminante; non lo può fare solo perché c'è appunto questa discriminante, vuota di contenuto, contenuto di sè stessa.
In secondo luogo c'è da chiedersi come sia possibile proseguire senza organizzazione nella nostra esperienza e ragionare quindi sul concetto di organizzazione, ma ragionare sull'organizzazione significherebbe mettere in discussione la realtà di fatto dell'organizzazione e quindi abbandonarla. Per come si sono messe le cose dopo gli ultimissimi anni settanta e soprattutto dopo il 7 aprile pare quasi vietato da un tabù il proposito di aprire naso, bocca e occhi al sociale, lasciar da parte il militantismo resistenziale e iniziare a fare indagine e inchiesta. Eppure questa è l'unica strada che rimane, anche se si desidera rimanere ancorati a una logica resistenziale: bisogna usare il proprio testimone in maniera diversa, per abolirlo. Si tratterebbe di uno sforzo notevole, coinvolgente anche nella vita, che imporrebbe di abbandonare la discriminante priva di contenuto che ci identifica senza avere la certezza di essere capaci di costituirne un'altra. Sarebbe sicuramente dura e richiederebbe una trasformazione in ognuno di noi.

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Perché dopo cento cinquanta anni dal 1848 tutti i movimenti rivoluzionari sono falliti? Le ragioni di questi reiterati fallimenti stanno proprio nella parte proletaria e rivoluzionaria, direi le più importanti.
In primo luogo lo sclerotizzarsi di forme organizzative che non erano più in grado di seguire i bisogni e le esigenze del sociale che rimanevano sempre 'altri' rispetto all'organizzazione. La rivolta spartachista e l'insurrezione di Kronstadt sono emblematiche in questo senso, dimostrando quanto bisogni, esigenze e progetti proletari si esprimevano sempre più fuori o addirittura contro l'organizzazione comunista. In generale è evidente e cronica l'incapacità dell'organizzazione comunista di adeguarsi alla composizione politica del proletariato che o l'evoluzione capitalista o i processi rivoluzionari stessi avevano determinato. Si ha la sensazione di una forbice endemica.
In secondo luogo va denunciato il ruolo dell'ideologia come termine contrattuale nelle organizzazioni comuniste, come vero e proprio danaro e contratto di parte comunista; l'ideologia è potere ideologico, l'ideologia rappresenta sè stessa e l'organizzazione di fronte al resto del mondo sociale, pretende di descrivere l'organizzazione, il militante, e il referente dell'organizzazione, il proletario. Esiste nell'ideologia e nella sua determinazione un rapporto biunivoco, vertice - massa e massa - vertice, ma questo rapporto, proprio perché ideologizzato, dona al vertice il compito di mediare, interpretare e coordinare le spinte politiche delle masse, di darsi fin da subito un aspetto 'statalista', porsi come riassunto complessivo, istituzionale. In questa maniera di intendere la relazione tra organizzazione, ideologia e proletariato le organizzazioni e partiti comunisti si sono limitati a dare risposte agli input delle masse e dei movimenti, attraverso trasformazioni strategiche e tattiche, raramente nei modelli organizzativi, volte più spesso al mantenimento - conservazione di questa relazione che non a seguire l'andamento dei processi reali, perché questa relazione garantiva il potere dell'ideologia, e quindi del vertice, dentro l'organizzazione.
In terzo luogo l'organizzazione comunista intesa come un complesso di volontà di separazione dalla concretezza del presente (purezza ideale, potere ideologico, lavoro politico, struttura gerarchica, livelli politici) non è espressione della coscienza politica delle masse ma solo un'espressione parziale di quella (come ribadiva Lenin) e in più struttura che vive della repressione continua e strisciante di quello che i movimenti esprimono, repressione che viene, però, temperata dalla propria necessità di riproduzione che sarebbe impossibile al di fuori di un rapporto, seppur mistificato, con i movimenti e le masse; solo quando entravano nella fase della riproduzione, quando ragionavano sulla loro riproduzione, l'organizzazione e i partiti comunisti andavano incontro alla forza e alla coscienza magmatica e informe delle masse.
Le organizzazioni e i partiti comunisti sono sempre stati, nonostante loro ma per conservarsi, espressione di una particolare composizione storica della classe operaia e proletaria, una volta ricevuto questo imprinting generativo e riproduttivo si sono semplicemente fermate. L'idea di rappresentare, in embrione, il futuro stato, di essere il riassunto della complessità sociale ha fermato ogni dinamica di allineamento con le novità del sociale.
Per dirla in maniera plebea, le organizzazioni e i partiti sono diventati, rapidissimamente (escluderei solo la prima internazionale) il terreno di affermazione di vita e di gratificazione intellettuale per una discreta mandria di intellettuali, solitamente mediocri, di elementi votati al proprio auto - compiacimento e allo sfruttamento delle risorse antagoniste altrui, secondo i quali quanto più ci si poteva escludere dalle dinamiche reali tanto più la correttezza ideologica e organizzativa era garantita.

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Le domande sono molte. Cosa può essere oggi un'organizzazione comunista? È ancora necessaria oggi un'organizzazione comunista? L'assunto marxiano della necessità dell'organizzazione, del partito, è ancora valido? È possibile una rivoluzione senza partito o organizzazione? In verità proprio la disgregazione sociale provocata dall'attacco alle posizioni dell'operaio taylorista e la crisi economica diventata ristrutturazione politica inducono al sì, a un sì convinto e deciso. Sarebbe, però, necessario uscire dalla prospettiva macabra e funeraria del recupero del passato, del glorioso passato, ad ogni costo e in tutte le sue forme, perchè continuando a fare così si e perduta di vista anche quello che è stato antagonisticamente quel passato, imbalsamandolo.
Sarebbe anche necessario uscire dalla ripetitiva fino alla nausea e maledetta denuncia e lotta contro la repressione carceraria, contro le leggi speciali, dalla sua centralità nel nostro debolissimo intervento, oppure abbandonare la seconda centralità dell'antimperialismo; entrambi i temi di 'programma' sono perseguiti in maniera radicalmente slegata dal tessuto sociale, se non in un davvero vago richiamo al 'proletariato detenuto' e che difficilmente si lega a quello dei detenuti per motivi politici.
Carceri speciali e riarmo imperialista sono lontani anni luce dalla decomposizione sociale, politica e ideologica che la crisi economica mondiale gestita con diretta politicità ha provocato tra i proletari protagonisti, solo cinque - dieci anni fa, di un'incredibile stagione di lotte.

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Il rifiuto del lavoro salariato può passare, oggi, solo attraverso la negazione completa, totale e storica della società del capitale, non in quanto società della produzione ma in quanto realtà organizzata socialmente contro non solo la socialità proletaria ma anche contro la società in genere. La panstatalista società di tutti i post agisce sulle strutture della soggettività dell'individuo, puntando al suo annullamento, all'eliminazione di qualsiasi margine di autonomia dell'individuo, a livello comportamentale, psicologico e solo alla fine politico.
La città (è stato più volte scritto) non si riduce alla fabbrica e alla produzione di beni materiali, la città è fabbrica di circolazione e produzione, è fabbrica di organizzazione sociale, di ritmi di vita che si impongono anche a settori estranei alla produzione di fabbrica. Dov'è la fabbrica? Ovunque e da nessuna parte: la città è tutta capitalismo, potere del capitale in ogni suo angolo, potere delle merci, potere del lavoro comandato, potere militare, potere dei trasporti, potere della disposizione urbanistica stessa. Tutto il tempo della vita deve fare i conti con questi poteri, questi estranei all'individuo che lo costruiscono integralmente. La borghesia ha fatto del suo modello produttivo storico e concreto il modello produttivo ideale vale a dire separato dai suoi modi originari, concreti, che può, dunque, sopravvivere all'industrialesimo, per certi versi negando i suoi presupposti storici, anche nella società dei computer.
Si tratta di decidere della propria vita. Non ha importanza se sarà necessario usare violenza o no, se la violenza sarà proporzionale oppure no a quella del sistema, non sarà il caso di usare delle bilance in quel campo, sarà, invece, il caso di mettere al centro la propria vita, la decisione sulla propria vita, anche nel ragionamento sull'uso della forza, in senso pieno, completo del termine, come desideravano fare gli operai di Vyborg nel 1917 o i marinai di Kronstadt nel 1921 o ancora i proletari italiani qualche decennio più tardi. Sarà un respiro a pieni polmoni dopo anni di asfissia, tutto questo sarà comunismo che genera dal presente e può generare solo nel presente.
Oggi conosciamo, appena per esperienza, la linea di sviluppo del capitale, le sue direzioni molteplici, nell'apparenza, ma unitarie nella sostanza: militarizzazione della vita sociale e delle relazioni internazionali, intervento repressivo dello stato a ogni livello (politico, sociale, legislativo, giuridico, mediatico e carcerario) che è molto articolato, disorientante per il suo impatto e dispiegamento, perchè è articolato il rischio sociale, presente e occultato nel nuovo sviluppo capitalistico. Conosciamo procedimenti di creazione del consenso diversi dai precedenti, che non eliminano o ignorano gli antagonismi e le contraddizioni, ma li obliterano, adattandoli alla logica dello sviluppo del dominio, recuperandoli alla compatibilità con il sistema (penso al movimento delle donne e a quello degli omosessuali che sono emblematici in questo senso: anche le serie televisive di largo consumo approcciano al problema, cancellandone i contenuti socialmente dirompenti), come dall'altra parte si affermano metodi di detenzione carceraria scientifica, di differenziazione assoluta della gestione della pena a seconda dei soggetti e della loro pericolosità, indipendentemente dalla condanna di legge, o si affermano contesti giuridici in cui il giudizio sull'individuo diventa più importante del suo reato nello stabilire la pena, (questi due tratti sono ben riassunti dalla legislazione dell'emergenza e speciale italiana, nata per sgominare le organizzazioni combattenti ed estesasi con naturalezza contro tutte le devianze). Poi l'elemento mediatico e cioè la spettacolarizzazione dei rapporti sociali e dello scontro sociale che realizzano molti canali TV che, se apparentemente si aprono alle 'nuove istanze sociali, alle nuove aspirazioni' (secondo la fraseologia solitamente usata in quelli),  negano, trascinandole in un contesto già circoscritto, la loro originalità, il loro vero luogo e il loro carattere critico e sovversivo.
Siamo in presenza di un grande regista: lo stato. Lo stato è sempre più accondiscendente, allargato, strutturato orizzontalmente e disgregato proprio perchè, in verità, onnipotente: non teme più di scendere tra la folla e nel conflitto. La onnipotenza non conclamata dello stato è costruita oggi, mattone dopo mattone, soprattutto nell'immaginario collettivo attraverso la diffusione dell'idea che lo stato è l'unica realtà legittima possibile e apparentemente eroica per la sua lotta contro la disgregazione sociale, che pure è proprio il prodotto dello sviluppo che garantisce e con il quale si identifica. Lo stato oggi non sopporta più una dialettica che abbia il suo punto di forza e di appoggio all'esterno di sè, ma si propne di comprendere tutto in sè destrutturando ogni punto di vista antagonista generalizzato.
Il punto di vista antagonista generalizzato non può che essere, oggi, il prodotto di una decisione da prendere sulla nostra vita, un modo di affermare la nostra vita in maniera diversa se il tempo di vita è il tempo del capitale e il tempo del nuovo lavoro salariato. Non è affatto facile.

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Esiste un grande convinzione forzata che informa ogni tipo di organizzazione politica e non: la volontà di essere produttivi anche sul terreno dell'improduttivo, cioè la scelta politica e non diventa scelta esistenziale tesa a giustificare il non - senso del presente, destinata a giustificare la propria inattività davanti all'esistente. È ovvio che ogni scelta è dialettica, è interna al capitale se ne informa, così anche l'attività politica è riproduzione della necessità di una onorevole sopravvivenza all'interno di questa società distesa sulla progettazione del futuro (onorevole sopravvivenza che mai riesce completamente a concretizzarsi nel presente).

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È comodo il rifiuto della politica. Ma se oggi fosse necessario e rivoluzionario, e necessario perché rivoluzionario, rifiutare la politica? E se il presente e la vita non va sacrificata a qualcosa che sta, per definizione e statuizione, al di fuori di essa? E se nell'immergersi nella vita fosse una capacità rivoluzionaria? Nei termini in cui abbiamo posto e proposto la politica a noi stessi, questa è stata un costante rimandare l'oggi al domani, attraverso un messianesimo scientista o presunto tale, e più la nostra politica intendeva essere rivoluzionaria più cogente è stato questo imperativo a rimandare l'oggi al domani.

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La graduale perdita di significanza della storia non è un fatto apparente ma reale, non tanto perché è un fatto oggettivo e dimostrabile, quanto perchè è un fatto soggettivo. Il futuro non è affatto predeterminato e predefinito, non va verso un fine preciso e intelleggibile, e alla soggettività, oggi, interessa il presente, nient'altro che il presente. La significanza della storia, il suo senso, perdono qualsiasi valore quando ad esse non partecipa la soggettività, quando la soggettività non va a nozze con quelle e rimangono esigenze aristoteliche, meccaniche, macchinistiche e irrealizzabili. Proprio perché il soggettivo interviene sul suo oggettivo e dà vita a una nuova significanza nel presente e solo nel presente, abolendo il mito del senso della storia e anche del senso storico, il senso nello sguardo al futuro come anche il senso nel suo guardare il passato, il soggettivo percepisce che nulla è oggettivo senza il suo intervento e che l'oggettivo è il prodotto del soggettivo. Questa novità percettiva, chiara e solida, verifica e registra la grande trasformazione del presente, del concetto di presente intendo dire, dove ogni particella della propria volontà  o ricerca di significanza per l'esistenza sostituisce quella volta verso la storia, sempre più diversa dall'esistenza, portatrice di un presente al quale si contrappone un altro presente, chiusa nei suoi significati diversi dall'esistenza presente. Alla fine è tutto qui. La perdita di significato dell'ideologia, anche dell'ideologia rivoluzionaria e comunista, la perdita di senso della creazione di significati storici futuri per il presente e per l'esistenza nel presente ha la sua radice in questa ricerca 'antagonista' sul presente. Questo significa che essere rivoluzionari è riscattare completamente la propria vita dalla storia, come tirarla fuori dal flusso dell'oggi e del domani. Questo significa ancora che rivoluzionario è completa rimozione di ogni ostacolo a questo processo rivoluzionario che comporta di entrare con la carne e con le ossa nel bisogno attuale del nuovo soggettivo, lasciando la paccottiglia dell'oggettivo e dell'ideologia derivata ad altri.

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L'ideologia forse lo ha sempre posseduto ma oggi può avere solo un significato repressivo. Ideologia vuol dire costringere i percorsi di liberazione a passare per una ghiandola pineale sociale che faccia confluire miracolosamente il soggettivo e l'oggettivo. Di questa ghiandola i percorsi di liberazione, se sono davvero tali, non hanno alcun bisogno.

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Avere coscienza ideologica, possedere un'ideologia ha un valore solo nella misura in cui significhi pensare: "La mia vita può cambiare solo se le cose che la circondano cambiano e le cose che la circondano cambiano solo se la mia vita cambia. Se potessi cambiare la mia vita senza cambiare le cose che la circondano non sarei un comunista e mi limiterei a cambiare la mia vita".  Molti comunisti si comportano, invece, come se ritenessero che il loro fondamentale obiettivo e il fondamento della loro vita sia cambiare le cose che li circondano senza cambiare la loro vita, le cose rimangono delle circostanze esterne e anche la vita una circostanza tra le altre, alla fine. Finiscono per avere disinteresse tanto per le cose quanto per la vita e principiano a nutrire disprezzo per tutti gli altri che si accontenterebbero solo di cambiare la loro vita mentre non concepiscono neppure che si possa cambiare la vita nello stesso tempo in cui si cambiano le cose che la circondano. Molti proletari sconfitti e dispersi in questi anni, tra crisi economica e ristrutturazione industriale, scelgono ormai di cambiare la vita, di fuggire alla fabbrica e cercare altre strade e facendo così acquisiscono un grado di coscienza ben più alto di quello di molti comunisti rivoluzionari in quanto non idealizzano al loro vita, astraendola da sé stessa e dalle circostanze, e partono sempre nella vita dalle contraddizioni che la vita propone loro.

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Esiste una nuova falsa coscienza proletaria, molto concreta e attuale. Questa è la coscienza secondo la quale è possibile cambiare la propria vita senza cambiare nulla o quasi nulla di quello che la circonda e non esiste bisogno di cambiare le circostanze per cambiare la propria vita. Molto spesso questa falsa ma concreta coscienza comporta la selezione tra le cose che ci circondano e l'elezione di alcune di quelle come migliori e più interessanti: una parte dello stato di cose presenti diviene il nostro rifugio, la nostra tana ideale. Le contraddizioni, così, non scompaiono ma divengono sopportabili e la falsa coscienza si fa ancora più concreta e sempre meno falsa.

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Coloro che criticano la rivoluzione di ottobre e il bolscevismo come fatti storici  interpretabili secondo lo stalinismo non hanno certamente ogni torto. Quando, però, criticano ogni movimento rivoluzionario come inevitabilmente stalinista e disposto al totalitarismo, come lo chiamano, e necessariamente portato alla negazione della democrazia, di qualsiasi tipo essa sia, iniziano a essere sospetti. Quando, poi, rivendicano la loro lotta contro lo spirito stalinista come il naturale prodotto del loro essere democratici e riformisti e anzi creano l'equazione tra riformismo, democrazia e antistalinismo scivolano in una conclamata ipocrisia. Sogliono in generale dimenticare che esiste, comunque, una linea di demarcazione, anche se non sufficientemente profonda, tra fase rivoluzionaria e fase di assestamento stalinista e che nella seconda fase non domina la volontà di proseguire nel processo rivoluzionario ma quella di conservare i prodotti immediati di quello. La cosa ridicola e ipocrita è che, in Italia, i teorici odierni del riformismo e della democrazia e i peggiori critici dello stalinismo in ogni sua forma, anche quella che loro individuano nei movimenti rivoluzionari, un tempo difendevano la rivoluzione russa proprio in ragione del sua assestamento stalinista, in ragione del 'nuovo ordine' che si era data. In realtà lo stalinismo è stato riformista, ha introdotto il riformismo del capitale in Russia e i riformisti nostrani non hanno faticato molto ad allontanarsi da quel pesante paludamento per scoprire quello che ci stava sotto ed adottarlo con furia 'stalinista'. Lo stalinismo si è storicamente dimostrato come un 'movimento riformista senza l'habitus mentale proprio del riformismo'. È storicamente istruttivo vedere i riformisti nostrani riprodurre, senza paludamenti ideologici, lo stalinismo riformista e la teoria di una democrazia autoritaria in una mistificazione dei termini del reale che è loro connaturata, perché tipicamente stalinista.

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C'è ben poco di più deprimente della visione di un cocciuto aggrappato ai suoi canali mentali predeterminati e alla sue serie prefissate di ragionamenti che si trovi a misurarsi con un problema nuovo, non compreso in quelli. Dopo una breve proposizione iniziale genericamente pertinente all'oggetto, inizierà a individuare un analogia qualsiasi, qualsiasi ma usuale, e proromperà in un 'come'. Quel 'come' sarà un'analogia verso la sua serie e i suoi canali, sarà un'analogia di potere. Sotto il profilo conoscitivo potrebbe non esserci alcun male in questo come di potere se le sue analogie non fossero necessariamente riduttive, perché un come di potere non è un come del sapere. Attendersi la liberazione del mondo dai cocciuti è come stare ad aspettare che le pietre germoglino. In realtà costoro si troveranno coinvolti, loro malgrado, in una liberazione e la riconosceranno per quello che hanno letto sulla liberazione.

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Che fare? La domanda che la donna superstiziosa pone al suo Dio. Ognuno ama questa domanda, presupponendo molteplici risposte e, soprattutto, intelligenti. La domanda è un perfido inganno perché contiene già una risposta, implicitamente. Che fare? Contiene in sè l'occultamento del flusso storico dirompente e disordinato e il potenziamento di un sostitutivo: un flusso storico ordinato.  Non ci deve essere nè un che né un fare.

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Teoria scientifica della conoscenza, sapere scientifico, una diluizione accettabile della pretesa borghese di scrivere la storia.

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I vecchi panni si apprestano a ripresentarsi: la nostra epoca come tutte le altre è in attesa di questi vecchi panni inesistenti.

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La grande forza dell'uomo e della sua interiorità più turbolenta, in preda agli istinti e a ferrei ragionamenti, è nel non farsi percepire e toccare come cosa sotterranea, ma come cosa manifesta ma imprevedibile. Ecco perchè molte cose umane non sono prevedibile; penso all'amore, alla rivolta e all'ironia che quando sono prevedibili ma non manifeste, quando sono scelte interiori è come se non fossero tali. L'amore quando è scelto si trasforma in matrimonio, la rivolta in sindacato e l'ironia in umorismo.

[46]

Che bisogno c'è di confessarsi? Se anche ipotizzassi l'esistenza di Dio, un Dio qualunque, potrei tranquillamente essere il confessore di me stesso, ma non sarebbe necessaria neppure la confessione, basterebbero i miei pensieri. Se Dio è l'essere assolutamente perfetto, come vuole la scolastica e la teologia, come può egli non avvedersi della mia imperfezione senza che io mi metta nell'attitudine della confessione? Se devo ricorrere alla confessione e al suggerimento verso Dio allora Dio non è l'essere assolutamente perfetto.

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Gesù Cristo aveva ragione quando diceva di non giudicare e da qualche altra parte consigliava di perdonare i propri persecutori. Quanto al perdonare non sono d'accordo, se si perdona si giudica: Gesù era in contraddizione con il suo vangelo. È necessario stare tranquilli a vedere tutto quello che la vita produce senza alcuna aspettativa, così come viene l'acqua da un fiume. Oggi come ieri essa verrà, oggi come ieri essa ti chiamerà a raccolta e ti dirà: obbedisci a te stesso e vai verso un mondo dove nessuno abbia la facoltà di giudicare e di perdonare, ritienilo possibile anzi ritienilo già in atto; questo sarà il mondo in cui si avrà il coraggio di dubitare di ogni legge precisata e fissata, del male e del bene, vai ed ascolta il suo abbraccio perchè devi conquistartelo.

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Conquistare. Nella conquista l'uomo ha rinnegato i suoi principi iniziali e per ottenerla ha snaturato i suoi fini confondendoli con i mezzi per ottenerli. Conquistare, però, è vincere e bisogna vincere, è necessario che le acque si liberino e si possa dormire giocosi dopo la vittoria. E la candela vale il gioco.

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Parole, frasi, proposizioni e periodi. Quante parole, quanto fiato e quanto inchiostro che non sortisce alcun effetto. Eppure ognuno di noi ritiene di avere la capacità di organizzare il proprio logos e di ricamare la trama dei suoi giudizi. Tutte queste frasi, queste parole non ricamano alcuna tela e nascondono al loro ideatore la capacità di essere al mondo. È l'arte dell'occultamento che domina i discorsi. Gli stati, pretendendo di tessere l'intera società, utilizzano i linguaggi, le parole, le frasi facendone uno solo, unificando i loro significati, in uno solo, considerato pieno e completo. Anche gli stati mentono: che bisogno avrebbero, infatti, di rincorrere tutte le parole in giro per imprigionarle e rinchiuderle? Che bisogno avrebbero di stipendiare carcerieri e poliziotti? Che senso avrebbe questa affannosa ricerca di carri armati e fucili automatici ben esposti nelle strade del centro se non quello di evitare che le parole possano essere interpretate diversamente?

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Oggi nell'istinto di conservazione si nascondono delle qualità importanti; ci sono andate a finire, si sono associate a quello, mentre prima erano indipendenti da quello, o meglio quello era indipendente da esse. La principale tra queste è il sapere giustificare naturalmente la nostra presenza al mondo, perché la filosofia è scesa nelle strade insieme con la necessità di orizzontarsi in quelle. Non si trova più nessuno disposto a dire "io vivo e basta", come è altrettanto difficile trovare qualcuno che pensi di vivere per volontà divina. La volontà di Dio viene sentita sempre più spesso come un mostro torturante, la mano pesante di un padre e un dato privo di conseguenze piuttosto che una credenza capace di trasfigurare i fatti dell'esistenza in valori. Il problema, oggi, è quello dell'uomo, di ogni uomo che abbia gli occhi spalancati contro il suo desiderio, suo malgrado, che debba e sia costretto a tenerli sbalancati a guardare gli orizzonti delle strade. Il problema è, oggi, quello dell'uomo quando è tanto intelligente da capire che l'arte della sopravvivenza è quella della menzogna, di un amante della realtà che è costretto a mentire.

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Non ci si deve stupire del fatto che le perversioni, per perversioni intendo quei desideri che richiedono una soddisfazione priva di oggetto, anaoggettuale, siano così diffuse. La perversione sta in tutta la macchina sociale che è una macchina perversa che va avanti senza un oggetto e uno scopo, va avanti per sè medesima. Gli uomini, inoltre, sono perversi, rifuggono da qualsiasi oggetto concreto, di fronte alla diffusa e totalizzante strumentazione di menzogna e tortura che vive di disgiunzioni e separazioni, che crea categorie e che sadicamente le controlla. La grande macchina sadica è la macchina statale. Perversione? Certo perversione di massa. È la perversione ad aver garantito la sopravvivenza dell'organizzazione sociale. Moralità è perversione, immoralità è perversione. Non c'è semplicemente modo di non essere perversi.

[52]

L'uomo si divide da sè, fino al punto di non riconoscere sè. Taglia ogni flusso di comunicazione verso gli altri uomini affinchè la macchina mondo continui a funzionare, a funzionalizzare, a tagliare gli aspetti della vita sociale, a intervenire sullo sviluppo della macchina sociale, produttiva e libera. Una macchina di tortura si dirige contro una macchina non finalizzata; per prendere la difesa di quest'ultima bisogna annullare la perversione, la divisione che la macchina mondo fa urlare in noi con il nostro stesso fiato e quindi essere diversi da noi stessi. Ma è mai possibile essere diversi da noi stessi e dire una verità su noi stessi?

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Nel passato, nell'epoca delle grandi rivoluzioni (quella inglese, americana, francese e russa), si è sostituita, in nome degli interessi della macchina sociale, a una macchina di tortura un'altra macchina di tortura; si sono contrapposte diverse forme di tortura. Durante le rivoluzioni la macchina sociale iniziava a torturare sè stessa da un altro punto di vista e cioè quello secondo il quale la macchina di tortura arrogava a sé il diritto di definire la macchina sociale. Prima la macchina di tortura non pretendeva di definire nulla se non sé stessa e non aveva neppure la lontana idea di far coincidere la sua macchina con la macchina mondo. Dopo le grandi rivoluzioni la tortura è diventata un complesso articolato e in connessione con il corpo sociale, fino al punto da non poter distinguere empiricamente l'una dall'altro. Il controllo esterno sul corpo sociale si articolava come intervento, ridefinizione e razionalizzazione necessaria e naturale della macchina sociale sulla macchina sociale. La dittatura del proletariato socialista è stata una macchina di tortura capitalistica all'estremo livello di sviluppo.

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Molto spesso oggi ci sentiamo nella condizione di chi non ha nulla da imparare. Sentiamo, cioè, che il mondo ha detto tutto quello che doveva dire e che nulla ci potranno insegnare le epoche future, perché percepiamo che i principi, le tendenze e gli scopi sono già ben definiti nell'oggi e il domani non saprà fare altro che approfondirli. Ma se tutto è già conosciuto, se non ci sono terre nuove da esplorare, ci sarà il futuro?

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Le due qualità contrapposte dell'umanità vengono a scontrarsi, la qualità del controllo, della coercizione e della tortura e quella della libertà e della scelta. Sono due macchine al lavoro diverse tra di loro ma non è affatto scontato che l'una escluda l'altra: la macchina torturatrice possiede un suo ordine e un ordine compresente a quello lo possiede anche la macchina libera, produttiva e sociale. Non sono ordini contrapposti ma ordini paralleli disposti su piani diversi. L'ordine che richiede coercizione, controllo e forza repressiva non è antagonista e diverso da quello che esige produzione, socialità e libertà. Sono, invece, due ordini adiacenti che hanno tra di loro delle relazioni strette: stanno gomiti a gomito, fianco a fianco. Ma mentre l'ordine della prima macchina sociale è dominato dalla necessità del controllo, dal quale derivano coercizione e forza repressiva, l'ordine della seconda macchina sociale è governato dalla libertà dalla quale derivano socialità e produttività. Le due macchine non sono affatto in guerra e divengono nemiche solo quando in entrambe le necessità dominanti divengono primarie. Allora la macchina della tortura interviene direttamente sul funzionamento della seconda, ne taglia settori di sviluppo, ne allontana la libertà materiale e ancora a sé la macchina sociale a partire da nuove basi. Si verificano, allora, potenti e laceranti tensioni, quelle che si chiamano tensioni rivoluzionarie che tengono dietro a contraddizioni rivoluzionarie, grazie e dentro alle quali la macchina della tortura riorganizza se stessa. Questa riorganizzazione è un'operazione costruita per rompere i nessi con la vecchia e sorpassata macchina sociale, nessi che la renderebbero direttamente antagonista alla nuova e per tornare a un livello di adiacenza con quella. Le rivoluzioni sono state questo.
La macchina sociale, infatti, si riproduce, si complica, acquista nuovi componenti, nuove tecniche, nuove potenzialità produttive e nuove forme produttive e adiacentemente l'altra macchina deve ingigantirsi e ipertrofizzarsi. Più le nuove forme della produzione, la corsa della macchina sociale, sono complesse e autosufficienti, più la macchina della tortura si articola e si giustifica, costituendosi in un'articolazione sconfinata di giustificazioni per sé medesima. Più la la macchina della produzione marcia verso la libertà, più quell'altra approfondisce il controllo, lo ispessisce, e quanto è più spessa e complicata la realizzazione dell'azione della macchina sociale tanto più pluriforme, radicato e articolato il controllo. Questo processo, che si è inaugurato nel XVII secolo, produce una progressiva paranoidizzazione del mondo, le cui ragioni politiche e istituzionali sono deliranti e vivono nel delirio ipertrofico e gigantista: la pazzia diviene la componente determinante del linguaggio politico. Avete visto che oggi si parla con discorsi protetti e tutelati da testate nucleari e su quella base ideati, si discute di politica internazionale e si fa diplomazia sulle soglie della distruzione del mondo, si fa del mondo l'oggetto di un discorso in preda al delirio.

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Il linguaggio politico oggi è un linguaggio paranoico, come la macchina dello stato è diventata una macchina paranoica, affetta da una paranoia che induce all'annientamento dell'esterno, che parla il linguaggio delirante del complesso di persecuzione e punta conseguentemente all'annientamento fisico dei suoi persecutori. Il controllo che informa questa macchina paranoica tende a identificarsi, a riconoscersi e a immedesimarsi nelle forme e nella qualità di un controllo onnipotente, un controllo divino. Lo stato delirante e paranoico si trasfigura in un Dio piramidale che valuta e giudica l'organizzazione sociale secondo la pericolosità che esprime verso la sua sacra persona. Lo stato è il sacro, non più come nell'antichità e nel medioevo il prodotto del sacro.
Tra i tanti effetti di questa materializzazione del sacro uno dei principali si riscontra in ambito penale e giudiziario: contano sempre meno, oggi, le accuse e le prove che vengono messe in atto contro gli individui, contano sempre meno la  colpa effettiva sotto il profilo penale, la gravità delle azioni, ma la posizione rispetto allo stato, l'atteggiamento e la pericolosità: una rapina compiuta in un certo modo e un rapinatore che non si ravvede può provocare una reazione penale ben peggiore di quella rivolta contro un serial killer che ammette la sua serialità e la sua malattia. La valutazione giuridica si fonda sempre di più sull'atteggiamento che ha ispirato il reato ed è questo a decidere il grado della pena e la sua durezza o mitezza. Dio è sceso sulla terra, oggi è sceso sicuramente e materialmente, Dio è un'istituzione terrena e fa parte di tutti noi.

[57]

Dio disse: "Lo stato sono io".

[58]

Spesso non riesco a prendere respiro nello scrivere queste pagine; si capisce come noi, miseri figli di un padre paranoico, noi continuamente sospettati e indagati da questo padre per metà prussiano e per metà orwelliano, preferiamo tacere anche a noi stessi, tenerci i pensieri dentro, trattenere il respiro con tranquilla pena. Oggi parlare di 'liberi pensatori', per carità! Facciamoci il piacere! C'è che non soltanto il termine 'liberi' quanto quello di 'pensatori' è improbabile. Non c'è nulla da dire e da pensare che non sia stato detto e pensato, catalogato, inventariato, criticato e nuovamente sottoposto alla critica e che non sia già vecchio, anche se appena nato. Ogni recente deduzione assomiglia a una convinzione vecchia e stantia. Liberi pensatori! Il mondo oggi è pieno di giornalisti di cronaca 'liberi pensatori', di politicanti e di onorevoli deputati ereditari 'liberi pensatori'. So perfettamente che non sto scrivendo niente di nuovo, ma questo è necessario (tanto scrivere quanto non essere nuovo). Non pretendo da me stesso di essere un 'libero pensatore'.

[59]

Capì che per salvarsi doveva fingersi morto, dunque trattenne il respiro e con quello ogni pensiero, fece fare il silenzio nella mente, un gran buio scottante nelle orecchie. L'assassino passò e non fece caso a lui.

[60]

L'uomo silenzioso, che serba in sé i suoi pensieri e ne fa dei misteri, è da ammirare, poiche non svuota con inutili parole il suo operare, lo fa e lo elegge a suo linguaggio. L'operare diviene la sua arma più affilata e tagliente poiché è il suo unico modo di parlare agli altri.

[61]

Non dovrei mai cessare di sottolineare quanto l'agire sia utile alla mente; la costringe a prendere delle decisioni, a risolversi nell'utile e nell'inutile, a dissolversi nell'azione, in un certo senso. Ha ragione chi afferma che nell'azione la mente viene meno a una delle prerogative che le sono di fondamento: la profondità analitica. In verità nell'azione, che pure nasce dalla valutazione dell'utile dell'inutile, la mente non si pone più il problema dell'utile e dell'inutile e, per così dire, se lo lascia dietro, e non si pone più la questione di quali siano gli effetti dell'azione; se continuasse a porsi questi problemi e queste questioni non si risolverebbe mai ad agire poichè il giudizio più disincantato e materialista (e per disincantato intendo privo di incantamenti, di fascini che dominano quello che noi definiamo come utile e inutile, mentre uso per materialista un'accezione di una grande esperienza delle cose materiali, una conoscenza empirica e diretta) nessuna azione potrà essere valida di per sé e non potrà essere utile ed inutile in assoluto, perchè dietro il concetto di utile e inutile si nascondono migliaia e forse infinite indicazioni contrarie, valutazioni avverse.

[62]

La profondità analitica inibisce l'iniziativa umana e innalza nell'uomo la consapevolezza che qualunque cosa egli faccia gliene verrà solo del danno e null'altro che male.

[63]

L'uomo silenzioso è colui che ha capito, tramite una profondità di giudizio empirico e grazie a una grande sensibilità empirica, la validità dell'agire umano che non risiede al di fuori di sé ma dentro di sè: la validità dell'agire è una regola interna all'agire. Conosce, riconosce e accetta, allora, la potenza degli istinti che inducono a vivere e li segue perché, in un certo senso, questi sono scritti in lui e questa scrittura è veramente l'unica norma universale, soggiogata e rivisitata in modi diversissimi dalle dinamiche sensitive e razionali degli esseri umani: la sopravvivenza.

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Soprattutto di questi tempi duri, soprattutto oggi, epoca nella quale le grandi macchine di controllo e persecuzione si perfezionano e ingigantiscono quasi a vista d'occhio, dopo la 'rivoluzione mancata' del decennio passato, nella quale ogni parola, ogni ragionamento su sé stessi che sia approfondito, viene penalizzato, vale a dire sottoposto a pena (minaccia di pena) e persecuzione (che è minaccia di pena), la qualità fondamentale di questo tipo di intelletto è il silenzio insieme con l'agire silenzioso e obbediente ma mai rassegnato. Questo agire silenzioso e questo silenzio si trasformano, gradatamente, in un silenzio generale della mente che è un rifiuto oggettivo del ragionamento egemone, utile, adeguato e buono. Si preferisce privarsi di ogni facoltà di ragionamento ma dal momento che è impossibile raggiungere questa privazione si sceglie di ridurre la mente al silenzio.

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Guardarsi dai ciarlieri, che si profondono in ragionamenti esposti, serie di voci, che parlano e dimostrano valori di socievolezza ad ogni costo, che vedono valori positivi, eventi positivi ovunque, anche nella sconfitta, anche nella repressione, anche nella negazione dei diritti più banali. La macchina paranoica ha fatto di loro i suoi strumenti di riproduzione gioiosa; costoro ne registrano gioiosamente la riproduzione ed evoluzione. Bisogna, però, anche guardarsi dai ciarlieri severi, da tutti coloro che si prendono sul serio, e prendono sul serio quello che dicono e pensano, come se non potesse essere detto e pensato altro. Oltre che noiosi sono anche inutili e pericolosi.
Ci sono poi i faceti, coloro che ridono delle cose; costoro assomigliano agli uomini silenziosi, ne sono la componente bizzarra; il loro rischio è quello di dimostrare  la legittimità della gioia nella macchina persecutoria e di cessare di considerarla per quello che è.

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Quello che è stato, e a buon diritto, criticato e alla fine negato dal cambiare dei tempi, dall'evolversi del mondo e dall'affermarsi dell'epoca moderna e del capitalismo, è questo: la divisione intellettuale tra gli uomini, cioè l'idea che esistano degli uomini migliori e degli uomini peggiori, degli aristocratici e dei plebei intellettuali per nascita, quasi per genetica. Oggi non esisterebbero neppure i parametri, le misure, i modelli aritmetici o analoghi, per individuare qualcosa di superiore e inferiore. Gli uomini silenziosi non sono, così, nè più intelligenti, nè più sensibili, nè più speculativi degli altri uomini, hanno semplicemente imparato a sopravvivere attraverso il silenzio come gli altri lo fanno attraverso la ciarla, hanno imparato a sentire sé stessi al di là e al di fuori di ogni valore, precisamente come gli altri lo fanno grazie all'adesione a ogni valore e a qualsiasi cosa che assomigli a un valore. In entrambe le tipologie intellettuali l'energia spesa e consumata, le imprese intellettuali nel numero e nella qualità, sono uguali ma non identiche: il lavoro della mente è il medesimo e l'intelligenza spesa nella stessa misura.

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La scelta è libera, quando si sceglie si è liberi dentro i parametri della scelta. Ma quali parametri che inducono la scelta sono liberi? Liberi nella sostanza? Se anche i parametri della scelta e quindi i parametri della libertà fossero liberi e quindi non determinati da altri parameteri, precedenti, collaterali e affiancati, allora bisognerebbe ammettere che l'intero ordine cosmico si è basato ed è proceduto sul caso, sulla libertà dettata dal caso.

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L'ordine casuale non è la libertà, ma la pura schiavitù, perché anche i binari della scelta e la scelta stessa sarebbe casualmente determinati: agire a caso non è agire liberamente. Io non credo che i dadi siano liberi quando cadono sul tavolo e combinano il numero. Abbandonarsi alla necessità dell'ordinamento delle cose, aderire a quelle come una pellicola d'olio aderisce all'acqua è agire liberamente, poiché faremo sentire il peso dell'olio all'acqua e l'acqua, l'ordine dell'acqua, si muterà, troverà una nuova causa e un nuovo elemento. Aderire alle motivazioni delle cose è come aderire alle motivazioni della mente o, se preferite, alle motivazioni dell'anima.

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La morale è il prodotto di un'astrazione dall'ordine causale generale di alcune sezioni di quello che vengono, appunto, tirate fuori dal loro contesto e isolate. I legami e i nessi che hanno con l'ordinamento causale vengono spezzati e interrotti e in tal maniera è possibile definire degli opposti, degli aut aut e degli o - o, quindi delle esclusioni dal flusso generale degli eventi, delle cose e dei pensieri. Operando in tal modo il pensiero morale ha considerato sè stesso come un pensiero universale, poiché sciolto dalle cose determinate e dai pensieri determinati e come l'unico capace di produrre degli autentici universali, delle cose che valgono in ogni parte dell'ordinamento causale sia al principio che in mezzo che alla fine. L'epoca che le ha generate, cioé quella particolare sezione / segmento del flusso causale dalla quale si sono separate, non è più direttamente riconoscibile nel pensiero morale e quindi il figlio cerca di non assomigliare al padre e lo rinnega, in un certo cerso se ne vergogna. Il pensiero morale si vergogna delle sue origini, perché riconoscerle sarebbe come negarsi da sè medesimo, annullarsi. Oppure il pensiero morale riconosce un padre, si riconosce figlio di un'epoca, si sente storico ma, contemporaneamente, divinizza il padre e proclama quell'epoca, la sua epoca, come santa, sacra e universalmente valida: la grande nutrice e generatrice del mondo. Le morali devono fare violenza, in ogni caso, alla realtà dei fatti e condannare i pensieri che si basano sulla realtà dei fatti perché hanno la pretesa di possedere la virtù adatta a giudicare ogni epoca, il metro per giudicare la storia, tutta quanta. Per andare a un esempio banale e schematico non è forse un caso se c'è qualcuno che afferma che all'origine della violenza carnale e dello stupro stia la morale e la sua cultura ma non in quanto la morale, provocando repressione determina poi una pulsione incontrollata in una sorta di effetto involontario e indesiderato, ma per un'analogia profonda verso la violenza che normalmente esercita contro il flusso e l'ordine causale delle cose, dei pensieri e dei sentimenti: la morale insegna a usare la violenza perché alla sua base è un'operazione violenta.

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Quello che oggi si è creato tra gli uomini, quali siano le relazioni umane, quelle dei singoli con i singoli, delle persone con le altre persone, è diventato un campo difficilissimo da esplorare ed è un campo dominato da un grande disordine analitico. Da più parti si descrive la fine del pensiero morale, ma questa fine è solo apparente. Le morali risorgono dalle loro ceneri, perché hanno sempre un terreno dal quale risorgere e ricostituirsi. Il grande edificio della morale cristiana è crollato, poiché si è storicizzato ed è stato costretto a rivelare le sue origini, è stato costretto a denunciare il padre, ma da ogni sua pietra, sparsa sul terreno, è sorta una morale privata, una nuova forbice che taglia e separa, anzi infinite forbici che tagliano e separano, prendono pezzi di connessioni e interconnessioni, segmenti, sezioni, secondo infiniti orizzonti, infiniti tagli, e producono infinite astrazioni. La morale è diventata una miriade di mondi egocentrici, quindi l'apparente negazione della morale e di qui la denuncia fallace della sua morte, che si giustificano con la morale e sono morali.
Le grandi costruzioni morali si sono sgretolate ma a quella si è sostituita la morale della necessità minima individuale, la morale del benessere individuale e della felicità e appagamento. Benessere, felicità e appagamento hanno come inevitabile condizione un contesto collettivo favorevole se vogliono realizzarsi. La morale, quindi, ha scoperto quello che originariamente aveva negato: le connessioni e i nessi. Le infinite morali individuali si collegano tra di loro e costituiscono un disegno unico e alla fine un discorso unico, un coro. Questa coralità rende la morale abbastanza vicina alla scienza e alla tecnologia.

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Della grande morale, come di un grande ed eterno ed eppure morto amore, chi non può non sentire la mancanza, anche se l'ha disprezzata, fuggita e dileggiata? Di queste pietruzze moralistiche, governate dal benessere, l'appagamento e la felicità, dalla 'pace con sé stessi', dalla realizzazione di sè stessi, di questo coro caotico che ricerca la protezione del tribunale e del poliziotto, la sicurezza del partito politico o del parlamento e l'ordine nella società, senza neanche menzionarli e spesso facendo il verso di criticarli o tra i più stupidi criticandoli apertamente e con sincerità (pensando di essere  'sinceramente' sinceri mentre si è solo sinceramente stupidi) chi mai potrà sentire la mancanza e, soprattutto, chi mai si ricorderà? Solo stato, io credo, la macchina paranoica sentirà la mancanza di questo incredibile consenso caotico e ben ordinato.

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La macchina paranoica e torturante, lo stato capitalista contemporaneo, non si sconforta della fine della grande macchina morale, anche se la cosa potrebbe apparire strana. Alla diabolica stupidità della grande macchina morale unificata si è sostituita la molto meno ingombrante ma terribilmente molto più efficace teoria di tanti meccanismi morali interconnessi. Questi meccanismi seguono e perseguono la difesa della loro necessità minima individuale: l'adattamento alla miriade di situazioni di vita che incontrano. Le piccole morali singole inseguono senza nessuna intelligenza la dinamica veloce delle situazioni, vi si accodano, vi si adattano e danno a questo adattamento un significato generale tanto più che ricercano la solidarietà e collaborazione di altri piccoli meccanismi morali e, alla fine, costituiscono una macchina, senza neppure sapere che l'hanno costruita. I meccanismi morali singoli lavorano sotto la spinta dell'istinto della sopravvivenza tutto appiattito sulla legge dell'adattamento, della potenza della circostanza e di quello che ci circonda.

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Se prima, prima della grande trasformazione di questi anni nella quale gli orizzonti della classe operaia si stanno restringendo drammaticamente e il pensiero critico e antagonista è in riflusso in tutto il mondo, gli uomini dovevano affrontare la grande macchina della morale, lottare contro di quella e sabotarla e in questa lotta si univano, anzi questa lotta imponeva la loro unione, oggi vivono rinchiusi nel loro angolo morale. La critica alla morale è diventato un fatto privato, personale e apparentemente libero. La lotta oggi si deve spostare dietro a quello che sta dietro questa nuova morale distribuita e che determina questi infiniti atomi morali. La lotta salta la morale e va verso una critica allo spirito di adattamento e solo la lotta allo spirito di adattamento potrà sgretolare questa nuova morale distribuita.

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La logica conseguenza (una delle logiche conseguenze) della nuova morale individuale e distribuita è la fine dell'amore. Per amore intendo la capacità di uscire dalla propria individualità, dal proprio adattamento, individuare un terreno comune con gli altri uomini e rinunciare al proprio spirito di adattamento. Questo ha anche coinvolto l'amore sentimentale  che fa parte di questa forza di scambio e di messa in comune, e che è finito soffocato più che nei presistenti matrimoni nelle coppie aperte e nelle prospettive single di relazione di coppia.

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Alcune brevi annotazioni sull'amore. L'amore è una forza che ci può uccidere ma è anche un luogo produttivo; l'amore produce immagini secondo una concatenazione infinita e interminabile. L'amore è l'unico sentimento capace di fare in modo che il nostro intelletto, per più di qualche breve istante come accade per altri sentimenti, sia finalizzato alla sua produzione e riproduzione. L'amore ci fa sentire integri tanto da farci distrarre da tutto e da tutti. Eppure l'amore non ha un inizio preciso e non ci si accorge di quando inizia. Si deve capire la bellezza del potere dell'amore per comprendere la potenza dell'uomo e il suo irrimediabile fascino davanti a qualsiasi altro animale. L'amore possiede e comporta, infatti, un fascino che è il fascino di una forza irrefrenabile in mano all'uomo, non comune a nessun altro animale, che quasi è una sua caratteristica. L'amore produce il fascino di una forza scatenata contro ogni ostacolo che circonda l'uomo.

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La macchina statale, la macchina torturante, di fronte al crescente silenzio del sociale, è diventata sempre più blaterante, chiaccherina. Si è messo in moto un processo interattivo in maniera iperbolica: lo stato definisce esso stesso il sociale, lo inventa, crea un immaginario mondo parallelo, mentre il corpo sociale tace sempre di più, diviene sempre meno partecipe a sè stesso e sempre più ammutolito. Così come lo stato ha maggiore capacità di manipolare la società, così è sempre di più solo uno scheletro della società quello che tiene tra le mani. È in atto, oggi, una dinamica di estraniazione del corpo sociale da sè stesso i cui effetti sono difficili da valutare, ma è chiaro che un'interazione di questo tipo, annichilente e silenziante, non potrà che risolversi con la fine di uno dei due soggetti: o lo stato o il corpo sociale.

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La macchina torturante dello stato ha distrutto ogni possibilità di mediazione con il corpo sociale. Insieme con la fine della possibilità è declinata anche la capacità della mediazione con il corpo sociale e dunque la fine, per definizione e antonomasia, della politica, politica intesa come categoria del dialogo, del discorso sensato e della dialettica. Oggi la politica è solo una strategia unilateralmente data che ha come scopo la definizione / annullamento del corpo sociale, oggi la politica appartiene esclusivamente allo stato.

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Signori! In questa sede raccolgo pensieri ben materiali, pensieri storici  e storicizzabili, pensieri quotidiani, nel senso che riguardano la quotidianità e che non hanno affatto pretese di originalità, anche perchè in questa data e ben determinata epoca è l'arido e il secco che domina la totalità sociale. Sono l'arido, il siccitoso e il silenzio a dominare. I rapporti sociali che sono comunicazione per definizione sono dominati dall'incomunicabilità e non sono più rapporti sociali. Che senso ha, di fronte a questa novità, parlare di nuovo oggi? È terribilmente impossibile parlare di nuovo oggi e pronunciare la parola stessa 'nuovo'. Tutto quello che abbiamo di fronte è un nuovo che propone il vecchio in forme chimicamente pure e proprio per questo che dovremmo soffermarci attentamente sull'aspetto dello stato torturatore e persecutore, che è uno dei segni della nostra epoca, ma non è un segno nuovo, non è un nuovo assioma, ed è una trappola intellettuale e politica.

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Stabilisco un assioma della incomunicabilità. Tra stato e corpo sociale non esiste un tessuto comunicativo, oggi, un tessuto dialettico positivo, affermativo. Quello che era garantito, fino al decennio precedente questo, dal linguaggio politico è venuto a mancare e non fa più parte del linguaggio politico.

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Assioma della dialettica. Siamo ben lontani dalla definitiva chiusura della dialettica. La dialettica rimane la sostanza stessa delle cose sociali, ma non è più una dialettica positiva espressa tra stato e corpo sociale. La dialettica si è trasferita altrove, direttamente nelle relazioni tra capitale e lavoro e ha abbandonato il terreno della relazione tra lo stato e la società. È che oggi siamo di fronte a un confronto tra due interlocutori dove non esiste interlocuzione e l'interazione è solo immaginata e rappresentata da uno solo degli interlocutori, quindi non c'è interazione se non nella rappresentazione. Lo stato rappresenta la società, solo in quanto società statale e solo in quanto società politica e civile, non in quanto corpo sociale, complesso esterno allo stato, quello è morto alla dialettica.

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Assioma dello stato assoluto. Si è riproposto in nuove forme e con nuovi contenuti uno stato collettivo di classe, come fu lo stato assoluto aristocratico. È lo stato assoluto della borghesia. L'analogia tra queste due forme di potere è nella loro incapacità di usare un linguaggio che coinvolga il corpo sociale attivamente. L'analogia sta anche nel fatto che l'incapacità confina con la mancanza di volontà di parlare con il corpo sociale: è una scelta cosciente non il risultato di un processo. Non esiste un linguaggio dello stato sul corpo sociale perchè, ed è questa la novità di quest'epoca, influenzata dalla Thatcher e da Ronald Reagan, lo stato non ha più fini e progetti per il corpo sociale; lo stato vive della sua conservazione, come ultimo e primo al contempo termine istituzionale del dominio di una classe sulla società. Questo dominio non è il prodotto del caso e neppure il risultato di un complesso di cause, o meglio non è solo questo, ma è il prodotto di una scelta deliberata, di un'intelligenza; la borghesia è intelligente, più di quanto si pensasse.

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Questi tre assiomi, incomunicabilità, nuove forme della dialettica e stato assoluto e collettivo, sono interdipendenti, vale a dire che ognuno richiede l'altro e non può esistere e sostenersi senza l'altro e che l'uno è la conseguenza e al contempo l'origine dell'altro. È in atto un duello paradossale, una lotta mortale inimmaginabile prima: lo stato assoluto della borghesia non è in grado di spostarsi da sè, mentre il corpo sociale non è assolutamente capace di progettarsi come stato. Per il corpo sociale, in qualsiasi sua articolazione e nelle diverse ideologie che esprime in questa fase, il potere sta assumendo solo un'accezione negativa: lo stato ha assunto un significato politico negativo, è un nemico. E questo vale per la destra e per la sinistra. In realtà tanto lo stato quanto il corpo sociale non hanno gli strumenti per condurre la lotta reciproca. Per lo stato, che diviene sempre più una macchina torturante e persecutoria, l'obiettivo è l'annientamento del corpo sociale e la sua energia che è, però, una soluzione paradossale poichè lo stato si è sempre fondato, istituito ed evoluto sulla dialettica con il corpo sociale. Per il corpo sociale l'obiettivo è l'annientamento delo stato torturante, cioè di quello che è divenuto  inevitabilmente l'altro da sè, il proprio io definitore. Il corpo sociale ha perduto il proprio io perchè se l'è preso lo stato e il potere politico. Al contrario dello stato, però, il corpo sociale cambia e si trasforma, soffre e patisce, lo stato si arrocca e si cristallizza. Sono due processi antagonisti ma dialettici, ma di una dialettica stravolta, una dialettica della fuga e della separazione. L'irrisolvibilità di questo antagonismo potrebbe essere dato solo nell'oggi, in questo caso sarà il futuro sviluppo del corpo sociale a decidere della sorte dello stato, oppure è un dato strutturale e allora sarà lo stato a innalzarsi a estremo e ultimo distruttore dello sviluppo del corpo sociale e quindi, alla fine, del corpo sociale per come si è dato storicamente. L'aspetto dominante è oggi quello dell'incompatibilità tra la trasformazione assolutistica dello stato e la sopravvivenza del corpo sociale.

[83]

Le strade si stanno riempiendo di soggetti sociali incompatibili tra loro. Che continuino a riempirsi di questa incompatibilità! Che le strade urlino dei bisogni e dei desideri dei silenziosi! Basteranno pochi e banali bisogni a scatenare il putiferio.

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Quale genialità albergava nel primo uomo che si inventò re, che si sentì re. Quell'uomo  divenne, nel suo corpo, essenza e fondamento dello stato: una genialità che richiama quella dell'imprenditore moderno e il suo lavoro primigenio e primitivo che è quello di assegnare alle cose un valore nuovo.

[85]

Un popolo è un complesso di relazioni, di equilibri tra individui, tra gruppi. Da dove potè trarre le doti necessarie per mutare quel complesso, intervenire su quegli equilibri il re? La sua dote era solo nel saper leggere la mancanza in quelle, l'insufficienza in quelle? Si erano forse ammalate? Le relazioni all'interno di una comunità per accettare e richiedere (che sono la stessa cosa in questo caso) la presenza di un re non bastavano più a loro stesse: c'era un surplus che non si riusciva più a comprendere in quelle. Il regno nasce dalla salute, non dalla malattia. Ogni gruppo umano genera sè stesso in maniera indefinita, la relazione tra gli individui del gruppo non si definisce e non si chiama, non ha un nome, è un'esecuzione del gesto e del linguaggio; anche quando entra in contatto e conosce altri gruppi umani, e quindi le loro relazioni interne, trova in primo luogo una giustificazione alle sue relazioni interne. Il contatto con altri gruppi non fonda e giustifica la monarchia di per sè stesso e immediatamente. Quando, però, più gruppi si trovarono in continua vicinanza e in competizione per il territorio o le risorse del territorio, allora il tessuto delle loro relazioni interne trova un competitore in una nuova trama: quella delle relazioni esterne; in verità, non è che le relazioni all'interno del gruppo e quelle con gruppi esterni tendono a individuarsi precisamente: tra gruppi possono esistere delle compenetrazioni, dei trasferimenti e dei trasbordi. In ogni caso il complesso delle relazioni interne conosceva anche il complesso di altre relazioni interne, a maggior ragione se contaminavano quelle proprie del gruppo, se interferivano, introducendosi, con quelle. È  a questo punto che sorge la necessità di un corpo, un individuo, che sia al di fuori delle relazioni precedenti, ma non per distruggerle e per meglio rappresentarle. Si sentì la necessità di un'entità capace di ridare forza a ognuna delle relazioni dei gruppi e tra i gruppi. Comparve qualcosa di analogo all'imprenditore che, invece che quello moderno, produceva nuove relazioni e dava nuovo nome in base al suo atto creativo a quelle vecchie e come quello moderno otteneva del plusvalore e del profitto su quelle, ma non sotto forma di beni materiali ma di beni relazionali: il re e il suo potere accumulavano relazioni umane. Le nuove relazioni instaurate erano di proprietà esclusiva del re che sostituiva alla comunanza geografica e prossimità territoriale, la comunanza delle relazioni tra i gruppi che convergevano su di lui e sul suo corpo. Tutto ciò venne ottenuto anche con l'uso del ferro e del fuoco, ma mai a detrimento del complesso delle relazioni, mettendo un complesso relazionale contro un altro complesso relazione, poichè sarebbe stato come negare la regalità stessa.

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Il re si pose come unità di molti complessi relazionali autonomi e indipendenti, come loro coordinamento capace di arricchirle e di registrare il loro arricchimento spontaneo. Il re divenne la sommatoria ma anche il senso di tutte le relazioni, qualcosa che stava 'appena al di sopra' di quelle. Per fare questo la monarchia o lo stato nascente deve togliere alle relazioni ogni indefinitezza, ogni anomimato, ogni mancanza di nome e deve chiamarle e dare loro un nome. L'oralità è stata certamente la forma di comunicazione propria delle comunità primordiali e anche delle monarchie primordiali ma la monarchia tendeva verso una nuova forma di comunicazione e di registrazione e narrazione delle relazioni. È la scrittura questa nuova forma comunicativa che compare come soppiantatrice della tradizione orale: la scrittura, andando oltre il tempo, cristallizzandolo, va oltre le relazioni, fermandole. La scrittura è una relazione stabilita, la scrittura è la monarchia espressa sulle relazioni umane. Ogni cosa che viene detta è stata detta, ha significato, solo se poi è stata scritta, come ogni gruppo umano ha significato solo se fa parte del regno. Ogni parte del regno deve abbandonare la sua forma comunicativa a favore di quella del re, ogni tessuto relazionale deve essere finalizzato a quello amministrato dal re, il complesso delle relazioni precedenti che possono anche resistere (anzi devono resistere) deve diventare una componente di una funzione generale, di una macchina. Questa macchina, che è lo stato, funziona grazie a degli ingranaggi che sono i gruppi di relazioni tra gli individui, rinnovati e rinominati, anzi nominati.

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Chi viene scelto in questo processo di rinnovamento e rinominazione delle relazioni umane, dei gesti e delle parole, chi parla la stessa lingua del re, è un gruppo che sta in mezzo agli altri gruppi, una relazione che sta in mezzo alle altre relazioni ma istituisce la sua relazione particolare: quella di nominare e rinominare le relazioni umane e di partecipare a questo meccanismo. È la nobiltà che è un gruppo di congiunzione tra il re e la tribù, un gruppo che scrive come il re e parla come il popolo, un gruppo che traduce, in un senso e nell'altro. L'aristocrazia nell'impero romano è la quintessenza di questo modo di intendere ed usare la nobiltà da parte del potere monarchico.

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Il re, la scrittura e la morale? Il re, la primitiva macchina dello stato, la scrittura, la primitiva codificazione delle relazioni umane hanno generato la morale? Astrazione ed estrazione sono le due funzioni espresse sulle relazioni umane che ha espresso la monarchia. La morale estrae alcuni comportamenti e gli astrae dal loro contesto, fa la stessa cosa. Oppure è possibile accomunare la nascita di morale e stato? La morale ha un aspetto religioso che non è proprio nella costituzione della figura del re. Nonostanza la similitudine logica, morale e stato paiono camminare lungo strade diverse che, magari, si intersecano. Il re, infatti, tende, nel corso dell'evoluzione della sua figura ad acquisire uno stato religioso, un aspetto religioso e sacro: la funzione del re è sacra. La morale, allora, attraverso la religione penetra nella politica, non più come risultato delle relazioni di base ma come importazione del sacro nel potere.

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Le divinità locali, imperfette e limitate geograficamente nella loro potestà, rimasero come segno delle relazioni preessitenti e fondanti la primitiva monarchia e il primitivo stato e furono inizialmente adottati. Il sacro dello stato era limitato geograficamente alle pertinenze territoriali dello stato, anche se questo impose il coordinamento del sacro e la formazione di un gruppo di divinità che si emancipavano (pur nascendo il più delle volte da quelle) dalle tradizioni locali e assumevano un aspetto inter - divino e rappresentavano, anche, le specializzazioni che parte  e frazioni dei singoli gruppi di relazioni avevano acquisito. Si costituirono in questo periodo le genealogie degli dei che erano isomorfe alle genealogie regali (Antico Egitto, Ittiti, Babilonesi fino a giungere a Greci, Italici e Romani) grazie alle quali il sacro rappresentava la complessità del corpo sociale, anzi la religione definiva e strutturava l'idea di corpo sociale. In questa fase, in maniera diversa da luogo a luogo, secondo gradienti disimogeneamente distribuiti nel tempo, anche la classe sacerdotale, che prima viveva di relazioni proprie con i gruppi costitutivi il corpo sociale, prima ancora che fosse corpo sociale, ora si associa al potere del monarca e dei nobili, ed entra a far parte delle nuove relazioni che istituiscono il corpo sociale. Il potere del monarca stabilendo e favorendo dinamiche di generazione del corpo sociale, come insieme organico collaborante e strutturato secondo gerarchie, favorendo estrazioni e astrazioni tra i gruppi primitivi (i clan e le tribù e i loro lignaggi) oltrepassa la tradizione locale, anzi inventa il concetto di locale proprio eleborandone il superamento. Emerge, anche qui gradatamente e disomogeneamente per tempo e spazio, il concetto di universale. l'idea di mondo. Il mondo presuppone un ordine universale e quindi un coordinamento divino e figure divine ancora più elevate e astratte. I vecchi dei tradizionali, locali, famigliari, di clan e tribali sono respinti nella sottocultura della tradizione locale, mentre quello che guarda al mondo, guarda all'universale e a quel fenomeno nuovo che è il discorso (il logos) sul mondo. È  la filosofia che si associa alla religione, alla morale e la potere politico, si associa al loro cammino: il mondo permette la nascita della filosofia. La filosofia offre alla religione una nuova precettistica morale e una teologia: il repertorio dell'umano come elemento indifferenziato e l'idea dell'universalità del divino. Il passaggio dalle divinità supreme e coordinatrici dell'ultima tradizione pagana al monoteismo cristiano fu abbastanza naturale, come fu abbastanza naturale l'affermazione dell'idea di un regno universale, un regno dei regni, il regno del mondo e l'impero. A ogni fase ed evoluzione del potere politico corrisponde un'evoluzione nell'organizzazione sociale, una precisazione dell'idea di corpo sociale, e, infine, una universalizzazione e astrazione dell'ordine mitico e divino: dal naturismo all'animismo, dal politeismo localistico al politeismo coordinato e dal politeismo piramidale al monoteismo.

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Dell'istituzione statale sappiamo che è nata, più o meno quando è nata e anche come potrebbe essere nata ma in ragione di che cosa è nata no. Il come non ci spiega il perché. Mai l'umanità, intorno al sorgere dello stato nella preistoria, ha generato un enigma così grande. Lo stato può essere stato molte ragioni e molti risultati: il prodotto di una precedente tipologia classista e di una divisione del lavoro, l'espressione del predominio di una tribù su altre tribù, il desiderio di colmare difetti di relazione all'interno della tribù oppure tutte e tre queste cose, per come si presenta lo stato alla storia, le prime monarchie, potrebbe essere tutte e tre queste cose. Il problema di fondo rimane il motivo per il quale queste caratteristiche sono divenute requisiti e condizioni della formazione dello stato. Anche nella compresenza di queste condizioni io non vedo la formazione dello stato come inevitabile, come il naturale portato di queste. Ci sono stati una serie di atti individuali che hanno reso necessaria, o meglio presentato come necessaria, la formazione dello stato. Il genio del re, quindi. Solo dopo la sua costituzione lo stato è diventato necessario. Si afferma tradizionalmente che senza stato e senza classi non si sarebbe dato lo sviluppo storico, la formazione della scienza morale, l'evoluzione della tecnologia e il pensiero scientifico: lo stato, provocando un utile pervertimento delle relazioni umane e del desiderio, ha tradotto il surplus di energie che ne derivava in lavoro manuale e scientifico, ha catturato e tesaurizzato queste energie relazionali. Forse questo surplus esisteva già prima ed era tra le condizioni per la formazione potenziale dello stato e non tra i suoi prodotti: con lo stato il surplus inizia a darsi nella forma della sublimazione. Quindi una delle necessità, a priori e a posteriori, dell'organizzazione statale decade. Anche la guerra potrebbe decadere come causa della formazione dello stato: lo stato di guerra può aver comportato il rafforzamento dei legami comunitari, le relazioni tra i lignaggi ma, solitamente, i guerrieri sono ciò che di più anarchico esprima un gruppo, in loro il valore individuale sopravanza l'azione collettiva e l'azione collettiva è tale solo per la capacità individuale. Anche un'embrionale divisione del lavoro e di classe non necessariamente doveva tradursi nella formazione dello stato, un gruppo di individui specializzato in un'operazione può in ragione di quella organizzare relazioni paritetiche con gli altri gruppi. L'esercito guerriero e la classe, come corpi separati della società, vengono dopo lo stato, non prima: è lo stato che fa in modo che le loro relazioni con gli altri gruppi divengano particolari e si costituiscano in corpi separati.
I difetti di relazione e i surplus di relazione e comunicazione sono stati tra i tre elementi analizzati come requisiti, non cause efficienti, della nascita dello stato quello più importante. La società tribale si trovava in una situazione di abbondanza, il flusso della natura non coincideva più con il flusso storico e l'uomo non aveva più un rapporto animalesco con la natura e non solo il branco si era trasformato in clan ma il clan si coniugava con altri clan, dando vita a una ricchezza comunicativa e interattiva notevole che, lo ripeto, era anche rispecchiata dalla religione. Esisteva quindi una forza che spingeva alla trasformazione della natura, alla trasformazione dei clan e delle relazioni tra famiglie e lignaggi, una forza economica e culturale. Questa forza economica e culturale spingeva verso una ipotesi e concretezza politica, una federazione tra i clan e le tribù e la formazione di genealogie e di affinità allargate. Qui entra in gioco il secondo elemento quello della guerra e diseguaglianza tra le tribù. Le differenti risorse, determinate da situazioni geografiche, orografiche e idrografiche, determinarono una diversità tra le le diverse tribù, rompendo il terreno federativo e imponendo con la guerra o senza la guerra, la formazione di relazioni asimmetriche tra quelle. Ma anche questo non rende necessario il monarca e lo stato, anche se qui il suo genio può già essere meno eccelso per imporre nuove relazioni e la specializzazioni che tagliano le tribù in relazioni, corpi, particolari. Relazioni particolari tra clan e lignaggi e federazioni simmetriche o asimmetriche tra tribù si stabilirono: parte delle famiglie, clan e lignaggi iniziarono a differenziarsi al loro interno e alla relazioni di lignaggio si sovrapposero altre relazioni, determinate da un'ulteriore parte, particolari in base all'attività economica e produttiva: un prototipo di classe che poteva rimanere tale.
La formazione dello stato precede anche la formazione della classe, come la subordinazione inter tribale e la trasformazione delle relazioni o meglio dà a tutte queste cose l'aspetto di prototipi: prima dello stato, relazioni asimmetriche tra lignaggi, federazioni asimmetriche tra tribù e relazioni particolari dentro lignaggi, clan e tribù, sono prototipi, ombre, fenditure, dopo la stato sono matrici, chiarezze e linee. L'asimmetria diviene norma, modo di essere della società; nasce, anzi, la società, il corpo sociale.
Fu qualche 'cosa' di oggettivo, certamente la relazione asimmetrica, basata sul debito e sul credito, a fare in modo che debito e credito divenissero precisi e immutabili, una tribù dominante e l'altra subalterna, una proprietà particolare e un'altra comune, ma soprattutto un'intenzione, una soggettività sviluppatasi su questa asimmetria. Nacque lo stato prima delle classi anche se nacque con quelle in seno come entità inespresse, se non le avesse avute nel suo seno non sarebbe nata, non sarebbe derivata la soggettività che decideva di dare espressione all'inespresso: questa soggettività non avrebbe, infatti, trovato dentro clan, lignaggi e tribù dei referenti, dei solidali, degli agganci e i futuri rappresentanti di sè stessa. Questa nuova soggettività non avrebbe, inoltre, trovato degli strumenti per dividere l'indifferenziato sociale in differenze, in corpi separati e in organismi sociali.
Con la struttura dello stato si affermò il suo ingranaggio sociale, che prima era una potenza non espressa, il rapporto privilegiato con il possesso della terra, che prima era privo di conseguenze di relazione e si sviluppava dentro relazioni simmetriche, divenne un rapporto codificato, una relazione che coinvolgeva non solo il proprietario ma anche i soggetti esterni alla proprietà, una relazione di dominio. Gli assiomi relazionali, comunicativi e produttivi profilerarono codici, stravolgendosi, caricandosi di precisione e immutabilità: la terra era ancora in larga parte sottoposta all'uso comune della tribù, ma non era della tribù, poiché la relazione diretta della tribù con la terra diventava indiretta a causa della presenza e rappresentanza del re e dello stato. Il re assumeva la garanzia sulle risorse, definendole e chiamandole, scrivendole e catalogandole: lo stato fu fin da subito archivistica e geografia. Sotto un altro aspetto e livello la terra rimaneva usufrutto comune esteso a tutti i membri dei clan e dei lignaggi ma alcuni, partecipando alla soggettività regale e statuale che comportava un impegno presso lo stato, assumevano il privilegio di distribuirla e di usarne in maggior misura. I clan esistevano ancora, con tutti i loro significati di schiatta, parentela, relazioni interne, ma una parte di queste relazioni doveva guardare e essere pensata a qualcosa di esterno, l'insieme degli altri clan che, attraverso il re, si presentava in maniera uniforme, indifferenziata e astratta, un insieme di organi, la demografia del regno e dello stato. Gli assiomi etici, gli stili di comportamento, le tradizioni e le attitudini si trasformarono, non rivoluzionandosi ma stravolgendosi, ribaltandosi nella loro forza genetica, in norme morali. La proprietà privata non è indispensabile allo stato e al monarca e alla loro affermazione: è necessario il concetto di proprietà, di cio che è proprio e non comune. Lo stato e il monarca fanno proprie (e non privatizzano) le risorse economiche, soprattutto la terra, e sottopongono i clan e i lignaggi, gli uomini, a questa diversificazione dell'immagine delle risorse, li sottopongono a un codice di dominio. Pur spesso non avendo o avendo pochissimi schiavi e servi le società statuali primitive e primordiali sono società schiavistiche, nelle quali la servitù è una condizione antropologica assolutamente normale: rappresenta, infatti, la possibilità limite, la quintessenza, dell'espressione delle relazioni asimmetriche protette e incentivate dallo stato.
Anche l'uomo libero e più tardi la proprietà agnatizia, la proprietà privata, sono sottoposti alla normalità della condizione servile dove il proprietario  ha in usufrutto la terra dal monarca e dallo stato. La fiscalità agricola che contraddistingue l'impero romano è il segno tangibile di questa situazione giuridica: la proprietà privata è un usufrutto ereditario. Solo con il feudalesimo, quando la proprietà privata  incorona
letteralmentelo stato e i beni della corona divengono i beni privati del re, si fa avanti l'idea giuridica di una proprietà prediale piena, libera che discende dal colmo della piramide per diffondersi nel corpo sociale e lo sviluppo delle classi acquisisce una relazione davvero diretta con la proprietà e le sue vicissitudini. Il feudalesimo fu un fenomeno moderno sotto il profilo dei rapporti di produzione.

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Tra stato classico e feudale esiste una netta contrapposizione sotto il profilo della giurisprudenza relativa ai rapporti di produzione: nello stato feudale la proprietà privata emerge come potenza sociale, capace di definire e innervare i rapporti sociali, potenza che manca alla grande proprietà dell'epoca classica. Legami e legacci alla proprietà permangono ma sono legami e limiti posti sulla proprietà e non innervano la proprietà e la sua essenza.  C'è però un elemento di continuità per il quale il sacro romano impero non ha usurpato il nome dell'impero classico: lo stato feudale è tendenzialmente assoluto, eredita i caratteri accentratori dello stato classico e, malgrado le contingenze storiche che in parte offuscano questo carattere, con molto maggiore forza proprio in ragione della necessità di controllare la nuova potenza dei rapporti di produzione. Nello stato feudale il centralismo, che nello stato classico era realizzato dall'alta burocrazia militare e amministrativa, viene supportato direttamento dalla classe dei grandi proprietari, dall'aristocrazia. Nello stato classico il ceto economicamente dominante non era integrato nel governo dello stato, in quello feudale vi è invece coincidenza tra i due elementi. Lo stato capitalistico è davvero, sotto questo profilo, la sintesi dei due: rivaluta l'esperienza del governo burocratico ma la sostiene con l'intervento diretto della classe egemone economicamente.

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Sotto altri profili una comparazione tra stato classico o primitivo, stato feudale o moderno e stato capitalista o contemporaneo induce a scrivere che il primo riproduceva e formalizzava le relazioni asimmetriche presenti dentro le comunità, il secondo le assumeva in sè, rendendole costituenti di sè, l'ultimo le formalizza, le assume e le rende perennemente costituenti.

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Il linguaggio ha perduto il suo valore oggettivo e non si può parlare in una stessa nazione o città di omologia di linguaggi. Ogni individuo sembra dominato da un suo codice comunicativo, da un significato che imprime alle parole, alle impressioni e ai concetti.

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I linguaggi hanno assunto un'estrema libertà, questa libertà è diversificazione; pensiamo al linguaggio di un parlamentare e di una femminista, di un coatto nella curva dello stadio e all'operaio nella fabbrica. Ognuno sente legittimo, ha assunto la legittimità, di esplorarsi e di esplorare gli altri e di esprimere questa esplorazione. Il problema sta nel fatto che la diversificazione ha sciolto il terreno oggettivo del linguaggio, l'elemento unificante, per cui tutta questa libertà, diversificazione, produzione di oggettività specifiche e individuali, determina il suo contrario: il crollo del linguaggio e della circolazione comunicativa verso il silenzio. Le distinzioni, inoltre, che passavano tra classi e gruppi sociali sono, sotto il profilo del linguaggio, cadute e le distinzioni si sono estese, ramificandosi, creando gerghi e sotto gerghi, quello del coatto che va allo stadio e quello del coatto che sta in quartiere, ad esempio, che spesso neppure si assomigliano. Siamo di fronte e sperimentiamo la possibilità di un'incredibile libertà che, però, ci condanna all'isolamento e alla solitudine; da una parte abbiamo acquisito o riacquisito l'audacia nel sentire ed esplorare ma dall'altra abbiamo finito per percepire, alla fine di questo nuovo sentire, il mondo come libero scorrimento, vortice instabile. È anche vero che lo stesso aspetto del mondo di oggi, come continua e repentina trasformazione, spiazzamento, ci induce a essere audaci con noi stessi e quindi a sotterrare il valore oggettivo del linguaggio e a lanciarci nell'esplorazione libera e diversificata.

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Tutti i linguaggi non hanno più un significato comune e univoco, ma solo delle analogie, qualcosa di simile alla scrittura che è comune e alla lettura che è particolare. Il sistema sociale attuale ha tra i suoi scopi principali, vitale direi, quello di creare codici significativi, catene di significati, ai quali sono assolutamente indifferenti i significanti che verranno usati per rappresentarli. La relazione tra significato e significante non è fondamentale. Un'operazione finanziaria ha significato, è un significato, in sè, insieme con tutta la catena di significati conseguenti che si porta dietro e determina: profitto, investimenti e via discorrendo. Questi saranno i suoi significati minimi ai quali possono essere associati moltissimi significanti, a seconda del linguaggio che usiamo (speculazione, accaparramento, sfruttamento, tesaurizzazione, privatizzazione etc. etc.). Mancano le relazioni oggettive, perchè il significato si libera dalla relazione con il significante, poiché il significato si giustifica da sè medesimo. Si ha un'estrema libertà nei codici comunicativi ma un'assenza di una formalizzazione dei loro significanti. Questo significa che questa libertà è apparente, perché il significato si riduce a sè stesso e come tale è chiuso in sè, inspiegabile, in una parola dittatoriale e trascendente, tutto il contrario di libero. C'è alla fine un solo modo di chiamare le cose e una solo maniera di chiamarle, ma dentro una babele di linguaggi e di significanti ininfluenti al significato.

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Il significato di un'operazione finanziaria ha gradienze infinite, è formata da dati finanziari che possono cambiare di continuo e continuamente introdurre nuovi significati, un po' come per la frase "sono felice".

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Si prospetta una guerra, aperta: da una parte processi altri e indipendenti, liberi, codici empre più diversificati, dall'altra processi di accentramento del capitalismo e dello stato, ma soprattutto dello stato. Lo stato oggi garantisce il controllo militare non tanto per esercitare la guerra ma produrre messaggi di guerra potenziale contro i proletari, per esibire la guerra. Si è giunti in un vicolo psicotico, nel quale è una scissione tra una macchina economica che è creatrice di merci e che è merce essa stessa, in ogni sua componente, che non ha bisogno di una struttura connettiva perchè è essa stessa il tessuto connettivo, e questo è il capitalismo contemporaneo, e una macchina sovraeconomica, politica, torturante, che ha preso in ostaggio, la usa e codifica la macchina economica, la rallenta e frena. La dimensione della guerra salva la macchina politica e le ridona giustificazione.

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Quello che si prospetta è una stato assoluto, lo stato assoluto della borghesia, che non è assolutamente pacifico per la borghesia come non lo fu quello di Luigi XIV per gli aristocratici. Questo stato può meglio dire, rispetto a re Sole: "Lo stato sono io, Dio sono io e nient'altro è al di fuori di me". Uno stato assolutizzante la realtà, attraverso quello lo realtà si separa da sè stessa, anche quella che cerca di preservare e difendere dagli attacchi; questi attacchi, infatti, sono interni alla realtà che cerca di difendere e preservare, il sistema economico non conosce esterni, e il vero rischio è il suo sviluppo. Perchè questo sviluppo continui a essere capitalistico deve privarsi di molti elementi del sistema capitalistico, deve privarsi della logica stessa dello sviluppo: perché la merce e il mercato continuino a essere delle relazioni sociali dominanti devono per alcuni aspetti perdere alcune caratteristiche della merce e del mercato. Questo stato, che istituisce l'intelligenza collettiva della borghesia, ben rappresentata dal suo anonimato finanziario, fa i conti con la realtà che assolutizza, che separa da sè medesima, e
proprio perchè organizza la borghesia e non l'aristocrazia del XVI secolo, è un'entità polimorfa, capace di seguire lo sviluppo, un camaleonte, attento a ogni momento di crisi nello sviluppo. Lo stato attuale ha due sguardi: uno volto verso lo sviluppo e il sistema sociale e uno volto verso sè stesso, in una continua comparazione. Questo sguardo richiede il puro dominio e come tale è incontrollabile, non deve subire controlli: costitutivamente lo stato dell'attualità e quello che si prospetta sarà uno stato sempre meno democratico e sempre più autoritario. Se, però, il dominio risulta sempre meno controllabile, anche il processo che il dominio assolutizza lo sarà e così i gruppi sociali e le classi che si formano e si formeranno: lo sviluppo, guidato dall'intelligenza collettiva della borghesia, sarà sempre più vorticoso ma ricondotto a un unico linguaggio, determinerà l'esplosione di linguaggi ricondotti a un unico linguaggio assolutizzato e incontrollabile e quindi fittizio, una tale babele dove, a un certo punto, non si saprà quale sarà il linguaggio fondante del sistema economico e sociale e alla fine, ancora una volta, solo la potenza militare, la guerra esercitata o esibita sarà decisiva, per rappresentare la necessità dello stato.

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Il significato del mondo è la creazione di sè stesso. Il significato crea significato e così facendo trova il suo significato che è interno e non ha esterni. Lo stato e il capitalismo, oggi, sono l'esatta imitazione del mondo: il capitalismo produce produzione mentre lo stato produce dominio sulla produzione. La funzione dello stato, un tempo,è stata quella di creare potere ma anche di creare società, cioè di costruire dei referenti sociali con i quali costituirsi e questo ancora agli albori del capitalismo: l'esistenza dello stato era la condizione indispensabile per lo sviluppo della società capitalistica, per la sua deghettizzazione dall'alveo dei rapporti sociali feudali. Una volta, però, deghettizzata, l'economia capitalistica ha preteso dallo stato di più di quanto non richiedessero allo stato il feudalesimo e la proprietà feudale: non solo di cambiare i referenti per la sua struttura ma soprattutto di cambiare istituzioni, forme di rappresentanza e di esercizio di potere. La borghesia ha chiesto allo stato di rappresentare in maniera puntuale la società e dunque di fare politica nel senso moderno del termine.
Oggi, però, la società capitalistica, la macchina sociale ed economica, è arrivata a un tale livello di sviluppo da porsi in contrasto con le stesse leggi che ne regolano lo sviluppo: la macchina stessa è diventata sviluppo ed ha perso i suoi meccanismi e il suo corpo. Lo stato, allora, non può più produrre società (come faceva nell'epoca classica, durante il feudalesimo e nella prima fase del capitalismo) perchè gli spazi per la produzione della società sono completamente in mano al capitalismo come movimento sociale ed economico, perchè, in una frase, la società è già stata prodotta tutta.
La macchina economica e sociale, coinvolgendosi interamente nella produzione, marcia contro i suoi stessi presupposti e quindi anche contro lo stato; lo stato, allora, può solo svilupparsi in ragione del controllo della macchina, fare in modo che quella macchina sia ancora macchina e abbia degli agganci per l'azione, per l'ingranaggio, statale. Il lavoro dello stato cessa di essere rappresentanza e diventa quello di dominio, anche sulla macchina economica e sociale.
Oggi lo stato è puro, chimicamente puro, dominio di classe sull'organizzazione sociale, senza che si riconosca neppure la classe che domina. Lo stato assoluto borghese non può dialettizzarsi con la realtà, ma può solo astrarla e assolutizzarla, separarla da sè medesima, la classe dei capitalisti coincide con lo stato e lo stato si fà società, ma entrambe le cose avvengono solo in funzione del controllo e non più, come prima, della creazione di significati e di segmenti sociali. Lo stato capitalistico diviene, separandosi dai suoi presupposti originari, astratto e assoluto in forme nuove: si fa essenza di tutte le tendenze stataliste della storia, stato degli stati, e anche ultimo degli stati dopo di quello non un nuovo stato ma un superamento dello stato.

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Il nostro grande nemico è dunque lo stato? Certo lo stato è uno dei grandi nemici, ma considerarlo 'il grande' è fare nostra la frase: "Non avrai nulla al di fuori di me" che lo stato continua a recitare a tutta la macchina sociale ed economica. Ma in realtà lo stato è 'grande' solo per il potere che la macchina economica e sociale fa scendere in lui, gli concede per timore di dissolversi attraverso il suo progresso.
Esiste oggi ancora un terreno dialettico in senso tradizionale che imposta la relazione tra dominati e dominatori, il vecchio e ancora attuale concetto di sfruttamento. Non esiste più, invece, una dialettica presente - futuro o meglio stato di cose presenti / stato di cose future, una situazione che vive nel presente sulla quale elaborare una situazione futura, per il semplice fatto che lo stato degli stati non lascia  alla macchina sociale ed economica
nessuno spazio di immaginazione se non in senso negativo, di distruzione dello stato (sia di parte capitalistica che proletaria, sia di parte liberista che rivoluzionaria). Esisterà uno stato post - capitalistico? Esisterà una politica negativa dello stato onnicomprensivo e totalizzante del capitale che non condurrà alla fine del capitalismo?

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Dopo la fine dei terreni inesplorati, conosciuti, dopo la fine del nuovo, interessa riscoprire il vecchio, piuttosto che accettare la fine della possibilità di avventura.



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