pensieri chimicamente puri (1982)


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Desiderare esplicitamente di fidarsi del tutto di una persona significa amarla, ma la fiducia completa e perfetta non può esistere perchè non ha precisi confini. Amare è un'invenzione.

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L'amore concepito come naturale usufrutto dell'altro genere è cosa che spesso rimanda a questioni di immagine sociale oltre che di sicurezza interiore o meglio a queste due questioni che vanno trattate come speculari e complementari. L'innamorato si sente rassicurato dall'avere un amore nella misura in cui lo costruisce come una relazione pubblica e accettata secondo  una chiara ostentazione di normalità. La coppia è prova e garanzia di normalità. 

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Queste conclusioni non devono scandalizzare. So che considerano l'amore e la relazione tra i sessi come una faccenda che riguarda il conformismo, l'abitudine e dunque meschina. Vedo molta meschinità, però, tra uomini e donne, quando si tratta di praticare l'amore, anche se i più accorti tra quelli scrivono e dichiarano pulsioni romantiche, richiamandosi a quella poetica, quasi filosoficamente intesa. Il movimento romantico è, sarà ed è stato solo un'illusione e una brutta illusione, quella che apparteneva a chi ha mascherato la sua cattiva coscienza.

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La principale ricerca dell'uomo è la sicurezza. L'uomo ricerca sicurezza di sè, sicuro sentimento di sè, e per ottenere questa non ha uno strumento dentro di sè ma solo negli altri. La sicurezza individuale ha bisogno, per realizzarsi, degli altri e gli altri divengono un mezzo per la nostra sicurezza, il mezzo per la soddisfazione della nostra ricerca. Chi non si adegua a questo scopo, chi non ricerca questo tipo di sicurezza, (pur ricercandone qualcun'altra ma di diverso genere) o è folle o rischia di diventarlo.

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Il folle si domanda: "che sicurezza può essere se mi viene dagli altri? Io ho bisogno di più, io ho bisogno di me stesso". Chiedere di sé stessi è una domanda irrisolvibile, troppo grande, anche se giusta e giusta proprio perché troppo grande.

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Il mondo si fonda su questo necessario cinismo e si appiattisce su quello. È stata una decisione alla base di questo sentimento, tanto è vero che l'uomo, come specie, è consapevole di questo necessario cinismo e ha, in genere, una visione mesta del mondo, triste e rassegnata. Il folle controbatte, allora, che il mondo non esiste e ne esce, abbandonando l'ideologia del necessario cinismo. Entrambi, però, il folle e il sano, condividono la consapevolezza che ogni più piccola mutazione in loro è subordinata alla necessità di sopravvivere e, quindi, alla sicurezza di sè. L'uomo non è coraggioso fino al punto di distaccarsi dalle piccole e infinite reazioni immediate indotte dal meccanismo sociale e storico e vive quello che, sotto ogni profilo, dovrebbe essere il suo prodotto, la sua creatura, come una potenza astratta e impersonale che gli è ostile e nemica. Rompere con il mondo senza uscirne, vale a dire non seguendo l'esempio e la strada dei folli, richiederebbe una grande spinta, una grande energia, una chimica ed economia interiore di grande respiro ovvero l'abbandono del principio di adattamento minimo.

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L'esperienza della vita ci fa chiaramente esperire come i sentimenti non sono per nulla disinteressati, anzi sono il prodotto dell'interesse, del nostro personale interesse. È spaventoso, invece, che alla purezza dei sentimenti si sacrifichi la verità su quelli; è tremendo il fatto che anche dopo averlo scoperto e sperimentato siamo naturalmente portati a rinnegare e respingere questa scoperta perchè entra in aperto conflitto con la nostra idea di sicurezza e di sopravvivenza. Anche qui si tratterebbe di mettere in questione la banalità di adattamento, sopravvivenza e sicurezza di sè, rivendicando il ruolo della nostra specie.

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Cosa significa vivere la vita? Ragionare sulla vita e prendere delle decisioni, due cose apparentemente complementari. In verità sono in contrasto: per prendere delle decisioni non bisogna ragionare sulla vita. Se si assume il ragionamento sulla vita come metro delle nostre decisioni nella vita si finirà per non prendere decisioni. Ogni risoluzione, infatti, analizzata pensando al fine della vita, ai suoi scopi generali, entrebbe costantemente in concorrenza con un'altra o mille altre. Ragionare sulla vita diviene presto e naturalmente dubitare sulla vita. Non bisogna, dunque, ragionare sulla vita per vivere la vita: è una semplice regola e necessità.
Lasciamo, inoltre, da parte non solo il ragionamento su fini e scopi ma ancor di più sul senso della vita, perchè ci condurrebbero in un batter d'occhio a non poterne individuare neppure uno: che senso può avere un ammasso coordinato di molecole di carbonio in una galassia periferica dispersa in mezzo a migliaia di altre galassie e aggregati di carbonio organico vari ed eventuali? Assolutamente nessuno. Se si dovesse vivere la vita tenendo presente questa dimensione del ragionamento ci si renderebbe conto di muoversi in un'entità assolutamente priva di senso, non potendo più dare un senso compiuto alle proprie azioni, volizioni e decisioni. Per agire nella vita bisogna presupporre una cosa non - vera, non necessariamente sbagliata, e cioè che la vita abbia un senso e il suo significato è racchiuso nel non indagarlo. Si usa e si deve usare la componente più epidermica della nostra ragione, ma è conveniente e, perciò, intelligente, anche perchè la componente profonda serve a ben poco.
L'arte della sopravvivenza, e non interrogarsi sulla vita fa parte di quella, richiede, quindi, il ritorno o la conservazione di una fase mitica e mitologica: il mito del bisogno di vita, la teoria e rappresentazione della carica animalesca dell'animo umano e della mente umana. Quello che permette all'uomo di sopravvivere e di continuare a vivere è proprio la sua natura animale che disprezza la ragione quando si rivela inutile alla sopravvivenza.

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La natura umana non è altro che la ragione, la  percezione e l'immaginazione. La natura umana non è contrapposta alla ragione perchè la ragione ne fa parte, è parte costitutiva di quella, non c'è un separato tra ragione e natura umana. La natura subordina la ragione allo stesso modo in cui la ragione subordina la sua natura. È un processo biunivoco perchè non può essere che tale, anche se ragione e natura non coincidono perfettamente. Soprattutto nei bambini è visibile e si manifesta questa non coincidenza. Natura e ragione, infatti, tendono entrambe al medesimo fine che è il bene e il piacere dell'uomo sotto profili diversi e con metodi diversi che, nella crescita, convergono, ma rimangono tali. La natura è fonte dell'energia emotiva, che è percepibile dalla ragione e interpretabile, la ragione la media nei confronti dell'estrerno, di quello che sta fuori dall'individuo, siano altri individui, siano altre realtà. Per usare una metafora storico - politica, la prima fornisce le forze sociali, la seconda elabora, in loro nome, strategie e tattiche. Solo una capacità di compromesso corrispondente alle richieste della natura rende l'uomo libero nel piacere e nel bene; la ragione concede consapevolezza, coscienza di sè alla natura, all'istinto che, alla fine, è un istinto razionale. L'infelicità e la mancanza di libertà (che sono la stessa cosa) non nascono da una guerra naturale e spontanea, innata, composta tra natura e ragione ma dall'esterno che non permette il compromesso, che non concede alla ragione di esercitare il suo ruolo. La natura, allora, giunge a rinnegare, per rivolta, quello che è parte di sè, la ragione, a considerarla ostile e nemica e a identificare la felicità e la libertà in quello che non è coordinato dall'opera della ragione, perdendo, così, coscienza e senso anche per sè.

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Uno dei principali motivi della ribellione della natura contro la ragione è l'educazione dell'uomo. L'educazione si prefigge, come primo obiettivo, di portare fuori l'uomo dalla sua natura, sottoponendolo a comandi e imperativi non discutibili. Facendo così l'educazione non fa appello alla ragione, ma solo alla lotta contro la natura e si dimostra irragionevole. Nello stesso tempo, però, necessariamente l'educazione si veste dei panni razionali (altrimenti risulterebbe incomprensibile alla natura umana) in modo tale che la ragione finisce per non poter esercitare la funzione che le compete, mediare interno e esterno, con lo scopo di sopprimere l'interno per identificarlo con l'esterno. La natura si ribella a quella che è, a tutti gli effetti, una rivolta della ragione contro di lei e finisce che natura e ragione cessano di parlarsi: la ragione prende il posto della natura e la natura quello della ragione.

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Lo strapotere dell'elemento razionale che l'educazione comporta fa in modo che l'uomo educato sia funzionale e funzionante nella conservazione e persistenza della società organizzata dall'apparato educativo. La ragione si fa propugnatrice dei principi di dominio e servitù come cosa naturale, come appartenenti alla natura umana, ovvero alla sua stessa natura. I principi educativi sono naturali per la ragione e presenti nella storia umana fin dalle origini, in quanto la nostra specie si è sempre realizzata nella forma di una società organizzata; la ragione stessa ha il compito di mediare interno ed esterno. Le società organizzate secondo diseguaglianze e dominio organizzano naturalmente apparati educativi adatti a rendere l'esterno subordinante l'interno, la ragione subordinante la natura, e a fare della ragione qualcosa di diverso da quello che è. Il potere della ragione, dell'elemento razionale, così espresso e organizzato non significa affatto maggiore razionalità nella vita associata e nelle relazioni tra gli individui ma una nuova forma di ragione, una ragione collettiva e anonima, una ragione storica.

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L'uomo nel quale la ragione e l'istinto naturale siano coincidenti o meglio pacificamente conviventi non è compatibile con una società dove alcuni uomini non hanno intenzione (per molteplici motivi) di lasciare liberamente vivere gli altri uomini. Anzi quell'uomo libero non è possibile, non solo non è compatibile. A livello psicologico si verifica quello che accade a livello sociale in un rispecchiamento: la realtà esterna assoggetta quella interiore. Tutto questo genera infelicità, mancanza di felicità e di bene, non coincidenza tra natura umana e ragione, tra istinto e il suo componente fondamentale nell'uomo. Poichè però la tendenza al bene, al piacere e alla felicità che ne deriva è naturale nell'uomo, allora è anche necessaria e naturale la soluzione del problema della società, dell'esterno: l'uomo vuole cambiare il mondo che lo circonda perchè lo deve fare, gli è necessario farlo.

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L'inconscio della psicanalisi è una rappresentazione della natura umana, uno sguardo comandato e limitato, educativo. Non ci si racconti la storia della guarigione di un malato, di un paziente: la guarigione assomiglia troppo a una nuova educazione, una rieducazione psicologica alla compatibilità, dunque a una rieducazione sociale.

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Se consideriamo la grande funzione del cristianesimo nella storia sociale la scopriamo come una storia pisicologica, una scoperta della socialità della psicologia. Il cristianesimo è stato una sistematica frustrazione dell'istinto naturale a favore della ragione, una ragione sistemica: la morale. Neppure il platonismo si era spinto così avanti e così a fondo nell'individuo come il cristianesimo con lo scopo di governare la natura umana attraverso la ragione o, meglio, attraverso la negazione della ragione naturale e l'affermazione di una ragione universale e astratta, completamente estranea all'individuo. Il cristianesimo è stato, nonostante gran parte di sè stesso, la prima vera religione integralmente razionale e morale della storia dell'umanità.

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Il cristianesimo passa come religione mistica, qualche volta si è piccato di esserlo, se ne è inorgoglito. Non è molto credibile che l'esperienza mistica sia preponderante nell'esperienza cristiana, anzi è molto più credibile non ne faccia neppure parte. Nei vangeli il misticismo è sconosciuto, solo l'apocalisse di San Giovanni propone un'estasi, anche se indirettamente rappresentata. La vita di Gesù è la vita di un uomo. Attraverso la mistica il cristianesimo cerca di difendersi da quello che è stato storicamente: un complesso, un edificio razionale e morale ed educativo.
I veri mistici furono marginali all'interno del movimento storico dei cristiani; emblematico il caso di Francesco d'Assisi che solo dopo morto fu considerato o meglio riconsiderato dalla gerarchia ecclesiastica. Ancora di più emblematiche le scomuniche contro tutte le eresie a contenuto mistico (catari, bogomili e pauliciani) che pretendevano di riportare la ragione dentro l'istinto naturale, conciliandoli in modo magari improprio ma questa conciliazione era profondamente impolitica.

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La giustificazione del cristianesimo di fronte a sè stesso è del tutto razionale di essere, cioè, un apparato razionale nonostante il mistero dell'incarnazione, della resurrezione e numerosi altri incredibili casi. Anzi la incredibilità è l'altra faccia di una religione razionale che altrimenti temerebbe di perdere ogni connotazione religiosa. Il terreno della mediazione sociale, terreno 'razionale' per eccellenza, è stato genetico del movimento cristiano: basta pensare al famoso "date a Cesare quel che è di Cesare" di fronte al nazionalismo ebraico. Il cristianesimo è stato il cane da guardia della morale che ha, in buona parte, inventato alla storia e ha davvero cambiato la storia.

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Il misticismo cristiano si è limitato a dichiarare una guerra senza quartiere contro la natura umana, intesa come unità consapevole tra istinto e ragione, scindendo la ragione contro l'istinto. Il misticismo cristiano non fa riferimento alla 'forza sociale' della mente, la natura istintuale, ma alla forza di controllo della mente, la ragione e come tale non è mistico, non è energia verso l'ascensione. Il 'misticismo' cristiano è l'antiporta della psicologia clinica, ha creato le condizione per l'invenzione della psicologia come strumento di educazione e rieducazione sociale.

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Non interessa sapere se fosse stato o chi fosse stato Gesù Cristo, basta sapere cos'è stato il cristianesimo.

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Le grandi religioni monoteiste (cristiana, ebraica e mussulmana) sono il prodotto degli scarti mistici, ormai inutilizzabili, della religiosità classica e sono espressamente tre religioni morali di massa. Le caratteristiche di moralità e massificazione sono interrelate tra di loro: la morale divenne fenomeno di massa sotto l'aspetto della sua interpretazione razionale.

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Il misticismo non è da meno della morale, agisce con altri mezzi, con altre forze rispetto alla morale ma cerca di ottenere il medesimo risultato con un altro sforzo. Lo sforzo rimane concentrato sull'individuo, ovviamente. Il misticismo studia la natura umana, l'istinto, la sua chimica e la sua percezione, non lo rinnega ma lo riutilizza. Le pratiche mistiche sono quasi sempre corporee, assomigliano qualche volte a pratiche rivolte alla sfera della sensibilità sessuale e cercano di interrompere la comunicazione tra natura e ragione dal punto di vista della natura, dell'emozione e della sensazione: il dolore diviene piacere mentre il piacere si trasforma in dolore. Il misticismo fu ed è una morale che si muove al di fuori dei territori della morale.

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L'esperienza mistica ricompone l'unità tra natura umana e ragione, proiettando l'uomo in una seconda realtà emotiva nella quale ogni legame logico e analogico con la realtà esterna viene rivisitato e la realtà diventa un sistema di simboli; la ragione, in tal contesto, ha il compito di riscrivere la realtà esterna in funzione di questa rivisitazione. L'esperienza morale mette al centro dell'unità tra natura umana e ragione l'adattamento alla realtà esterna che rimane indiscutibile e incontestabile. Sono entrambe esperienza manipolatorie della relazione tra natura e ragione.

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Perché temere la morte? Eppure il problema della morte ha dominato l'esperienza morale degli uomini. La morte è stato il nero spettro, sempre aleggiante, di tutte le società morali, più forte della vita poichè più educativa, e in un mondo in cui l'educazione è fondamento della vita sociale naturalmente più importante della vita. La paura della morte è un fenomeno morale, è richiesta dalla morale. La morte è divenuta la misura della nostra esistenza. Nelle società morali la ragione si impone come autorità collettiva, anonima e indipendente dagli individui e l'emulazione è divenuta il cuore stesso del vivere associato: imitare gli altri, ottenere il loro medesimo adattamento alla vita e alla privazione di sè. Questa emulazione guarda al presente ma si distende anche verso il passato, verso quello che ci ha preceduto. Lo spirito di emulazione che la morale richiede e che è parte integrante di quella ci costringe a temere che la durata della nostra vita (lo spazio noi concesso) non sia sufficiente a imparare la nostra parte in quella e a farci adeguati. Allora la morte diventa limito estremo, invalicabile, la fine di tutto e, sopratutto, sinonimo di sconfitta. Pensiamo a quanto la tematica della morte sia stata sviluppata nel cristianesimo, fin dalla gioia dei martiri davanti alle persecuzioni imperiali. La morte diventa, nel cristianesimo, estremo valore e, al contempo, completo disvalore e guida della vita.
Perchè, chiedo nuovamente, temere la morte? Non esiste motivo per temere la morte che è come prima cosa qualcosa che non è, cioè è fine dell'essere e della percezione e, quindi, non essenza e non esistenza. Quello che non si conosce, e la morte non la si può conoscere o vivere, non esiste. C'è, infatti, un'altra paura (estremamente vitale) a farci temere la morte che è appunto la perdita di senso della vita. Certo quello che viene detto dalla scienza accreditata istinto di conservazione spinge l'uomo, come qualsiasi altro animale, a fuggire la morte ma trasformare una fuga in timore costitutivo della vita è tutt'altra cosa. Quanto la psicanalisi freudiana esalti il ruolo della morte nell'individuo e nella sua esperienza esistenziale è sintomatico del suo debito verso la morale e il cristianesimo; la morte, al contrario, non esiste, è una cosa che va fuggita, evitata proprio perchè non è esistenza e l'esistenza è tutto e poiché è tutto non è anche la morte nel senso freudiano e cristiano.

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La morte è diventata un mito, quindi qualcosa che trascende se stessa (la non - esistenza) per diventare una realtà quasi concreta (pensiamo all'ospedale che conduce all'obitorio di epoca moderna e contemporanea) e organizzata: un fenomeno sociale con innegabili aspetti economici e logistici. Tutto l'onore che viene concesso alla morte, tanto nel mondo 'laico' quanto in quello religioso, quello strano rispetto che la rende manifesta in cerimonie attentamente omologate, omogenee, il più possibile uguali, il più possibile indifferenti alla vita dell'individuo è il segno di un generale appiattimento delle esistenze. Le società regolate da leggi morali costruiscono il mito della morte, quasi come momento egalitario che manifesta la generalità della sopraffazione esercitata, e in tal maniera costituiscono il mito si sè medesime. L'esistenza del suicidio, che spesso è un'estrema ribellione verso questa inscindibilità tra vita e morte, non fa che rinforzare la generalità di questa mitologia: anche il suicida è un morto, un caso clinico, come tutti gli altri.
Per usare Freud, l'istinto di conservazione ha assunto nelle società morali valore fondante nella convivenza. al di là della morte e oltre la morte, mentre il principio di piacere è diventato un disvalore, un nemico da combattere e dirottato verso un timore, il timore della morte, che è la sua negazione mentre apparentemente lo realizza. Principio di piacere si è trasformato, spesso, in pulsione verso la morte (Eros e Thanatos).

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Definita la ragione, la razionalità, come un evento anonimo, collettivo, slegato dalla natura umana e astratto (secondo l'accezione marxiana del termine), la costruzione del mito di sè stesse da parte delle società morali ha comportato la costruzione di un'immagine razionale, rigorosamente razionale, della società. La società è divenuta razionalità in essenza e le sue divisioni, le sopraffazioni e le violenze naturalità. La società si propone come essenza della razionalità storica, astrazione di un principio eterno ma predisposto (storico appunto) nato in guerra aperta contro l'istinto di natura dell'uomo e la sua complessità.

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L'istinto di natura umano è quel sentimento che desidererebbe l'uomo completamente libero e abbandonato ai suoi bisogni. L'uomo senza coscienza di sè. A questo, nella sua attività manipolatoria, la morale contrappone la negazione dell'istinto così concepito, come privo, cioè, di ragione e di percezione di sè, vale a dire un uomo costituito di estrema e astratta coscienza di sè, niente altro che coscienza di sè che è, alla fine, coscienza di nulla.
Allora, svelato questo contesto, si scopre quanto difficile possa essere la riconciliazione tra la parte istintuale, la natura umana, e la ragione, poichè posti in antagonismo e non in diversità, e quindi giungere, per l'individuo, a un'autentica coscienza di sè, percezione di sè.

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La coscienza di sè nasce solo dalla diversa azione tra i due poli (natura e ragione, 'istinto' e 'razionalità) e dalla generazione di un piano di unificazione del loro operato, che sia, quindi, cosciente dell'uno e dell'altro polo, anzi che sia una cosa unica e una coscienza unificata di sè.

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La coscienza unificata di sè è la vera ragione, la vera 'razionalità', che rende evidenti alla natura, all'istinto, gli ostacoli al suo sviluppo 'onnipotente'. Questi ostacoli sono immediatamente percepibili: la presenza di altri individui e della realtà esterna. La vera ragione cerca di instaurare una relazione con l'esterno che sia armoniosa con la natura umana e quindi se dovesse trovare realizzazione sarebbe e punterebbe alla distruzione della ragione e razionalità sociale dominante, come espressione di una falsa armonia, un'armonia completamente esterna all'individuo. Questa sintesi è l'uomo in sè e per sè, che non è un'entità immutabile, poichè è prodotto della relazione e verifica tra interno ed esterno, ma è un processo, un'evoluzione mentre la ragione sociale pretende di avere una sua eternità predisposta.

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Il sentimento mistico è un sentimento comune alle persone di più alta sensibilità; è impensabile il misticismo in un profeta della morale e della ragione sociale che cercano sempre l'appiattimento e la semplificazione. È altrettanto impensabile il sentimento mistico in chi amministra il potere, almeno nel momento in cui si dedica a quell'attività, che è dominata dalla necessità di controllare gli individui e gli eventi e non di comprenderli. Il mistico è alla ricerca di una ragione e di una capacità dialettica diversa da quella sociale e dominante anche se, alla fine, assumendo il misticismo come via di rifugio, contribuisce a celebrare la morale. Solo in questo senso, e non quando sono potenza morale, le religioni sono state oppio dei popoli.

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Quante volte ci si trova di fronte a persone delle quali sappiamo che hanno posizioni e idee sul mondo immutabili e ancora di più idee sulla vita immutabili. Queste persone assumono sempre gli stessi comportamenti o espongono sempre gli stessi concetti. Spesso, se criticati, assentono, ammettono la loro fissità ideale e comportamentale, ma poi ignorano quelle critiche e perseverano in idee e comportamenti, giustificandoli, però, in altro modo: fanno il verso di cambiare la causa per mantenere fermo l'effetto. La loro unica capacità apparente è quella di non ragionare, o meglio di ragionare allo scopo di evitare il ragionamento. La responsabilità di questa curiosa ma infida decerebrazione non è comunque loro, o meglio tutta loro. Basta paragonare la quiete che raggiungono attraverso questo falso ragionare con quello di chi, ragionando, cerca di sostituire un sistema comportamentale, ideativo e affettivo assodato, predisposto, con un altro, costituendolo. Questi si sentono terribilmente isolati e inutili, sottratti all'abitudine e alla sicurezza, al di fuori della ragione sociale e generale. Alcuni tra quelli, liberandosi dalla ragione sociale solo a metà e non possedendo il coraggio di percorrere tutta la direzione, hanno costituito la solitudine e l'inutilità a propria ragione d'essere, ritirandosi dal mondo sociale, o cercando di ritirarsi da quello. È questo il caso di molti movimenti eremitici ed ascetici del passato. In questi gruppi di pensiero e di sentimenti il dolore ha assunto il ruolo di ragione di vita, autentica espressione della vita, sua realizzazione pura. Il dolore da accidente, occasione dell'esistenza, è diventato la sua essenza.
Allora queste anime doloranti si proiettavano dentro la grande illusione mistica che nasce dal dolore ma che è anche la fine del dolore, la sua sconfitta: il dolore da effetto e 'sintomo' diviene, così, causa e motivo dell'unicità e della irripetibilità, imparentate con la solitudine e l'inutilità. Il dolore da effetto diviene motivo. Il ribaltamento del dolore, la manipolazione del suo concetto, della sua percezione stessa, è la grande dote (per certi versi positiva) della mistica sia essa orientale (buddismo) sia essa apollinea (platonismo) o dionisiaca (cristianesimo e misticismo moderno e 'laico').
Fin qui coloro che sono rimasti a metà strada.

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Apparentemente basterebbe davvero poco per evitare tutto questo, questa fermata a metà strada che è il misticismo, basterebbe accettare la solitudine e inutilità  come utile e necessaria; il rischio è che anche questo interessante avanzamento possa diventare un atteggiamento mistico. Al centro della nostra sfera emotiva non porremo, allora, il dolore ma una supposta felicità che genera dal distacco e dalla quiete; eppure la felicità che si ottiene è solo un occultamento del dolore, un modo diverso di chiamare il dolore. In verità è difficile liberarsi dalla ragione sociale senza assumere atteggiamenti di distacco mistico. Il famoso dire di sì alla vita, cavallo di battaglia di Nietzsche, rischia di essere un imbroglio ed è certamente più difficile di un semplice sì. Più vicina alla fine del percorso che i mistici abbandonano è la parola d'ordine di Rimbaud "cambiamo il mondo e cambiamo la vita", diciamola più nietzchiana di Nietzsche ma anche quella si dimostra vincolata a un'oggettività storica a una situazione esterna che non necessariamente riguarda l'individuo e con la quale il singolo, la persona, deve imparare a relazionarsi a ricostituirsi.
In ultima analisi non è affatto facile liberarsi dalla ragione morale, astratta e predisposta che domina coloro che preferiscono l'immutabilità e l'eternità prescritta. Lo stesso individuo che decide di non cambiare atteggiamento verso l'esistenza, di rimanere uguale a sè stesso in ogni circostanza, che vive nell'abitudine e nella sicurezza, è a suo modo un mistico, soprattutto quando persegue la sicurezza del sentimento di sè. La mistica è un'autodifesa palese e nascosta.

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La mistica è stata un'autodifesa svolta in maniera palese nella filosofia anti - hegeliana dell'ottocento (Schopenhauer, Kiergkegaard, Nietzsche) che è, a mio parere, una filosofia di sopravvivenza, che persegue tecniche di conservazione del sè contro l'apparato morale e sociale al suo apogeo in quel secolo. La filosofia della sopravvivenza è reale, svela le reali relazioni tra natura e ragione, la loro chimica, ma inequivocabilmente meno vera di quelle di Hegel, che ha colto senza spirito critico l'essenza dei nuovi tempi del capitalismo ottocentesco e il suo sguardo / interpretazione del passato. La mistica è stata un'autodifesa svolta in maniera nascosta nei comportamenti generali delle classi subalterne, sia nella versione religiosa (eresie medioevali) sia nella sua versione laica (pensiero e soprattutto organizzazione politica socialdemocratica e comunista). Considerazioni simili in Negri.

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La peggiore pretesa del pensiero umano, della ragione slegata dalla natura, è stata quella di astrarre concetti etico - estetici universali, il mondo delle idee. L'idealismo pretende di costruire un cielo di idee e valori assoluti, posti per definzione al di sopra dell'uomo, ma che hanno il compito di influenzare e guidare la vita quotidiana, la collettività e le comunità. Dal momento che, però, l'uomo è sempre stato ostile e diffidente verso le astrazioni ideali, allora l'idealismo si è affidato allo stato, costituendo, in cambio, il suo ideale, formulando la mistica dello stato come autentico strumento politico adatto all'elevazione degli uomini al mondo delle idee, o meglio alla loro partecipazione di quello. I valori universali sono diventati, così, valori morali imposti, difesi e garantiti dall'autorità dello stato.

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L'idealismo ha collaborato con lo stato alla costruzione etico - penale che riduce l'uomo alla morale, a essere gioco - forza un agente morale, a essere gioco - forza partecipe passivo dello stato di cose presenti. Tanto l'idealista ha richiesto il ministro, quanto il ministro aveva bisogno del pensatore idealista: attraverso l'idealismo il concetto di stato si è depersonalizzato e si è fatto astratto e anonimo insieme con l'anonimato delle sue leggi.
L'alleanza tra idealismo e stato, alleanza naturale, ha condotto l'uomo alla perdita della coscienza di sé e all'alienazione dalla propria natura.

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Le astrazioni dell'idealismo si dicono universali malgrado la loro origine. Da dove, infatti, li astrae? Dalla realtà come, evidenza lampante, l'idea di stato o di politica, che è un'astrazione universalizzante di un'attività specifica con fortissime caratteristiche storicizzate. Quindi l'idealismo ha assolutizzato delle esperienze storiche, alla fine semplicemente umane, entrando in quel processo di costruzione del mito razionale di sè stesse che ha reso universali i valori delle società organizzate secondo la morale, secondo lo stato e secondo la supremazia di una classe di uomini su di un'altra. I localismi statali, le peculiarità dei poteri sul territorio, pur non venendo cancellate (preesistenti tribalità, etnicità, tradizione giuridiche particolari, forme di cooperazione e via discorrendo) sono riassunte in un concetto non univoco (perchè è impossibile che lo sia) ma generalizzante e in quanto tale valido universalmente, nello spazio e nel tempo.

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La vita è contrassegnata da due contrari perfetti: da un lato la nascita dall'altra la morte. Da una parte il passaggio dal non - essere all'essere e dall'altra parte dall'essere al non - essere. Ma prendiamo la vita, qualsiasi vita, e guardiamola come se fosse un rametto o un segmento intuiremo che tra i due estremi esiste una netta e invincibile continuità che fa essere quel rametto un rametto e quel segmento un segmento. La vita è un continuum spazio - temporale e dunque logico molto preciso, imprenscindibile che è dato dalla vita stessa, precisamente come il rametto è dato dal rametto stesso e il segmento dal segmento stesso. Alcuni dicono, pensano e si comportano quasi di conseguenza, che nascita e morte non appartengono alla vita, che il segmento non ha estremi e che il rametto non ha bordi. Il prima e il dopo della vita, per costoro, diventano più importanti della vita stessa, fenomeni che regolano la vita stessa. La vita, invece, è anche nascita e morte, è essere e non - essere messi insieme e non esistono preminenze e maggiori importanze.

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Seguendo il filo di questa continuità spazio - temporale e logica si può giungere a non concepire, nella vita, il passato, il presente e il futuro. Come per chi credeva nella predestinazione, il nostro futuro è già esistito poiché appartiene a quel percorso logico non frazionabile che è la vita: in un segmento possiamo individuare un davanti e un di dietro, una sinistra e una destra, ma non un prima e un dopo. Quanto sia logicamente appropriato questo modo di intendere la vita, anche se non effettivo, è testimoniato dal masochistico rituale dei cristiani che chiedono perdono a Dio anche per i peccati che dovranno ancora commettere. Questo modo di pensare la vita, tolta l'ansia moralistica in cui è immerso presso i cristiani, può donare serenità nell'affrontarla senza farci perdere il piacere dell'azione e dell'iniziativa in quella. Il futuro che sarà, è stato deciso, ma deciso da noi.

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Torniamo ai concetti di essere e non - essere usati precedentemente. Concetti utili ma assolutamente falsi. Il fatto stesso che si eguaglino dentro la vita ci dà l'idea della loro vuotezza: secondo una vecchia legge matematica due contrari si dovrebbero annullare e, di conseguenza, la vita stessa sarebbe il nulla. Quello che chiamano essere è tanto ciò che alcuni chiamano davvero essere quanto ciò che altri potrebbero chiamare non - essere. Essere è, invece, il 'tutto', il continuo logico degli eventi in eterno, miriadi di segmenti che costituiscono una retta o una miriade di rette. Essere non è altro che l'esistenza delle cose e degli uomini, che non sanno darsi che nella forma dell'esistenza. Lasciamo da parte l'accattivante idea dell'esistenza consapevole, della coscienza di esistere che dovrebbe qualificare la nostra esistenza e farne quasi un essenza, un essere allo stato puro, un esistenza al quadrato. La coscienza di esistere non ci preserva, ovviamente, dalla fine dell'esistenza, anche se ci è molto utile nella nostra esistenza concreta essa non può dare un significato universale alla nostra vita. Certa filosofia indiana propone allora una immedesimazione della coscienza individuale in una coscienza, un sè, universale ed eterno: quello, eterno esistente ed eterno cosciente, sarebbe l'essere al quale noi partecipiamo, così, credo, alla fine la scolastica e tutto l'idealismo moderno. Il mondo e l'universo sarebbe un organo dotato di intelligenza e di finalità, un organo onnipotente e onnipresente e le sue leggi, nella versione occidentale di questo misticismo, quelle della chimica e della fisica. Le leggi della chimica e della fisica sono regole che non hanno prodotto il mondo con determinazione ma solo per caso, precisamente come le leggi della genetica e, come per caso questo universo è saltato fuori, così per caso, per una regola che contiene un errore algebrico e chimico, svanirebbe. La coscienza universale delle scienze non esiste. Alla fine della fiera la nostra vita non è altro che materia stellare all'inizio, durante e dopo. Da dove nasce, qualcuno potrebbe obiettare, la validità universale delle leggi scientifiche? Non lo so e neppure mi interessa saperlo ma non è una questione di coscienza di sicuro, di una coscienza universale ed eterna, di un essere o essenza. Certo che i fili di miriadi di esistenze hanno dotato di un tale spessore il concetto di esistenza da richiedere, quasi, l'elaborazione di un'idea che le riassumesse tutte, ma si tratta di un prodotto della coscienza che si confrontava con quello spessore e non di una verità.

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L'arte è la quintessenza della comunicazione umana. Un sorta di astrazione concentrata della comunicazione sociale. Quale il limite dell'arte? Di essere la quintessenza della comunicazione di una parte dell'umanità senza l'altra e, spesso, contro l'altra. Ha poco senso domandarsi, in un contesto simile, quale sia l'arte più espressiva, maggiormente vicina alla vera natura dell'uomo; Platone e Schopenauer dicevano la musica, altri le arti figurative (Aristotele immagino) ma all'arte manca, qualsiasi essa sia, il carattere universale. È una bugia sociale, quindi, e tale rimarrà fino a quando sarà detta arte.

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Notevoli sono le affinità tra il mito di Dioniso e il mito di Cristo. Dioniso risorgerà e libererà l'umanità dalla galera delle forme individue e dal dolore poiché ogni giorno egli stesso ha sofferto di questa separazione e individuazione; Cristo risorgerà come Dio e in quanto Dio di tutti gli uomini (non solo degli Ebrei), realizzando la riconciliazione degli uomini con Dio. La differenza sta nel fatto che la rinascita cristiana avverrà sotto il segno dell'individuazione (il corpo), quella dionisiaca nella definitiva liberazione dal corpo.

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L'essenza delle religione è la compensazione. È una compensazione che serve a rafforzare l'arte di sopravvivere, l'istinto di sopravvivenza, offrendo a quello sussidio. L'istinto di sopravvivenza, che ha sempre veste razionale ed è un istinto razionale, impone all'uomo di accontentarsi e gratificarsi di fronte alla necessaria assurdità dell'esistenza, quando non voglia abbandonare la speculazione filosofica e il ragionamento sul senso della vita ma, al contempo, desideri continuare ad agire e a fare la vita. L'esistenza di uno scopo per il mondo, uno scopo dato dall'esterno del mondo è una fortissima compensazione. Ancora più forte si fa questa necessità di compensazione quando la società non offre all'uomo le possibilità di una vita sicura; questa si intreccia all'altra. E si intreccia in un altro modo: la religione porta con sè, oltre che un fine ultimo per il mondo e per la vita, anche un fine ultimo per la società e, quindi, una giustificazione per le proprie sofferenze sociali ed economiche. Infine introduce un concetto attivo e fondante per la società, la vita in società e la sopportazione delle sue regole: la morale; addirittura la morale diviene la regola sociale e non si riesce più capire se prima è nata la società e poi la morale oppure la morale e poi la società. Sicuramente la morale ha reso possibile il vivere asociato e il vivere associato ha richiesto la morale. Quindi il sentimento religioso ha due matrici: la relazione dell'uomo con la natura, con il mondo, per certi versi una matrice filosofica, la relazione dell'uomo con gli altri uomini, per certi versi una matrice sociologica. Sulla prima non credo si debba spendere molto: è dote inutile ma inevitabile la capacità speculativa dell'uomo, il ragionamento astratto sul senso della vita. La seconda si lega alla prima perchè fa riferimento alla capacità speculativa, che si cimenta con un ragionamento astratto sulla realtà sociale, trasformando gli uomini in relazioni e le relazioni in simboli, per introdurre la sua compensazione. Ma se la prima compensazione è quasi costituiva, di fronte al problema della nostra 'finitezza', alla potenza della natura nei nostri confronti e alla nostra debolezza di fronte a quella, la seconda appare meno essenziale e costitutiva. Perché una società formata da uomini percorsi dalle stesse ansie e paure verso il mondo della natura dovrebbe diventare fonte di paura e ansia essa stessa, quasi una seconda natura ostile? Le relazioni stabilite tra gli uomini non sono, evidentemente, così gratificanti e le relazioni non perfettamente simmetriche: quanto più una società si allontana da relazioni simmetriche tra i suoi componenti, tanto più accumula energie presso alcuni e toglie energie ad altri. La società cessa di essere una collaborazione tra soci e finisce per essere il dominio di alcuni soci sugli altri soci, cessa di essere collaborazione concreta per divenire collaborazione astratta, sciolta dal suo significato iniziale. Qui si forma la morale, nel cuore dei dominatori come potenza intellettuale e nel cuore dei dominati come compensazione e gratificazione per la loro subordinazione. Il sentimento religioso, allora, si fortifica e cementa, fino al punto che, con il progredire della forma sociale, non ha bisogno neppure di un Dio e di una trascendenza, ma solo di un fine, una finalità morale che può essere tranquillamente laica. È qui la cifra del sentimento religioso dei laici e degli atei di cui furono maestri i rivoluzionari francesi che abbatterono definitivamente la trascendenza della morale e della legge, per farne un prodotto dell'immanenza, pur sempre di valore universale.

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La religione autonoma (la relazione diretta con Dio), laica e atea (la relazione diretta con lo spirito della legge e della morale) non è affatto stimolo all'indipendenza dello spirito dalla speculazione e dalla compensazione, anzi alle volte è peggiore dipendenza di quella causata dalla religione strutturata, gerarchizzata e autoritaria. Essa fa riferimento alla libertà dello spirito con ogni sua forza e si proclama essere il prodotto di una scelta e speculazione libere. Dove si trova, però, questa libertà? Questa libera scelta? In un altra immagine divina, in un'altra trascendenza, questa volta non divina ma umana, vale a dire in qualcosa che è anche dichiaratamente creato dall'uomo, mentre nella religione autoritaria almeno il responsabile era Dio. Quindi è l'uomo a diventare e a riconoscersi come nemico di sè stesso, il peggior nemico di sè stesso, l'artefice dell'asimmetria e dell'ingiustizia e il moralista che le giustifica.
L'uomo che crea libere scelte, poi, è un impossibilità logica: spirito libero è una frase vuota. Ogni pensiero, ogni emozione e ogni idea sono determinati da processi analoghi a quelli che regolano il 'tutto', non sono liberi ma determinati. Proprio coloro che si riempono la bocca di ordine, morale e valori se ne dicono forniti dal loro libero pensiero e dalla comunità di liberi pensatori che frequentano, mentre, contemporaneamente, ritengono le loro compensazioni necessarie socialmente e moralmente. Sono una contraddizioni in termini: perseguono il determinismo e il finalismo facendo l'elogio alla diserzione dall'ordine logico attraverso il 'libero pensiero'.

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La religione autonoma ha la grande proprietà rispetto a quella eteronoma e indotta di scegliere i processi ideativi, di fondarsi da sè medesima. Il fondamento dei suoi precetti, della morale, sono slegati dalla ritualità ecclesiastica e vivono di luce propria. La religione autonoma cerca di porre la ragione alla base della morale e non ha bisogno di riti, cerimonie e divinità; facendo così pone l'uomo davanti a sè stesso. Appare certamente arida nei confronti della religione autoritaria e tradizionale, ricca, invece, di segni, simboli e cerimonie. Sia la religione autonoma quanto quella eteronoma vivono in parallelo con il mondo sociale che le ospita, ne sono un prodotto e lo producono, ma la religione autonoma mostra più direttamente l'epoca in cui vive il suo artefice ed ha il pregio di presentarsi come originata da una personale espressione, un personale ragionamento dell'individuo. Questo ragionamento pretende, però, di farsi universale, di proporsi agli altri individui e a tutte le epoche, di essere valido universalmente, precisamente come per la religione eteronoma e autoritaria. Quindi la religiosità autonoma e laica e quella eteronoma e divinamente determinata non si dividono sul come della morale, sulla sostanza dei suoi precetti ma solo sul perchè, sulle cause che originano la morale e i suoi precetti. In verità entrambe non sono altro, anche se dette secondo una mitologia differente, espressione della relazione tra l'individuo, la natura e la società, espressione delle esigenze generali della società e questa generalità comporta il carattere di astrattezza delle norme: un'energia slegata dall'individualità, un'energia psichica, tende a darsi nelle forme dell'astrattezza dell'indifferenziato, dimenticando la sua origine e sorgente.

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Le religioni istituzionalizzate (cristianesimo, islamismo ed ebraismo) sono la completa decerebrazione dell'uomo, la rinuncia alla sua capacità di usare la ragione. La ragione diviene un disvalore, un elemento negativo, un nemico. Nella loro componente mistica le religioni istuzionalizzate fanno ampio riferimento a questa decerebrazione: l'istinto di conservazione, la sicurezza del sè viene posta al centro dell'uomo e non come valore razionale ma come dato emozionale, ilotico. L'uomo comprende il senso del mondo, secondo quelle, solo rinunciando a sè medesimo.
La religione autonoma, invece, propone una visiona parziale e relativa del mondo, il punto di vista dell'uomo e poi dell'individuo sul mondo. Non rinuncia a una visione complessiva sulle cose del mondo ma mantiene sempre rispetto a quella una sorta di timore e di pudore: potrebbe anche non essere così. Certamente propone anche non la distruzione della mistica ma l'elaborazione di una mistica personale. Spesso molti profeti della modernità hanno considerato la religione autonoma, laica e personalizzata come un nemico peggiore di quella autoritaria e istituzionalizzata poichè, in parte a ragione, hanno denunciato il fatto che in quella la mistificazione della sua genesi è posta alla massima potenza: l'uomo pretende, con quella, di superare l'uomo e di darsi delle regole 'umane' e universali, di costruire l'uomo a partire dall'uomo. A mio parere, però, la religione autonoma e laica, la religione moderna, egemone nei paesi 'occidentali e sviluppati', ha il pregio di essere intrinsecamente relativizzabile e quindi nei suoi fondamenti ha anche lo strumento per la sua negazione critica.
Nulla di tutto questo per la religione autoritaria e divinamente ispirata nella quale è forse vero che è minore la dose di mistificazione e falsificazione, poiché non pretende di rappresentare l'uomo, ma il divino nell'uomo, ma nella quale la dose di forza, violenza e coercizione è massima: essa nega l'uomo senza neppure guardarlo, toglie dalle mani dell'uomo ogni strumento critico su sé stesso e ne fa un essere trascendente e moralizzato nella trascendenza. Il piano dell'umano è indifferente a questa trascendenza e l'uomo, alla fine, non esiste se non come strumento per la divinità e della sua divinità.

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La formazione di valori morali autonomi è naturale nell'uomo poichè ama stabilire delle regole di utilità per sè nelle relazioni con gli altri e le relazioni con gli altri sono alla base del carattere della nostra specie: l'uomo è un animale di branco e di gruppo. L'elaborazione delle regole ha l'effetto immediato di rendere migliori le relazioni con il resto della specie ma anche l'effetto secondario di illudersi di governare il futuro. Seguire le regole, vederle condivise e rispettate anche dagli altri uomini determina la sicurezza del futuro e anzi genera l'idea stessa di futuro. Il futuro è un prodotto della morale o meglio dell'idea che l'osservanza collettiva delle regole di convivenza produca la possibilità stessa del futuro. L'organizzazione sociale, lo stato, anche il più embrionale, si pone, come prima cosa, il problema della prevenzione e della previsione, l'organizzazione degli individui che lo compongono e dunque progetta il futuro. La morale e lo stato sono la causa e l'effetto dello stesso processo e non facilmente separabili l'uno dall'altro. Questa è la componente buona della morale, quasi una caratteristica della nostra specie: la scoperta della convivenza, della cooperazione e del futuro.
Ma cosa è accaduto alla morale e allo stato per trasformarsi prima in un portato divino e poi in un universale umano? È accaduto che le forme delle relazioni dentro l'organizzazione sociale si sono complicate, che alcune energie dirette verso la collaborazione han dovute cambiarsi in indirette, che si è generato un surplus economico e psichico dentro le relazioni, e questo surplus è stato prelevato, immagazzinato e sottratto ai suoi autori. È nato, allora, lo stato per come lo conosciamo oggi ed è nata la morale per come la conosciamo oggi sia essa eteronoma o autonoma. Anche la religione e morale autonome, che apparentemente potrebbero assomigliare alla morale primordiale e forse alla religione primordiale, sono solo delle ricadute, degli effetti secondari della morale eteronoma e dello stato asimmetrico, anzi, oggi sono lo strumento più funzionale alla sua legittimizzazione e la morale e religione autoritarie ed eteronome degli utili puntelli folclorici.
Ciò che bisogna fare e per questo adoperarsi è recuperare il senso della morale originaria e insieme con quella dello stato originario, fare in modo che l'esistenza del futuro e della progettazione non sia posto al di fuori, come oggi accade, dal futuro e dalla progettazione, dalla utilità autentica della collaborazione tra gli individui. Tornare alle energie dirette e simmetriche, non significa tornare al paleolitico, ma andare verso un nuovo paleolitico, quello della liberazione e della tecnologia, non significa tornare a una società semplice e 'autentica' ma verso una società complessa in ragione della sua complessità e non della divisione e differenza che si sono costiuite sulla complessità. Conciliare, quindi, la coesistenza tra gli individui, l'istinto vitale e la ragione e costituire un nuovo modello di ragione che non può essere quello che ha costruito il finalismo di morale autonoma ed eteronoma.
Questa nuova morale non sarà nè autonoma nè eteronoma, sarà una morale necessaria. Questo significa che il mondo sociale procede necessariamente verso la liberazione cioè verso un fine? Sì, il mondo sociale ha un fine ma è un fine necessario e intrinseco, non imposto ed estrinseco e come tale non ha un vero fine.

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Il problema della sostanza della realtà, la verità, è soprattutto un problema di forme e di contenuti e delle loro relazioni. La forma e il contenuto non esistono per sè stessi, in quanto tali, ma sono una relazione, un rapporto, tra il modo di presentarsi della realtà e il modo di essere della realtà. Non sono punti fermi. In che rapporto sta la forma con il contenuto? In che rapporto sta il comportamento umano con la sua intima essenza, in che rapporto stà l'effetto con la causa? La forma è il modo di presentarsi, mostrarsi e realizzarsi di un contenuto in ordine sociale e ideologico: l'uomo e l'uomo sociale. Ma quante relazioni vengono costituite tra l'uomo sociale, la presentazione di sè, e l'uomo in quanto tale, la ragione fondamentale dell'uomo? Infinite e talmente sconfinate da mettere in discussione gli stessi concetti di uomo e uomo sociale. Lo scopo fondamentale dell'uomo, il suo contenuto, è quello di sopravvivere e avere sicuro sentimento di sè all'interno dell'ordine sociale e chiaramente questo sè, al di fuori dell'ordine sociale, esiste come polo, motore inestinguibile della presenza dell'uomo in quello, nella società. Potrebbe essere il polo del contenuto che si contrappone, interagendo però, a quello della forma. La relazione primordiale tra forma  e contenuto si è andata, nel corso della storia e dello sviluppo dei sistemi sociali, complicando.
Inizialmente la relazione tra rappresentazione di sè e sè istintuale era diretta. L'uomo era soprattutto ciò che faceva e quello che doveva fare per mantenersi in comunità, come uomo tra gli uomini; la sua intima essenza, la sua verità non contava nulla e la sua verità si riduceva alle relazioni sociali dirette che instaurava. Non si poneva il problema della verità sull'uomo. Esisteva un codice comunicativo generale funzionale al gruppo di appartenenza, che si traduceva in un codice religioso e morale proprio del gruppo, capace di 'spiegare' la presenza dell'uomo nella natura e la società umana che affrontava i pericoli, i rischi e le potenze della natura; questo codice andava rispettato scrupolosamente sia per conseguire la cooperazione sociale sia, per effetto secondario, per conquistarsi il rispetto della natura. Lo scrupolo cerimoniale faceva parte della legge e ne era l'essenza.
Poi vennero gli altri gruppi e i contatti con gli altri gruppi umani, che si erano dotati di altri e scrupolosi codici di comportamento. Questo di per sè non poteva comportare la crisi dei codici, tutt'altro, ognuno trovava valido il suo, legandolo alla sua individualità, al suo contenuto. Accadde qualcosa, però, all'interno di alcune comunità che, in presenza del contatto con altre comunità, determinò una variazione, una mutazione, netta. Le relazioni all'interno di alcuni gruppi si volsero alla realizzazione di un surplus e al suo immagazzinamento, sia sotto il profilo produttivo quanto in quello emotivo. In quei gruppi la relazione tra contenuto e forma si era data la forma polare: la forma prevaleva sul contenuto e pretendeva di descriverlo; la forma diveniva priva di alcuni aspetti del contenuto e si faceva astratta e cioè generale, valida anche al di fuori della comunità.
Questi gruppi, immagazzinando energie psichiche, emotive e produttive, potevano affrontare la relazione con le altre comunità in maniera diversa dalla tradizionale relazione simmetrica: nella misura in cui le loro relazioni interne si erano date nell'asimmetria, così tendevano a imporre asimmetria anche in quelle esterne e a proporre un quadro di relazioni astratte. Questo slancio, questo surplus vitale e produttivo, portarono alla soggezione degli altri e alla determinazione di una religione astratta e, come tale, unificante. E proprio in questa fase, quella del paganesimo classico, si presenta, per la prima volta, il problema del contenuto cioè il problema della 'vera natura' dell'uomo in ragione di quanto la relazione tra forma e contenuto era divenuta polare, quasi costituiva di due entità separate. Il paganesimo visse queste due realtà separate, ne fece quasi la sua etica, la concezione dell'uomo.
Il problema dell'uomo e la costituzione di un'identità polarizzata preparò il campo, ben presto, a una terza fase dove lo slancio ideologico - religioso scelse risolutamente il polo della forma, negando il contenuto, e mettendo alla berlina ogni sentimento individuo e personale, ogni soggettività al quale ormai si era ridotto il contenuto, il polo della natura istintuale dell'uomo. Ogni sentimento personale venne equiparato alla colpa e la socialità determinata divinamente divenne l'unica forma di convivenza: le società classiche si trasformarono in società di massa, facendo l'elogio dell'eguaglianza di tutti nell'oppressione. Chiedersi il significato della vita, cosa indifferente all'uomo tribale, ma interessante per quello classico, era sinonimo di peccato: si tornava, in altre forme, all'uomo della comunità primordiale. L'astrattezza e la generalità governò il pensiero e la società e le sue regole divennero espressione di una sacra trascendenza, posta fuori dalla storia, sovrastorica. La società, appoggiandosi alle grandi religioni di massa,  nascondeva i suoi reali scopi, che erano quelli del dominio di una parte degli uomini sull'altra, in fondo all'inconscio sociale, a quello che non poteva venir detto. La ribellione contro la società diveniva ribellione contro Dio, l'onnipotente e pluriforme Dio - Re, Re divinizzato, che riassumeva in sè anche le precedenti figure di Re - Sacerdote e Re - Stregone. La relazione tra forma e contenuto paradossalmente si semplificò, tornando, quasi, a quella tribale ma ora era la forma, l'uomo sociale, a subordinare e annullare l'uomo. Il feudalesimo fu una forma particolare e speciale di tribalità che sorpassò lo stato classico.
Nella società capitalista la polarità cancellata dalla società feudale si ripresenta, il problema dell'uomo si ripresenta e non casualmente la cultura classica viene recuperata. Il contenuto viene davvero pensato come essenza dell'uomo (istinto di conservazione, istinto di piacere, cooperazione tra gli individui) che interviene direttamente nella forma fino al punto che essenza e forma vengono pensate, e sono, un unico logico. L'essenza influenza la forma e a sua volta la forma influenza l'essenza: l'uomo agisce a partire dal suo modo di sentire e di percepire sé, che è il suo essere, e il risultato della sua azione cambia quel suo modo di sentire: il contenuto e la forma vivono di cicli interattivi. Il capitalismo offre una grande libertà: ognuno coltiva il suo codice comunicativo, o lo può coltivare, e ognuno galoppa, inconsapevolmente, verso la libertà comunicativa, proprio come la società assume contorni liberali e libertari e considera la sua forma espressione diretta della sua essenza. La polarità tribale e classica viene risolta non nel senso del governo della forma ma in quello dell'essenza sulla forma: nel capitalismo il contenuto affonda la forma. Il capitalismo scrive e parla di necessità alla società, e la società è la sua società: il contenuto è naturalmente svolto nella forma del capitale che è la naturalità dei rapporti sociali ed economici. In mezzo a tutto questo materialismo e necessità, dove il contenuto diviene la forma e l'uomo ritrova, finalmente, sè stesso e la sua vera natura, proprio dentro questi il capitalismo elabora le sue liturgie e i suoi miti. Anche il contenuto del capitalismo, apparentemente così concreto e lineare, ha bisogno di una forma ma non di una forma trascendente, che criticherebbe la sua necessità, ma di una forma immanente. Il capitalismo elabora una sorta di idealismo del materiale che è la filosofia moderna e che è l'idealizzazione delle necessità e delle leggi necessarie al capitalismo per riprodursi. La riscoperta del polo del contenuto così diviene illusoria, una finzione e con quella anche la libertà dei codici di comunicazione che si danno in forma libera ma senza una libera operatività: non a caso durante il capitalismo viene definitivamente formalizzata l'idea dell'arte e perde di significato e di ruolo il personaggio dell'artista.

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Il ricatto nucleare è una vera e propria sindrome depressiva iniettata sul sociale per rafforzarne la governabilità.

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La profonda analogia che esiste tra amore e follia sta nell'iniziamento. Non ci si accorge quando ci si addentra nel vortice dell'amore come quando ci si avvicina alla follia. Entrambi gli stati d'animo si costruiscono gradualmente, impercettibilmente. Da questa inconscienza potrebbe anche derivare il fascino innegabile di entrambi che si presentano silenziosamente alla coscienza.
Amore e follia, inoltre, riguardano il ragionamento su noi stessi e provocano un cambiamento nel nostro modo di percepirci.

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L'attività artistica, quella conoscitiva e, in genere, le attività intellettuali dell'uomo sono determinate dalla volontà di comunicare e quindi di trovare un linguaggio per la comunicazione. L'uomo non sa che farsene del suo pensiero se rimane solitario, fermo dentro di sè. La volontà di comunicare il proprio pensiero origina da un processo simile a quello dell'amore e della follia: comunicando il nostro pensiero, ci comunichiamo agli altri, provocando un cambiamento nel nostro modo di percepirci e di ragionare su noi stessi. Quando, infatti, ragioniamo in funzione della costruzione di idee adatte alla comunicazione, ragioniamo in vista della comunicazione, ragioniamo diversamente che davanti solo a noi stessi. Il fatto stesso di pensare alla comunicazione ci impone un diverso modo di ragionare, non solo una maggiore attenzione e precisione ma anche altre idee, altri elaborati: le idee solitarie si trasformano quando pensano di diventare pubbliche e collettive. Le idee solitarie devono commisurarsi con le idee degli altri, le loro obiezioni e critiche e devono immaginare gli altri.

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Le cose che si pensano o si possono pensare appartengono tutte, nessuna esclusa, a un meccanismo che trova nella realtà materiale il suo principio; la realtà materiale è tutto quello che ci circonda dalle cose materiali a quelle ideali, dagli attrezzi ai principi. Tutto quello che colpisce la nostra mente è la realtà materiale. L'uomo risponde sempre e solo a stimoli esterni, a sollecitazioni esterne perché appartengono alla sua stessa natura, che è materiale. L'uomo è una realtà dialettica, costituita dai due 'poli' di contenuto e di forma, che si mette in relazione con un'altra realtà vissuta dialetticamente, la realtà esterna che viene interiorizzata. La realtà esterna produce nuove forme nell'uomo che intervengono sul suo contenuto, modificandolo: l'uomo non è mai identico a sè stesso, è un processo di modificazione. Anche la realtà esterna è un processo di modificazione. La sintesi di questo rapporto è dinamica, inevitabilmente, è un ulteriore balzo nello sviluppo sociale che tende incessamente a superare i suoi presupposti senza fermarsi mai.



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