pensieri chimicamente impuri (1983)


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Vi chiederete, spesso o alle volte, quale sia il sesso delle donne e quello degli uomini. Un ammasso di fibre, messo in più o in meno, fa la differenza? Tutto fa la differenza. È molto più importante quello che sta dietro agli ammassi di fibre che non gli ammassi di fibre che, forse, vengono dopo.

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Per innamorarsi è necessario appartenere anche all'altro sesso, anche se tutto fa la differenza.

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Mascolinità e femminilità sono mitologie.

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Maschio e femmina non è mai stato un carattere naturale, perchè ciascun carattere è dominato e costituito da un numero enorme di informazioni genetiche che possono stabilire infiniti incroci e infinite gradienze. Questi incroci rendono solo mitologia la definizione di maschio e femmina.

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La virilità e la femminilità sono due strumenti per non conoscersi. Il sesso non ha conoscenza.

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L'umanità non potrà conoscersi senza mettere fine a questa manipolazione del sesso, in base alla quale esiste il sesso individuato. Il sesso individuato è il prodotto di un'astrazione che viene presentata come una constatazione biologica, è la costituzione di un diverso da sè attraverso una geografia di comportamenti che si definisce grazie a confini invalicabili e insormontabili.

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Esistono sicuramente delle oggettive differenze biologiche tra i sessi, che permettono anche di fruire di una parte del piacere sessuale, ma le diversità che troviamo poste tra i due sessi e in genere i 'sessi' fanno parte di un processo soggettivo, sorto nel corso dei tempi storici dell'umanità. Sotto questo aspetto anche l'omosessualità è mitologia.

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La trasgressione sessuale, che l'omosessualità e la soggettività omosessuale rivendicano spesso, è legata a un'immagine tradizionale sui sessi, come se si stabilisse cosa sono i sessi per poi criticarli: nella soggettività omosessuale non vedo nessuna liberazione.

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La parola stessa 'trasgressione' è piuttosto priva di senso. Può servire a descrivere una realtà di fatto, non una verità concreta. Esistono tanti processi di trasgressione quanti sono i comportamenti umani: ogni comportamento, in verità, può essere letto sotto il profilo della trasgressione e interpretato come trasgressivo. Il vero senso della trasgressione, la sua verità, lo si trova quando la trasgressione e il comportamento associato diventano sovversione, vale a dire riscrittura delle regole del comportamento, vale a dire una nuova soggettività che si slega dalla trasgressione. Ma anche qui si tratta di mitologia, magari utile, ma di mitologia: nella sovversione i comportamenti trasgressivi assumono e vengono ridotti a un massimo comune denominatore, che non possiedono alcuna verità assoluta e inconfutabile, ma per il fatto di strutturarsi in mitologia e in ideologia si presentano alla storia e diventano così un fenomeno storico e storicamente interessante. In quei casi, anche utili e necessari nella storia, si è descritto come sovversione quello che era determinante e rappresentante storicamente dei comportamenti trasgressivi, non la loro essenza e la loro struttura, insomma la loro chimica.

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La società industriale è stato quanto di più trasgressivo e sovversivo sia avvenuto nella storia fino a oggi: ha liberato l'umanità dalla dipendenza materiale, stretta, passiva dalla terra e dalla natura. La società industriale ha detto che la natura siamo noi. I ritmi della natura sono coordinati, incentivati, letteralmente creati, dall'economia e tecnica industriale; la società industriale non dipende dalla terra, ma è la terra a dipendere dalle esigenze della società umana: le sue trasformazioni e modificazioni sono governate dall'esterno.  La natura e la terra, oggi, sono altra cosa da quelle medioevali e classiche, perchè esistono solo nella misura in cui l'uomo vi interviene, perchè è scomparsa la vecchia distinzione, sacra distinzione, fondamento del paganesimo e di quasi tutte le religioni, tra società umana e mondo naturale. È inoltre scomparsa la tradizionale forma di intervento umano che teneva conto della particolarità della terra, della sua individualità, in quel dato luogo, per quella determinata vegetazione e per il tipo di animali che la popolavano: in epoca classica e neolitica questo complesso di valutazione faceva parte della terra. Oggi la terra è un campo tecnologico, omogeneo e indifferenziato.
Per slegarsi dalla natura la società industriale ha dovuto farsi natura essa stessa, produrre il mondo, creare sistemi e sottosistemi. La società industriale è lo specchio della natura, l'immagine dell'estraniazione della natura da sè stessa. E naturalmente, precisamente come i sessi, la natura è diventata mitologia e ideologia, anche se con qualche millennio di ritardo.

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La natura è il palinsesto dell'industria e l'industria è l'unica forza umana capace di rappresentare e sostituirsi alla natura. Il sistema di fabbrica produce come la natura e si struttura e presenta come un sistema di produzione naturale. Questo non è privo di conseguenze. La società industriale non è dominata da un codice produttivo e riproduttivo preciso come quello naturale; la società industriale non ha un codice genetico. Il codice industriale è nel suo scopo, non nel suo processo, il codice industriale si riduce alla capacità produttiva, intesa come valore che sta al di fuori del processo, il valore del processo non risiede nel processo ma al di fuori di quello; il codice genetico industriale sta nell'accunulazione di ricchezza non materiale, nell'accumulazione di danaro, di capitale, cose che nulla hanno a che vedere con l'intelligenza del processo produttivo. La natura, al contrario, lavora in tutt'altro modo: le regole sono interne al processo produttivo naturale, le regole sono il processo.
Il sistema industriale è una natura anarchica, governata da regole trascendenti ed esterne, e non immanenti e interne. Il sistema industriale è privo di messaggi genetici e rimanda ad altro per quelli, questo altro è il capitalismo e il suo codice genetico che discende poi nella produzione industriale ma non ha relazione diretta con quello. All'interno del codice genetico industriale prevale una sola regola secondo la quale la vita si deve sviluppare in qualsiasi forma, purchè sia vita.
È importante, quindi, la produzione e riproduzione delle merci, non importa di quali merci e non importa in quale modo, ma è importante che prodotto e forme di produzione garantiscano la creazione di capitale, di qualcosa che sia traducibile in valore. Che esistano delle relazioni tra forme di produzione e valore prodotto è innegabile, esistono isomorfismi e analogie, ma queste nascono dalla necessità di esprimere comando e controllo sul processo produttivo non in funzione di un suo ordinamento ma di un suo sfruttamento. Insomma esiste il sistema produttivo ma, alla fine, nessuno sa veramente come funziona perchè nessuno è veramente interessato a saperlo, la cosa importante è che produca valore.
La coercizione in natura passa nel corpo stesso della natura, la coercizione nella economia industriale è qualcosa di esterno al corpo stesso della produzione, cioè qualcosa che nato al di fuori di esso, scende in quello a dargli delle norme.
La conseguenza fondamentale è questa: che mentre nel corpo della natura tutto è compreso, nel corpo della produzione capitalista non tutto è compreso, questa parte esterna, questa parte esterna e sconosciuta del processo produttivo trova una sua comprensione e senso in un dominio esterno, non economico, non produttivo, ma politico e ideologico. È come se in natura il DNA non risiedesse nelle cellule, ma in un'entità esterna a quelle.

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Il funzionamento del sistema produttivo industriale è aperto a ogni genere di interazione. In natura l'interazione è mediata dal codice genetico o dal codice costitutivo della materia, l'interazione avviene dentro delle regole interne all'interazione, nel sistema produttivo capitalista è l'interazione di nuovi fattori ed elementi a determinarne l'aspetto formale e contenutistico. Si produce un groviglio di dipendenze concorrenti che delineano equilibri instabili e malfermi tra sistema e sottosistemi, settori produttivi, settori sociali e rispettivi sotto sistemi; si produce una forma aggrovigliata di dipendenze e interazioni che non ha una logica ma solo una razionalità a priori, dimostrata a posteriori, la ragione di essere del sistema: l'accumulazione di ricchezza finanziaria. Non che questa costante, l'accumulazione di capitale, questa verità, non sia soggetta a variabili e ulteriori interazioni, anzi anche l'accumulazione del capitale è il risultato di variabili e interazioni, ma ridiscendente
tra le dipendenze e le interazioni che si intrecciano nel corpo produttivo come elemento fisso, ontologico, e lo informa a sua volta come imperio, norma e ordine nuovi di volta in volta a posteriori, vecchi, tradizionali e naturali a priori.
Se venisse a mancare il codice genetico sociale, se venisse a mancare l'accumulazione, tutto il sistema, i processi e le interazioni perderebbero qualsiasi senso, la società medesima perderebbe senso, sia in quanto sistema formato da un complesso di unità produttive e realtà sociali, sia ancor di più come sistema finalizzato; verrebbe a mancare la coercizione fondamentale, un rapporto di interazione, un input, primario. Che in assenza di questa coercizione il sistema possa funzionare e come è altra questione: potrebbe funzionare diventando un sistema intelligente, un processo che si conosce e che si guida.

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Il potere del capitale non è uno e ben concentrato, ma sono i poteri, separati in tutti i microrganismi del sociale e regolati dalle interazioni razionalmente convalidate.

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Il sistema economico e sociale attuale ha il suo fondamento nella continua trasformazione di sè stesso. Ogni valore viene nuovamente valutato e convalidato, ogni informazione che viene creata diviene  diversa da sè fin  dalla sua creazione. Questo mondo è galoppante e apparentemente fondato sull'arbitrarietà e il caso; si dimostra, però, monolitico e indiscutibile quando deve darsi delle finalità, quelle non sono mai sottoposte a revisione, monolitico nelle ragioni della sua riproduzione, monolitico nel difendere il valore di scambio, che non ha bisogno di apologia, che è un apriori, che è la 'natura'. Le ragioni di questo mondo economico e sociale creano un falso movimento, un continuo falso movimento, determinano altissime dinamicità a livello fenomenico, davvero casuali, spesso. Esiste nella determinazione delle dinamiche sociali ed economiche una tale interazione di dati e origini dei dati diverse da far apparire ardua l'individuazione in quelle di un senso, di una linea omogenea nello sviluppo. Ogni aspetto (morale, etico, sociale, estetico) appare slegato da ogni altro e muoversi autonomamente e l'aspetto fenomenico non è davvero riassumibile in un significato. Questo aspetto fenomenico è uno dei caratteri principali del capitale, imprenscindibile da esso e che lo segnala rispetto a tutti i sistemi storici precedenti.
Ogni formazione sociale si dà nella realtà in stretta relazione con il suo contenuto, che è fisso, fermo e indicutibile, che è dietro e metafisico rispetto alla sua mutevolezza, rispetto alla labilità della sua fisicità. Questa dicotomia (fenomeno ed essenza) emerge pienamente nella formazione sociale capitalistica. Nel capitalismo si usano mille informazioni diverse per rappresentare la stessa cosa e tutte queste infomazioni, enunciati e frasi hanno un valore diverso, rappresentano un diverso gradiente nell'interazione sociale e un nuovo modo di dire e di essere della stessa cosa, del valore fisso, l'accumulazione del capitale.

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Osserviamo le città. Sono agglomerati casuali o rispondono a della cause? È una logica a tavolino o giorno per giorno? Il caso fa parte integrante dello sviluppo urbano: se una fabbrica non si fosse insediata non ci sarebbe stato il quartiere o almeno quel quartiere, se quel quartiere fosse stato più vicino alla fabbrica si sarebbe sviluppato diversamente o ancora se ci fosse stato già un quartiere quella fabbrica non ci si sarebbe insediata e magari si sarebbe stabilita un'altra forma produttiva.
Il caso è parte integrante dell'urbanistica e dell'assetto urbanistico proprio perchè realizza in forme visibili il nesso tra sviluppo produttivo e sviluppo urbano, dal momento che il primo sussume il secondo secondo modalità casuali. Lo sviluppo urbanistico non possiede una logica originaria e rimanda a qualcosa di esterno a sè, lo sviluppo sociale; lo sviluppo sociale si definisce nello sviluppo urbanistico casualmente. Abbiamo individuato un polo nel discorso, un primo rapporto causale. Prendiamo ad esempio l'Ansaldo, impiantata a Genova tra fine ottocento e primi del novecento. Per necessità tecniche gli stabilimenti furono posizionati intorno alla foce del Polcevera e contemporaneamente accanto al porto, come contemporaneamente in quell'area, ancora agricola e balneare, sorsero gli altoforni dell'ILVA poichè il torrente aveva la doppia proprietà di fornire materia necessaria alle lavorazioni e di sfociare subito in mare. A livello urbanistico la scelta fu del tutto dominata dal caso, forse dettata solo dal costo concorrenziale dei terreni, ma a livello economico e produttivo assolutamente no, e casuale ma causato fu il fatto che nella bassa val Polcevera sorgessero grandi borgate popolari.

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Gradatamente le fabbriche richiesero un'industria di supporto in val Polcevera che si disseminò lungo tutta la vallata (tubifici, elettromeccaniche e materiali refrattari) fino all'alta valle, che doveva tenere conto dei borghi agricoli preesistenti e soprattutto delle potenzialità della rete viaria. Questo secondo insediamento fu costretto a tenere conto delle realtà urbanistiche preesistenti e si dimostrò molto meno casuale, commisurandosi con lo spazio antropizzato in precedenza e rapportandosi con esso. Le piccole fabbriche sorgono allora tutte sulla stessa riva del fiume, mantenendo una rete viaria autonoma e riservando agli abitati l'altra sponda del torrente. Al di là di un probabile intervento regolatore del potere pubblico (l'alta val Polvecera appare colonizzata industrialmente negli anni venti e trenta e poi nei cinquanta e sessanta) si ha l'impressione che si sia data un'interazione tra sviluppo urbanistico e produttivo come tra due entità autonome e indipendenti. A un primo impulso casuale seguono quindi impulsi sempre più causali e ragionati.

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Esiste una necessità di sfruttamento dello spazio naturale: questa potrebbe essere una categoria o conformarla. Questa necessità non esiste in sè e per sè, come necessità ubicata al di fuori della storia, altrimenti avremmo avuto il riprodursi di formazioni e tipologie urbane simili e analoghe, ma esiste come necessità storica che cambia e muta con il variare delle epoche (città classiche, medioevali, rinascimentali e moderne). La necessità dello sfruttamento dello spazio naturale è designata da esigenze determinate di una organizzazione produttiva e sociale, di un sistema.
In base a questa categoria, però, non riusciamo a spiegarci l'interazione tra urbanistica ed economia e il sorgere stesso della disciplina dell'urbanistica. Soprattutto non ci spieghiamo il venir fuori del tema urbanistico come oggetto dell'intervento statale fin dal tardo medioevo e anche nella classicità. Se non esiste la categoria in quanto tale, che è solo una sussunzione della necessita dello sfruttamento della natura, quindi dell'economia, come spiegare la sua effettualità e il suo peso e la sua capacità di dialettizzarsi con lo sviluppo produttivo e sociale?

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Questo problema si pone ancora di più quando affrontiamo la progettazione urbanistica con il suo corollario di piani regolatori e soprattutto di piani edificatori, monumentali e non. In che cosa si sostanzia l'urbanistica, da dove nascono le esigenze urbanistiche e le ragioni dell'urbanistica? Dentro la città l'economia si presenta una seconda volta, come un secondo personaggio e questo spiega il sorgere della disciplina urbanistica. Dentro la città si trovano coloro che partecipano materialmente e quotidianamente all'apparato produttivo e riproduttivo del sistema economico; grandissime parti della città sono costruite per costoro e sono il loro luogo di vita e di lavoro. La città non è solo spazio produttivo, ma anche spazio non produttivo che torna nella produzione, spazio sociale dunque, spazio di vita per uomini legati alla produzione e spazio di lavoro per uomini che devono anche vivere al di fuori del lavoro, per poi tornare a lavorare.

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La città è attraversata da due spinte o pulsioni: quella economica e produttiva che, a sua volta, determina una spinta sociale. Dapprima economia e società marciano parallele ma nel loro sviluppo iniziano a interagire, come due soggetti autonomi, e a scontrarsi lasciando traccia di questo scontro proprio "nel ventre del tessuto urbano".
L'apparato produttivo ed economico genera una prima rete di comunicazione, che è una rete sociale (negozi, strade, chiese, scuole oltre che fabbriche, uffici e caseggiati), oggettiva e primaria. Questa rete primaria è ambivalente in quanto funziona come possibilità e opportunità di vita nella città e come possibilità e opportunità per controllare la forma di vita urbana. Quindi la rete urbanistica oggettiva e primaria permette la possibilità del lavoro e della mobilità da e verso il lavoro ma consente anche un controllo di prima fattura che trova il suo completamento, una sorta di coronamento, nell'attività lavorativa.
Questa rete di controllo di prima frattura, controllo primario, viene facilmente e naturalmente surcodificata dai soggetti sociali che la percorrono e che la utilizzano; è spesso divenuta, in passato, lo strumento per la comunicazione e propagazione di esperienze critiche e trasgressive, basti pensare ai numerosi casi degli anni sessanta e settanta nei quali le lotte operaie in fabbrica si sono estese alle scuole (agitazioni studentesche), ai negozi (movimenti per il controllo dei prezzi) e ai caseggiati (movimenti contro il caro affitti) insomma sono andate dalla fabbrica al quartiere.
Questo fenomeno è molto antico, in verità, e origina dall'inizio della società industriale. L'urbanistica da scienza spontanea si è trasformata in scienza programmata, proponendo un progetto che non è solo l'idealità dello spazio urbano e conseguentemente dello spazio sociale, ma che, invece, assume in sè, fin dal principio, spazio urbano e spazio sociale e, in questo senso, l'urbanistica diviene scienza amministrativa, scienza dello stato. Napoleone III, il fascismo e il nazismo esemplificano gli istinti in materia, ma sono solo i più 'illustri' esempi.

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Nello stesso momento in cui il controllo si dà le forme organizzate e neutre del corpo di polizia, elemento sconosciuto alle società pre-capitalistiche, compare questa nuovo modo di fare l'urbanistica, compare l'urbanistica moderna che ha due nomi: quello dello stato e del risanamento territoriale. Lo sviluppo delle forze produttive, programmabile e quantificabile, è accompagnato da un'equivocabile progettazione urbanistica.
La progettazione urbanistica è di per sè, in essenza, riformista; tende a riformare il tessuto urbano senza toccarne le caratteristiche fondamentali di funzionalità massima all'apparato produttivo. Questa funzionalità e linearità del rapporto tra organizzazione della produzione e spazio urbano ha, però, reso lineare e diretta, veloce e immediata, la comunicazione nello spazio e nel territorio di comportamenti antagonisti. Nel primo capitalismo, nel quale il polo economico e quello sociale marciavano paralleli, secondo un sogno utopico, il controllo dei soggetti sociali generati dalla produzione era problematico. La progettazione urbanistica è intervenuta per rompere questa linearità, per interrompere questa relazione diretta, cercando di nasconderla e di anestetizzarla.
Qui finisce l'urbanistica e inizia la politica. La dialettica apparato produttivo / tessuto sociale viene allontanata dalla semplificazione e svolta nella mediazione politica che interviene fattivamente nello studio degli spazi urbani e della vita, immagina soluzioni nuove che non comportino un'immediata assunzione del territorio da parte di chi lo abita.

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La scienza urbanistica attuale è la risultante di varie e molteplici interazioni: 1) coscienza dello sviluppo produttivo 2) sviluppo necessario del controllo sociale 3) intervento riformista dello stato. A disegnare lo sviluppo della urbanistica contemporanea sono stati tre elementi: sociali, economici e politici.

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Occorre, però, tracciare una separazione netta tra la progettazione urbanistica tardo medioevale e poi rinascimentale e moderna e quella contemporanea. La prima considerava la città come un oggetto vuoto, vale a dire come materia prima malleabile, immediatamente inseribile in un progetto razionale. Anzi, la razionalità era, per quella, proprio inverata dalla possibilità di iscrivere il progetto, l'idea, nella realtà (penso a piazza del Campo, a Pienza): la realtà diventava ragione.
In parte questo razionalismo ha un origine e spiegazione politica: è lo stato assoluto aristocratico che dall'alto della sua sovranità dispotica sente ogni parte e particolare ascrivibile a sè e al generale, sente di poterne disporre liberamente.
Dopo il XVII secolo tutto è diverso. Ogni progettazione nasce anche dalla consapevolezza di non poter organizzare lo spazio ma, al massimo, riorganizzarlo: lo sviluppo delle forze produttive è tale da surclassare i tempi tradizionali della colonizzazione o ricolonizzazione dello spazio, infatti.
Inoltre il movimento,
la caducità e temporaneità assoluta caratterizzano il nuovo colonialismo urbanistico, il nuovo modo di costruire l'ambiente urbano e quindi la progetazione urbanistica contemporanea deve tenere in conto le future e potenziali trasformazioni produttive e sociali. Non si ha, quindi, a che fare con uno spazio vuoto, senza materia o composto da una materia inerte, ma, al contrario, con uno spazio produttivo e sociale, vivo e reattivo, morbido ma non elastico.

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Ho scritto che la progettazione urbanistica  è sempre stata riformistica e ha avuto sempre un valore riformistico. Vorrei specificare meglio il concetto. Quando uso il termine riformistico intendo parlare di un intervento svolto a livello strutturale, cioé sociale, sul tessuto sociale stesso, destinato a dare una nuova forma al tessuto sociale. Il segno politico di questo riformismo è, al contrario, quasi sempre conservativo ed autoritario poichè si accompagna e richiede un intervento d'imperio dello stato sul tessuto di comunicazione e di scambio delle informazioni e delle socialità al fine di normalizzarlo. Pensiamo a Genova e alle politiche di spopolamento del centro storico a favore dei ghetti di periferia. Pensiamo anche al fatto che il valore estetico (vero o presunto non importa) che si crea attraverso queste riforme non si identifica affatto con la socialità. con il bello sociale, cioè con uno spazio vivibile socialmente, là dove per socialità si intenda una comunicazione autentica tra gli individui. Nei grandi quartieri che sono ultimamente sorti non ci sono possibilità per un transfert comunicativo tra gli abitanti: niente bar, niente negozi al dettaglio e solo qualche shop center. Questa indifferenza comunicativa si è sposata, inoltre, con un fenomeno recentissimo: la tendenza a un radicale decentramento produttivo. In questa maniera è venuta a mancare buona parte degli organi e dei nodi che conformavano la rete di comunicazione sociale precedente, anche sotto il profilo logistico.
Bisognerebbe, inoltre, aprire un inciso sulle trasformazioni nell'apparato produttivo, che sono complementari a questa impostazione urbanistica ma credo che mi dilungherei troppo. Lo stesso bello estetico si riduce oggi a un'estrema frammentazione dello spazio architettonico (costruzioni per cubi sovrapposti, pensiamo ai moduli atomici delle 'lavatrici' di Pra) e a un abbandono della tematica dei grandi agglomerati architettonici degli anni sessanta e settanta (esemplare il 'biscione' sopra Quezzi). Questi ultimi modelli, almeno teoricamente, prevedevano uno spazio collettivo e comune al quale si poteva accedere, quantomeno ripeto teoricamente; oggi, al contrario, la separazione di ogni famiglia e relativa unità immobiliare dalle altre e dall'esterno è pensata e progettata anche a livello formale, secondo l'enfatizzazione di un ritorno al privato, al non sociale e collettivo e la proposizione di una socialità che si fonda sulla dispersione e disgregazione.

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Questo processo che rappresenta urbanisticamente lo smantellamento della vecchia rete di comunicazione sociale non si realizza solo nei nuovo quartieri ma è operativa anche nei vecchi e tradizionali rioni proletari. È la tendenza generale della politica urbanistica attuale.

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Della colonizzazione della val Bisagno si può dire che anche questo processo ha determinato la scomparsa delle realtà urbanistiche precedenti. Si trattava di piccoli paesi agricoli come Molassana, San Gottardo e Prato, del tutto estranei all'economia industriale. La colonizzazione industriale avviene negli anni venti (qualche anticipazione si verifica nella seconda metà del secolo precedente) ed è singolarmente contrassegnata dall'indipendenza dalle grandi industrie portanti di Genova. È interessante, però, notare il fatto che, durante la creazione della 'Grande Genova' nel 1927, tutta la val Bisagno è inclusa amministrativamente nel territorio comunale genovese, nonostante la valle sia ancora, in larga parte, deindustrializzata. Si fece, in verità, una programmazione e proiezione urbanistica vera e propria, destinando il Bisagno e la sua vallata alla produzione più indipendente rispetto al settore produttivo trainante in Genova, vale a dire alla produzione di generi che guardavano direttamente al mercato nazionale, senza le mediazione delle commesse pubbliche. L'impressione è che il fascismo tenti di dare una fisionomia produttiva e urbanistica a ogni settore geografico del nuovo comune allargato e questo tentativo ha lasciato ampie tracce. Ed è stato in questa fase che si è definita, in val Bisagno, la rete primaria della comunicazione sociale (strade, negozi, bar, nuove chiese, scuole insieme con tintorie e industrie di vernici).
Le caratteristiche di questa rete sono 1) quella di innestarsi sulla preesistente struttura demica contadina 2) dare alla struttura precedente nuovi significati 3) il vecchio paese contadino, divenuto il centro storico del nuovo quartiere che gli è cresciuto intorno, è mantenuto, anche urbanisticamente, in funzione della riproposizione del controllo sui comportamenti esercitato dalle realtà tipicamente agricole. La società industriale trova nell'antico tessuto delle relazioni contadine un  ottimo strumento per reimpostare il proprio controllo e la sua sorveglianza.
Tutto questo è utile a tradurre più esplicitamente (in termini più concreti) quello che significa la rete di comunicazione primaria. La rete di comunicazione primaria è di origine pre - industriale ed è formata dal negoziante, dal farmacista, dal vicinato, come strumenti di controllo e auto - controllo. Il quartiere contadino è una realtà sociale  fortemente controllata in ordine a ogni ambito del comportamento. Il quartiere contadino conserva la credibilità nel giudizio, ha una tradizione alle spalle e una storia fatta di generazioni indigene.
Conseguentemente il quartiere contadino congiunge due fasi storiche: da una parte la vecchia socialità agricola, dominata dalla saggezza, la sapienza, l'esperienza e la tradizione, dall'altra parte la nuova socialità produttiva e industriale che usa sempre meno tradizione ed esperienza, ma che trova in questi relitti terreno fecondo per giustificarsi e proteggersi.
La rete sociale del quartiere contadino è fortemente comunicativa perché quando trasmette messaggi funzionali al controllo, offre al contempo una costante e continua possibilità di aggregazione. Il quartiere contadino è un'arma a doppio taglio sotto quasi tutti i punti di vista perché offre la possibilità di incontrarsi, di comunicare, a partire da vecchi legami che si rinnovano e riproducono in forme nuove e da antichi principi che lo rendono singolare e non disperso nell'indifferenziato urbano.

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Si è attuata una raffinata sterilizzazione della vita sociale, la comunicazione all'interno dello spazio urbano è svuotata di significati come lo è lo spazio urbano. Questo si è fatto e si sta facendo deterritorializzando la città, facendo perdere identità a ogni quartiere dentro la città, ogni zona urbana viene risucchiata nella pianificazione e nell'indifferenziato capitalistico. Ciascun quartiere deve essere il più possibile simile a qualunque altro quartiere, di questa città o di ogni altra città, fino a che gli abitanti si sentano  dispersi in un tessuto urbano completamente privo di riferimenti 'familiari', di domesticità: fino a che sia difficile capire che hai sbagliato la fermata dell'autobus. Questo è il senso politico, sociale e filosofico dei nuovi quartieri che anche a Genova si stanno edificando.
La città deve presentarsi come un tutto indifferenziato, senza appigli, senza agganci, senza possibilità di agganci per chi li ricerchi. Ecco il segreto e l'anima segreta dei nuovi quartieri che, poi, finisce per pervadere anche i vecchi quartieri, fino ai quartieri contadini. Ecco uno dei sensi della lotta, che si svolge su un terreno apparentemente tutto economico, secondo motivi strettamente economici, alle vecchie forme di distribuzione delle merci, ai piccoli negozi di quartiere. L'obiettivo sono i grandi supermarket, pochissimi negozi al dettaglio (ridotti a specializzazioni della grande distribuzione), il più possibile gestiti e condotti da estranei al quartiere, meno piazze, o meglio solo piazze di raccordo automobilistico e progressiva soppressione e obliterazione dei luoghi aperti e allargati non destinati al trasporto e alla distribuzione delle merci.
Così la rete di comunicazione sociale primaria si sta gradualmente sfaldando a favore di una indifferenziazione totale, priva di gradienze, di particolarità, del tessuto urbano.

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La nuova rete di comunicazione è una rete senza differenziazioni, senza nuclei, poli, senza momenti geografici forti. Comporta degli effetti dialettici tra loro: 1) la dispersione completa delle esperienze trasgressive e critiche 2) l'impossibilità di sedimentarne di nuove 3) il crollo e la scomparsa di una forma di controllo sociale efficacissima quale quella del quartiere contadino. Il punto di fuga, il punto della critica antagonista, volge a zero, volge verso il punto nel quale le esperienze di tutti sono quelle di uno, ma non sono comunicabili. La città tende a essere un'entità indifferenziata, una realtà in sè e per sè, un'essenza data, e quindi priva di storia, di evoluzione e di differenziazione. Una città stranissima e del tutto nuova poichè ha interrotto ogni rapporto strutturale con il passato.

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Ogni uomo è commisurato a sé stesso; non esiste una misura tra gli uomini.

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Ci vorrebbe il coraggio di sentirsi continuamente nuovi, rinnovati da una continua apertura verso quello che ci circonda. Questo, però, non si verifica mai perché un improvvisa sensazione di soffocamente di fronte alla realtà che cambia ci assale e ci induce a rifugiarci nei sogni della conservazione, sclerotica, delle cose presenti.

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La città moderna è un corpo indifferenziato e indefinito che dà violenza nella stessa misura in cui la subisce. Non esistono più punti di resistenza alla logica della sopraffazione e del dominio, punti e posti geografici capaci di inquadrare una mediazione, di calmare le pulsioni individuali che una società di comando e dominazione genera. Il vecchio quartiere contadino era uno di questi punti individui. Le agitazione e le rivolte che lo hanno percorso negli ultimi secoli passavano attraverso il filtro delle grandi finalità, dei grandi scopi sociali; la rete di comunicazione favoriva immediatamente la definizione di un fine generale, estendibile a ogni uomo, la salvezza del mondo come salvezza del quartiere. Oggi, invece, la crudezza dei rapporti di dominio arriva direttamente nel territorio urbano e viene recepita come aggressione individuale e restituita immediatamente sotto la forma di una replica individuale, sotto la forma di una trasgressione indiduale.

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Molti spiegano il successo storico delle società divise in classi e dell'istituzione statale (sia nella versione democratica che oligarchica) in termini di repressione, repressione militare e poliziesca. Altri, invece, affermano che classismo e statalismo hanno trovato dei referenti nel sociale. Non si tratta nè dell'uno, nè dell'altro caso. Queste due visioni vanno rifiutate: la prima è una visione metafisica del sociale, vale a dire che immagina un sociale indipendente dall'organizzazione della produzione e della proprietà, puro in sè e che può essere soggiogato solo da un potere espresso militarmente e attraverso l'uso della forza. La seconda visione discerne tra una componente adattabile, referenziale al potere, e una non adattabile. In realtà nessun componente della società risulta essere adattabile e referenziale o inadattabile e non referenziale al potere e al dominio, ma ogni elemento sociale è costretto, inevitabilmente (proprio per il suo darsi storico), a seguire il dominio, per quanto riguarda il coinvoglimento nella cooperazione sociale. Il dominio, infatti, si presenta ed è, storicamente, il garante della cooperazione sociale.
La repressione in quanto tale, come elemento essenziale, separabile da ogni altro strumento di controllo sociale, non esiste. La repressione è fondamentale solo in alcune fasi della vita di un sistema sociale dominato e classista, quella del suo consolidamento iniziale. Il dominio in quanto garanzia di cooperazione sociale, si comporta come una macchina, macchina di produzione e macchina di desideri: il dominio è coinvolgimento in sé della società. Senza di quello non sopravviverebbe che poche settimane.

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Il dominio è una macchina perfetta, al punto che gran parte di coloro che lo subiscono se ne innamorano. La repressione non è costituiva del dominio, più facilmente l'amore, magari perverso. La repressione è una grande parata, ma il dominio recupera e reprime molto più efficacemente e in modo più sottile entrando dentro i rivoluzionari, facendone delle scimmie ammaestrate alla riproduzione del dominio in un apparente altro dominio.

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È stupido, in una società che sa creare indifferenziato, credere che l'ideologia possa svolgere ancora un ruolo trainante nella trasformazione sociale e nel processo rivoluzionario.

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Repressione. Quante sconfitte sono state giustificate con questa parola! Con essa si è esorcizzata e nascosta la scimmia ammaestrata che si era divertita a distruggere ogni speranza nel futuro e si giustifica il fatto di continuare a dover fare le scimmie. Viva la repressione!

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L'ideologia oggi è un prodotto commerciale: è diventata anche vendibile.

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Che pena i militanti! Sono allo stesso livello di commessi viaggiatori dell'ideologia che vengono inghiottiti dalla grande indifferenziazione per la quale il loro prodotto non ha più qualità se non nel commercio. I militanti godono spesso per la potenza della macchina che li tortura, sono ammirati della macchina del dominio che, indirettamente, ingigantisce i loro sforzi, rendendo la loro vita apparentemente importante. Alla fine, sia per rispondere alla tortura che hanno subito sia per inconsapevole identificazione e ammirazione, i militanti ricostruiscono in piccolo una macchina torturatrice: l'organizzazione rivoluzionaria.

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Le grandi forze dominano il mondo: perché piangere sugli indiani d'America? o sulla civiltà contadina?. Tutto ciò avrebbe senso se si potesse eseguire una somma dei valori umani espressi nella storia fino a oggi e se, contemporaneamente e in quello stesso istante, il mondo finisse. Il mondo, però, va avanti, mai uguale a sè stesso e  in questa metamorfosi continua è la nostra salvezza.

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I rivoluzionari, secondo una definizione statica: "io sono un rivoluzionario", non esistono e se insistono a dichiararsi tali sono solo delle ripetizioni della loro biografia precedente.

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Magari! si potesse sapere quanto il mondo ha conquistato le tue gambe, le tue braccia e la tua testa! Non è possibile stabilire quanto una decisione nella vita sia nostra o dettata dalle necessità che animano il mondo. Non è possibile stabilire se ti stai ribellando o arrendendo. Non si sa quanto l'arte della sopravvivenza ci abbia colto passivi o attivi, ci abbia trasformato in strumenti di intervento che corrono dietro ai tempi o piccole lumache rinchiuse nella loro bava.

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Il mondo è in noi, si crea in noi, si struttura e costruisce su di noi, ma mai si è in grado di valutare quanto questo processo è dominato dalla volontà di intervenire su quello, di individuare in quello il nostro taglio o, al contrario, è governato dalla capacità del mondo di tagliarci. Il mondo è nella nostra immaginazione perchè non si può vivere senza pensare il mondo, senza vedere le sue articolazioni, le sue alterazioni storiche, ma come possiamo realmente intervenire sul mondo? Come non fare di ogni nostra scelta una profonda genuflessione a questo apparato? Come esprimere la propria volontà?

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Essere il mondo e finirla con l'immaginarlo potrebbe essere l'essenza del rivoluzionario. Ma cosa è essenza rivoluzionaria quando bisogna correre affannosamente dietro il mondo, per poi odiare il momento in cui lo ritroviamo dentro di noi? È questa una contraddizione che perennemente assilla i rivoluzionari, che assilla questa umanità che non è mai stata veramente rivoluzionaria, mai capace di essere in sincronia con il mondo e che, alla fine e non solo, ha reso le rivoluzioni delle opzioni di comodo, una maniera di evitare un vero ricongiungimento con i tempi del mondo.

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Le ideologie politiche stanno facendo la fine delle ideologie religiose. Ora la realtà non ha la potenza necessaria per inventare il suo mascheramento, per trovare un senso storico alla sua esistenza, ora davvero lo stato di cose presenti è agonizzante.

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Quelli che hanno promosso le cosiddette organizzazioni rivoluzionarie non hanno avuto alcun dubbio sulla loro funzionalità trasformativa e antagonista. Essi potevano sentirsi così sicuri di questo grazie al calore delle coperte della piccola società proto - statalista e torturatrice che essi chiamavano e continuano a chiamare organizzazione rivoluzionaria. Non è affatto altrettanto stupido il dominio che non nega loro la possibilità di organizzarsi, mantiene valida la libertà di riunione e di propaganda, consapevole del fatto che tra i rivoluzionari si riproducono i suoi stessi meccanismi e il dominio trova proprio nei rivoluzionari la sua estrema legittimazione e la dolce funzione di padre indirizzatore che grazie loro diviene conclamata.
Il dominio sa che nelle organizzazioni rivoluzionarie tradizionali si usa la sua stessa lingua e che, così, risultano comprensibili, riassumibili e recuperabili. Mai come oggi politica e ideologia son sinonimi di mediazione. Il dominio è un complesso di linguaggi e sa che esistono linguaggi completamente differenti dai suoi, oggi una babele individualizzata, che trovano la loro espressione con grande difficoltà, la stessa che incontrò la specie umana nello staccarsi da quella delle scimmie.

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Questi linguaggi non hanno regole di espressione, essi sono il superamento della regola, perciò si esprimono a volte attraverso le organizzazioni rivoluzionarie. È allora che interviene la repressione, la parata della repressione, che, però, si esprime contro tutti i linguaggi estranei, facendo il verso di colpire il linguaggio comprensibile dell'organizzazione rivoluzionaria tradizionale.

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Quante volte nella storia, le organizzazioni rivoluzionarie e comuniste, conquistate e dominate dalla forza dei bisogni proletari, se ne sono arricchite, hanno assunto questi nuovi linguaggi e poi hanno cercato di ridurli, di assimilarli e di inserirli in una progettazione politica che limitava quei bisogni e la loro affermazione. Il perdurare dell'affermazione di questi bisogni è stata percepita come estranea alla progettazione rivoluzionaria e definita avventurista, spontaneista, infantile, estremista etc. etc. Dopo le organizzazioni rivoluzionarie tradizionali hanno imparato a filtrare aprioristicamente ogni linguaggio e comportamento che non parlasse naturalmente di pianificazione, di indifferenziazione e progettualità ideologica. La prima fase furono gli anarchici e i primi comunisti, la seconda i socialdemocratici e i leninisti.

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Di nuovo sul magari! Magari si sapesse se si è nel sistema o contro il sistema, se si è soggetti che vivono in sintonia, in compatibilità con esso, oppure no. E si ricerca il metro, che è sempre approssimativo e si rivela alla fine anche relativo. Non esiste in materia, insomma, una cartina di tornasole che ci dica: tu sei un acido e tu una base.
Inoltre, si può essere fuori dal sistema, oggi? E ancora di più si può essere semplicemente fuori? Esiste un fuori? Non esiste più la follia, è stata abolita per legge insieme con il manicomio. Dentro - fuori sono una archeologia. Se esistesse ancora, e forse non è mai autenticamente esistito, un dentro e un fuori, allora si potrebbe spiegare la conservazione del potere come il risultato della repressione, in termini di repressione contro il fuori, ma è sempre più chiaro, lampante, quasi ovvio, che tutto è dentro il potere e che la stabilità sociale è oggi ottenuta in forme chimicamente pure, in passato secondo mescolanze e miscele meno pure, attraverso l'identificazione del potere, attraverso il fascino della sua grande macchina.
Magari! Magari se si sapesse e potesse definire un dentro e un fuori dal sistema, un estraneo, separato dal sistema. Allora si potrebbe presentare la lotta di classe tutta in termini di repressione, di attacco giudiziario, considerarla un immenso problema di politica carceraria. C'è ben altro! C'è che non si dà un esterno al sistema, un al di fuori inteso come entità che con esso possa instaurare solo ed esclusivamente rapporti antagonisti, rapporti di guerra. Non esiste e non è mai esistita nella storia questa separazione metafisica: potere - non potere. Ogni elemento storico ha sempre potuto determinare in sé una parte o anche solo una particella di potere, ogni elemento storico ha ricercato dentro di sé la capacità di ritrovare il potere, di ricostruirlo e ricodificarlo. Si è cercato spesso di separare lo scenario dei comportamenti politici e sociali in riformisti, rivoluzionari e conservatori e gli strati sociali in privilegiati, meno privilegiati, emarginati ecc., facendoli, anche, corrispondere. Al centro di questa tipologia analitica c'è sempre stato il rapporto che comportamenti e strati sociali instaurano con il potere, sia e fosse stato politico ed economico.
E questo è un dato: il potere, che onnipresente diventa uno dei poli della pietra di paragone analitica, entra a far parte integrante e costitutiva del metro di giudizio. Mai, però, si è denunciato e ci si è accorti di quanto questa oggettiva onnipresenza provocava il naufragio di quelle stesse separazioni e divisioni. Come non era altro che una riproposizione del potere nel pensiero e negli atteggiamenti riformisti, così tra i rivoluzionari si elaborava un altro tipo di questa riproposizione e, in entrambi i casi, il potere riprendeva fiato e il suo nucleo infuocato, il suo fascino e la sua macchina, riscaldavano le menti dei riformisti e dei rivoluzionari. La critica al potere influenza il potere e il potere influenza la sua critica: lo strumento entra a far parte del fenomeno. Il potere assomiglia al mare: a lui tutti i fiumi, da lui le nuvole e poi la pioggia nei fiumi. Ogni cosa in diverse forme partecipa alla costituzione e ricostituzione del potere, vi partecipa per sè stessa, in quando sente la necessità di agire in nome di un potere, una istituzionalità qualunque. Il potere è ovunque, in ogni attimo, in ogni molecola del vivere sociale, il vivere sociale è inimmaginabile, non percepibile senza l'esistenza del potere. La repressione, allora, è un concetto tranquillizzante perchè assolve tutti dal potere, scagiona il vero potere, ne occulta i meccanismi reali e rappresenta un altro potere, in versione teatrale.

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Polizia, carceri, tribunali sono le apparenze teatrali del potere, mentre, al contrario, scuole, caserme e ospedali dovrebbero essere intese, davvero, come una delle sue forma sostanziali, ma raramente accade così e risulta più comoda l'apparenza che non la sostanza. L'apparenza del potere diviene la sua sostanza. E lo diventa realmente!
Lo ripeto: polizia carceri e tribunali sono solo le apparenze teatrali del potere, perchè la sostanza del potere è un'altra cosa. Attraverso polizia, carceri e tribunali il potere dice: "io sono soprattutto questo, io sono questo: la vostra macchina torturatrice". In questa maniera questo organismo che è di produzione, che un organismo di creazione incessante di processi sociali ed etici, si sposta sul piano simbolico e si salva. Si salva, intendo dire, da sé stesso, dalla sua rivelazione e smascheramento, allontanandosi dal piano della vita quotidiana: il teatro non è vita quotidiana, ma solo eccezione e selezione, il teatro attraverso il tribunale solo eccezione negativa, deviazione e emarginazione. Nella sua versione teatrale il potere usa gli uomini e li macera, distrugge le vite concretamente, ma quelle vite diventano esempi, non vite concrete e quotidiane e la pena è studiata per distruggere la quotidianità e la concretezza dell'azione del potere. Il potere è, quando indossa questa veste, una grande macchina di tortura, indiscutibilmente. Va, però, detto che non avrebbe di che torturare se non ci fosse, alla fine, lì pronto ai suoi piedi, un corpo accasciato che chiede con insistenza: "piuttosto prendimi e torturami ma non lasciarmi così, nella certezza di essere tu anch'io". Questo atteggiamento insano non vale per tutti coloro che passano attraverso le maglie della repressione ma sospetto che sia descrittivo di buona parte dei rivoluzionari aggrappati alla tradizione rivoluzionaria.

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Le conoscenze dei tre livelli si possono individuare quotidianamente. Dapprima si constata l'insensatezza, la crudeltà, l'aridità e l'avidità che dominano la vita sociale, la meschinità dell'amore che si percepisce costretto da legacci assurdi.
È l'epoca dei grandi giudizi morali, della lotta ai farisei, agli ipocriti, ai capitalisti come persone, del disprezzo verso il danaro e della progettazione di una vita che sia dominata dai grandi valori, dal grande amore, immaginazione di una vita che, come un fiore di cristallo, si innalza da sè stessa grazie a un attento e vigile dominio etico: è anche l'epoca della morale autonoma e della religione personale, è pure l'epoca in cui si pensa a una società più democratica, a uno stato più equo e forte contro i forti, a uno stato totalitario al servizio dei deboli e dei molti, a uno stato morale. Si rovescia Dio a nostro favore: è l'epoca nella quale Cristo sale sulle barricate e sta dalla nostra.
In un secondo tempo si accerta la necessità del compromesso con questa realtà, gradatamente ci si rende conto del fatto che crudeltà, aridità e avidità e che l'amore legato sono utili, adatti alla sopravvivenza. I farisei sono doppi e inevitabilmente doppi e i grandi principi morali non tengono in alcun conto la realtà della vita. Si diventa atei, ma atei di rassegnazione, atei orfani di Cristo. Non si progettano più stati, ma ci si aspetta qualcosa da quello esistente. Si accettano le leggi e in quelle si ritrovano molti inequivocabili principi morali. Il matrimonio non è forse pegno e segno di grande amore? Il lavoro collettivo non è forse impegno di utilità sociale? "Faccio quello che posso" è la frase più pensata "e posso davvero poco" è la frase più detta.
I più si fermano qui, su questa soglia, su questa vaga collina. Resteranno qua tutta la vita. Altri procedono al terzo livello; il motivo del proseguo del loro cammino è difficilmente spiegabile, ma sta di fatto che proseguono ed è questa la strada dei grandi filosofi siano essi ultra - reazionari o rivoluzionari, e pure questa è la strada dei folli siano essi nel delirio nazisti o ebrei perseguitati. Arrivano a questa semplice frase: "Faccio quello che posso ma non posso niente, è come se non vivessi, ma allora se è come se non vivessi, se nessuno si accorge di me, posso tutto". È questa anche la frase dei peggiori criminali.
Grandi valori morali? Mio Dio! Ne ho abbastanza dei piccoli! Crudeltà, avidità, amore? Esistono ma fanno parte delle cose, essi sono le cose. Cos'è quello che si chiama amore se non un incrocio di crudeltà, avidità, volontà di possesso, paura della solitudine? Cos'è la vita sociale se non solitudine? Cos'è il lavoro se non l'unica forma di vita sociale, l'unica che realmente ci è utile? Come si può parlare di stato moderno o libero o pubblico, quando ogni giorno ci cresce dentro l'idea di potere, quando siamo sempre più noi il potere, quando amiamo sempre più il nostro martirio?
Libertà è solo una parola, una gran bella parola, quando poi ti muovi come un ballerino, felice della danza, costretto a seguire passi già scritti. Quando sei libero sei un ballerino che bacia i piedi del suo maestro e lo ringrazia per avergli insegnato ad attraversare il palcoscenico! Se si ha desiderio di qualcosa, si deve mediare e attendere per esprimerlo e poi soddisfarlo, fino al punto che il desiderio diviene diverso dalla sua origine. Quando si ottiene questo desiderato, lo si difende come il frutto più importante del mondo, anche se non è quello che attendevi, proprio perchè hai dovuto imparare ad attenderlo, e si è avari di quello, avidi di quello, crudeli per mantenerlo, qualunque cosa esso sia: un vantaggio, un amico o un amore. La vita si identifica in questo complesso di desideri attesi e la perdita di questi desideri è morte. Quando la morte è ridotta alla mancanza di questo complesso di desiderati significa che non c'è affatto bisogno di carri armati e fucili per tenere sotto il mondo, perché il mondo è irrimediabilmente sotto.
Non basterebbe abbattere un potere, uno stato, ma abbattere il potere, la cosa che dentro di noi ci fa desiderare di essere dominati, di porre in attesa i nostri desideri, se non abbattiamo il potere, questo potere, un altro potere e un altro stato si riformeranno al posto di quelli che abbiamo appena abbattuto.
Oh certo! Ci sono molti uomini oggi che si proclamano per la libertà, ma come si recita in un film "quando se lo trovano davanti, poi, l'uomo libero, se la fanno sotto", l'uomo libero, l'uomo dell'ora quello che mi serve, del 'non so perchè dovrei farlo', del 'amore? Una gran bella cosa, ma spiegatemi cosa è', del 'lavorare è una cosa strana, proprio fuori dal mio modo di essere', del 'ogni convinzione è una malattia', del 'lo so, sono terribilmente cinico e sto male per questo, ma ho altra strada?', del 'Cristo vorrei poter non pensare più'.
L'uomo libero è quello eternamente innamorato che non lo sa e non lo dice. È il terzo livello conoscitivo dell'uomo. Il primo livello è quello dell'uomo innamorato a volte ma che lo è per sempre e sempre lo dice, il secondo l'uomo che non lo è mai e lo dice in particolari occasioni, il terzo, appunto, l'uomo che lo è sempre e non lo sa.

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Tre livelli anche nella biologia umana, che rovesciano la nostra filogenesi intrauterina: i rettili, gli anfibi e poi i pesci. L'uomo ha una parte rettile, poichè è un anfibio che, uscito dall'acqua, si muove o cerca di muoversi come un pesce, come se sapesse che era un pesce e vuole ridiventarlo. L'anfibio è il passaggio, la mediazione e il cinismo a quella connesso. Nell'anfibio l'uomo acquisisce un suo modo di stare al di fuori dell'acqua e abbandona il mare. E infine il pesce che può essere visto come un rettile che vive in mare. Quella di essere rettili che vivono in mare potrebbe essere la nostra parte più profonda, intima.

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L'uomo - rettile è lo spirito romantico, stufo del mondo che si inventa un altro mondo, a tavolino, forgiato nei grandi ideali, rifiuta l'apparenza e crea una nuova sostanza. L'uomo - anfibio è l'uomo adattato, che ha scoperto una parte della sostanza del mondo, ha scoperto l'atmosfera (la sua necessità, inevitabilità) e ha fatto un bagno di conoscenza ma si rassegna e rientra saltellante come un rospetto nell'apparenza, acquisendo il massimo possibile di atteggiamenti razionali (la rana ha le zampe). L'uomo - pesce vive nella sostanza, ci nuota e si muove in quelle assomigliando all'uomo - rettile perchè come quello si ribella e la rifiuta e cerca una nuova sostanza. È, però, un legame apparente poichè il secondo vive sulla terra, respira atmosfera, costruisce nidi e ripari, progetta grandi mondi, mentre il primo nuota nell'acqua, sa cosa è il mondo, non progetta ma non si arrende (non può, infatti, arrendersi: sarebbe un pesce fuori dall'acqua e morirebbe). La giusta conoscenza del mondo appartiene all'uomo - pesce, ma chi opera meglio? Il serpente, la rana o il pesce? Il pesce non è forse tornato troppo indietro? In una strada dalla quale non si torna, una strada dove non è possibile respirare? La rana, invece, non sbaglia ad accontentarsi delle piccole comodità del suo stagno? Il serpente, che ha abbandonato per sempre il mare e l'acqua e che vive sulla terraferma, non si è spinto forse troppo avanti e crede di stare in alto quando, alla fine, striscia sulla terra? In questi caso ogni convinzione è una malattia come potrebbe dire l'uomo - pesce.

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Quanto sono noiosi tutti quelli che abbozzano analisi tutte - organiche, capaci di descrivere tutto con tutto. Oltre a essere noiosi sono anche miopi perchè insieme con il ripetere la medesima equazione non sanno neppure variarne i termini: gli organici sono degli stupratori analitici e intellettuali, appiattiscono le gradienze che compongono la realtà (immaginabili come tinte più forti e meno forti, concentrati quantitativi diversi) su un solo atto analitico e conoscitivo (che produce un'unica valenza cromatica). Il problema è che questa valenza monocromatica è il ponte tra i colori della realtà e quello della loro costruzione analitica: interpretano i colori in sfumature tra il bianco e il nero.

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Analizzare l'uomo nella sua vita, nel suo modo di essere, allontanadosi dalla pretesa della conoscenza dell'essenza, fa perdere quel distacco, stilisticamente espresso con il linguaggio, che ogni analista, quasi per una forma di difesa dal suo oggetto, assume. Così si scrive come si parla e non si pensa a come si pensa.

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Tra il modo di essere, presentare, vivere una situazione e l'autentico sentirla e pensarla c'è tanta lontananza da far apparire inutile la coscienza di quel sentimento profondo. Il sentimento profondo rimane inesprimibile e, alla fine, inutile alla conoscenza. Senonchè il pesce si muove in maniera troppo simile al rettile: di solito si è, si presenta e si vive una situazione nell'unica maniera in cui è consentito; e questo fatto è già una testimonianza della profondità del comportamento che, solitamente, viene catalogato come superficiale. La superficialità dice grandi cose e profonde sull'animo delle persone e sulle loro situazioni.

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Se esiste un uomo libero, non c'è maniera di individuarlo, anche perchè non ha un cartello al collo con su scritto libero, se è libero non saprà di essere libero, inoltre. L'uomo libero sarà libero non per libera scelta ma per necessità, tutta una serie di cause lo avranno indotto a essere libero, cioè al punto di servire la libertà, immaginandola ad occhi chiusi anche solo un breve attimo e da allora ha voluto tutte le cose, tutte le cose in sè, come se ballasse nel mondo abbattendo ogni ostacolo e come se quell'istante fosse l'eternità. Ma quell'istante non sarà consapevole della sua eternità e quindi la libertà rimarrà ignota. L'eternità di quell'istante si riduce, così, all'istante che  lascia una traccia eterna sugli altri istanti, ma non è l'istante eterno e la consapevolezza. Non si può continuare ad abbattere ostacoli e a sfidare il mondo, quasi fosse un mestiere o una missione. C'è qualcosa che frena l'uomo libero dal di dentro oltre che dal di fuori, ovviamente. Vorrebbe tutte le cose in sè ma non può, perchè non è infinito nè eterno, e finisce, spesso, per sentirsi ostile a tutto e sente tutto ostile a sè stesso, alla sua potenziale infinitezza ed eternità. Finisce per dire o esclamare: "Tutto lavora per la mia distruzione, io per primo".
L'uomo libero esiste, ma non è altro che una vaga possibilità, che fa pisciare di paura molti; l'uomo libero è protagonista di alcune azioni che fanno un gran baccano, ma poi se ne ritrae rapido e veloce, perchè quel baccano non era la sua produzione e intenzione. Non si può sfidare il mondo da soli e naenche se si è in molti continuare a sfidarlo. L'uomo e gli uomini liberi, giunti a un passo dalla loro realizzazione, devono ritrarsi e tornare indietro: trovare in sé stessi il limite del mondo, il limite della libertà e quello che il mondo è veramente.
Non è affatto facile cambiare le cose.

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Allegro, triste, felice, poi altre definizioni più scientifiche (cliniche), depresso, eccitato, euforico, poi altre ancora tipicamente urbane, giù, su, paranoico, nervoso, ossessionante, ossessionato, sfasato, strinato circoscrivono il gusto normativo della definizione che viene su: sono categorie per sapere / prevedere.
Oggi comunicare è far sapere, come un tempo, ma far sapere per dare strumenti, per creare categorie; oggi comunicare è stato squalificato a ruolo e funzione del controllo. Oggi il controllo si gioca tutto sulla comunicazione. Se non si comunicasse gli istituti del dominio sociale e politico non saprebbero, ma è necessario che sappiano perchè io devo comunicare. Allora si rimane tristi, allegri e eccitati, euforici e catalogati. Basterebbe darsi negli atti, basterebbe rompere la comunicazione, ma anche gli atti sono comunicativi. L'univa via è nell'abbandono della comunicazione come assenza di atti e gli atti devono essere la fonte della comunicazione, anche se non annullano la possibilità del controllo, ma la sorveglianza si eserciterà su spostamenti, autentici eventi, tempi che si dilatano, percorsi che cambiano. La comunicazione rincorrerà e non precederà e il controllo rincorrerà e non precederà: avrà sempre l'immagine precedente.

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Il controllo di prima fattura se ne va con il quartiere contadino. Gli ultimi aliti del contadino sono spariti. Siamo in piena civiltà metropolitana (in USA da trent'anni almeno). Scompaiono anche i ricordi del paese che c'era prima. E allora? 1) La famiglia è nuovamente centrale 2) il lavoro con lei. Questi i due mezzi di controllo in mezzo al deserto dell'indifferenziato. In terzo luogo devono emergere strutture / istituzioni nuove nel tessuto urbano di tipo sociale o sociologico. È lì che si concentrerà il controllo.
Tutto questo ha dei gravi limiti perché sarà un intervento che non si svolge nella materialità dei rapporti sociali, la sua naturalità, ma sarà, necessariamente, qualcosa di estraneo. 1) sarà un rapporto che imposto dall'esterno  si dovrà giustificare in qualche modo, ammantandosi di ragionevolezza, organizzando una ragione sociale astratta, poichè non agirà su un terreno individuato e individualizzabile, ma fluido, privo di centri e nuclei e omogeneo, quindi, difficilmente analizzabile 2) proporrà il vecchio controllo contadino in maniera più formalizzata e in veste istituzionalizata, asettica e scientifica, più difficilmente comprensibile ai soggetti interessati 3) soprattutto si eserciterà su un tessuto sociale che non possiede un linguaggio omogeneo, un linguaggio sul quale fare leva.
È chiaro che potrebbe delinearsi la scelta di un controllo strettamente poliziesco e militare se pensiamo al crollo di credibilità del sindacato nei posti di lavoro o alla crisi del sistema di produzione operaio. Il campo del controllo primario potrebbe essere assunto dal controllo istituzionale e poliziesco.

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La lepre si chiama lepre perchè corre veloce. Questa è la giustificazione dei nomi delle cose che danno i bambini. Il nome viene prima delle cose, è dunque per un bambino inconcepibile cambiare il nome alla lepre, poichè essa è tale proprio perchè si chiama lepre. Nell'adulto il procedimento è inverso: la cosa è l'animale che corre veloce che casualmente è stato nominato lepre. Lepre è solo un nome, la cosa sarebbe quella anche senza di esso e la lepre esisterebbe ugualmente. Nei bambini le cose esistono solo in quanto ci siamo noi a dare loro un nome, negli adulti i nomi esistono in quanto ci sono le cose che li suscitano e impongono.
Ma hanno ragione gli adulti? Esistono davvero delle cesure così nette, dei tagli profondi, tra le cose, immediati alla percezione, tali da determinare già di pe se stessi la scelta di un nome, il loro nome? Il nome nasce davvero da un'individualità precisa? O, al contrario, dando ragione al bambino, il tutto è indifferenziato, anche alla percezione e solo il nostro intervento lo differenzia e lo individua? La lepre non è solo l'animale che corre veloce, ma la lepre ha un corpo, dorme, si riposa e fa molte cose che sono comuni e somiglianti a quelle di altri animali e non c'è nulla che possa spingere a considerarla lepre, se non il fatto che abbiamo imparato, per comodità, a chiamarla lepre. Abbiamo selezionato alcune caratteristiche e in base a questa scelta abbiamo deciso di chiamarla così, lepre, appunto. Il bambino, quindi, dice una verità quando afferma che il nome viene prima ed è più importante della cosa, perchè presagisce il procedimento e sa che se non ci fosse il nome la lepre, certo, esisterebbe ma non in quanto lepre, poichè le sue caratteristiche sconfinano in quelle di altri animali ed è stato solo un fatto di autorità linguistica a darle la definizione di lepre. Gli adulti, quindi, hanno individuato un parametro attraverso il quale dare il nome alla cosa e la chiamano la cosa stessa e, alla fine, non importa che coincida perfettamente alla cosa ma che la rappresenti e la individui rispetto alle altre.
Dare il nome alle cose è la qualita e capacità fondamentale dell'uomo: deriva dalla capacità di orizzontarsi nella natura, di valutarla, giudicarla e manipolarla, deriva dalla capacità di intervenire sulla natura come un essere esterno a quella. La natura esiste solo come prodotto umano, è un concetto, un prodotto concettuale, senza l'uomo la natura non avrebbe senso, non esisterebbe. La natura esiste solo perché l'uomo gli ha dato un nome, separandola da tutti i nomi che prima aveva dato alle cose che appartengono alla natura. A quel punto l'uomo oltre che separare la natura dalle sue cose, ha iniziato a separare sè stesso dalla natura e ha iniziato a fare discorsi oggettivi sui nomi della natura, ha iniziato a parlare e scrivere di generi, ordini, specie e razze, giungendo fino al punto nel quale le cose (come pensa il bambino reintrepretando il procedimento) esistono solo in quanto sono nomi, solo sotto il profilo funzionale e caratteriale che interessa in noi e che diventa un tutto tondo. Si sono, così, gradualmente svuotati i rapporti con la natura, che è diventata una forma immutabile, divisa in nomi (mito di Adamo e della creazione). Poi è arrivata la teoria dell'evoluzione e le cose sono iniziate a cambiare ma i nomi, al contrario, han continuato a rimanere fissi e immutabili e sempre più inadeguati, anche rispetto a quello che si principiava a vedere nelle cose della natura. L'ape e il fiore, ad esempio: l'ape è l'apparato riproduttivo del fiore? Dove finisce l'ape e inizia il fiore? La scimmia e l'uomo: dove finisce la scimmia e inizia l'uomo?
I nomi si sono rivelati come distinzioni di comodo e l'ideologia della perfetta osmosi tra uomini e cose entrò in crisi: era vero che i nomi sono il nostro modo di far vivere le cose, ma non è certamente quello il modo in cui quelle sono.
La perfetta osmosi tra nomi e cose fu smascherata proprio quando si intuì la perfetta osmosi della natura nella quale ogni specie entra a far parte come organo riproduttore, digestivo di un'altra specie e che una specie è una contaminazione di molte specie, una cooperazione incredibile tra diversi organismi.
Solo il linguaggio scientifico, per quanto sia rimasto astraente e legato alla selezione e all'individuazione, appare in grado di rappresentare verosimilmente lo stato delle cose: brutalizzandolo, schematizzandolo, isomorfamente a come l'uomo entra nella natura. L'uomo, usando la volontà di dividersi dal resto degli altri animali e costituendo il concetto di natura, si è diviso da sè stesso, che diviene una specie tra le altre specie, un nome tra gli altri, e usa il linguaggio scientifico anche verso sè stesso. Il linguaggio scientifico cerca di superare sè stesso, di superare il linguaggio, riconosce i limiti del linguaggio, la sua brutalità e la limitatezza: le cose, da un punto di vista scientifico sono innominabili poichè esistono a prescindere da quello. Il linguaggio scientifico non è un linguaggio reale, non propone un discorso sulla realtà ma sulla verità, è un linguaggio vero, che usa la necessità dei nomi per descrivere la realtà secondo ipotesi di verità. Il linguaggio scientifico è proteso alla verità e non alla realtà.

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Lo stesso fenomeno si è verificato nello studio della società. I nomi sociali corrispondevano, in epoca classica, a oggetti che si codificavano intorno a quelli: plebs, patres, liberti, clientes. La definizione sociale era indifferente alle attività economiche espresse dagli oggetti sociali e li collocava in una tradizione, costruendola al contempo, che limitava la libertà individuale e la potenza sociale di quelli che erano rappresentati dalla definizione. Non era importante, alla luce di questa tradizione, se si era artigiani, negozianti, armatori di navi o argentieri, era decisivo il fatto di appartenere alla plebs, nè interessava se si possedeva poco o molta terra fuori di città, perchè si era plebs: non interessava se la lepre è l'animale che corre veloce o no, perchè la lepre è lepre e cioè l'animale che corre veloce ed è questa la sua caratteristica interessante, per definizione. Non era importante quanta terra si possedesse, ma come questo possesso era iscritto nel territorio della città, a che titolo era posseduto; l'iscrizione della terra disponeva dei ranghi e la divisione tra patres e plebs. Il danaro, che permetteva di unire o dividere i possessi, quando li univa o li divideva, non li rendeva simili, rispettava la loro tradizione giuridica: il danaro non aveva forza e potenza tale da riscrivere il territorio, il rango del terreno, come non era riconosciuta nel nome lepre l'attività riproduttiva che la lepre svolge a favore dei fiori. Le categorie giuridiche, i nomi sociali, si moltiplicarono con il tempo, fino a divenire una tradizione ormai priva di rapporto con l'iscrizione originaria della terra, della famiglia nell'urbs. La capacità di dividere e unire, aumentare e diminuire, che il danaro portava con sé, allora, iniziò a crescere in forza, potenza e legittimità, costituendo una nuova logica della legittimità. Il danaro divenne una nuova forma e fonte di nobiltà e di fondamento del lignaggio: il danaro si nobilitò. Questo stato passò dalla tarda epoca classica a quella medioevale.
La moltiplicazione dei nomi e delle definizioni sociali, corrispondente al moltiplicarsi degli oggetti e soggetti sociali, lungo il medioevo, fecero crescere a dismisura le categorie giuridiche e il numero delle relazioni economiche e sociali, fino al punto che le relazioni avevano tutte una loro particolarità e individualità. Sopra questo complesso di particolarità, però, il danaro si presentava come elemento omogeneo e capace di dare a quelle una misura. La circolazione del danaro, inoltre, si realizzava attraverso un flusso indifferente alle categorie, alle definizioni tradizionali e alle particolarità e si giunse al punto che categorie, tradizioni e particolarità avevano bisogno del danaro per riprodursi.
Le regole della circolazione del danaro, contrariamente a quelle che governavano famiglie, relazioni feudali e signorili, avevano un fondamento logico - matematico, avevano la potenza della logica. Le regole del danaro erano scientifiche. Il governo della società, allora, nella seconda parte del medioevo, assunse il danaro e le sue regole di diffusione e proliferazione come modello. Il governo della società, allora, si trasformò o quantomeno si immaginò come una scienza, divenne un fatto scientifico, eseguendo una conoscenza esatta dei suoi insiemi e sottoinsiemi, non più vissuti come oggetti e corpi iscritti nella terra o nella città, ma come relazioni, riassumibili logicamente e matematicamente.
Si elaborò l'immagine sociale moderna seconda la quale esistono decine di gruppi e sottogruppi sociali, ognuno limitrofo e in coerenza con l'altro, in compenetrazione l'uno nell'altro, fino a formare un'unità indossolubile, difficilmente analizzabile, ma tenuta insieme dal danaro.
Il danaro complicando l'analisi sociale, semplificava l'ideologia sociale: la scienza del governo deve entrare nella società, deve intervenire in quella, allo scopo di dominarla, allo scopo di ribadire la logica matematica, l'astrazione di ogni precedente rapporto di potere e dominio. In questa maniera le particolarità e individualità, le storie familiari e di lignaggio, erano ridotte a accidenti dentro un processo scientifico generale ed essenziale: la logica, la matematica e il danaro. Le particolarità vengono trattate come generalità e l'uomo considerato in modo astratto.
La distruzione della particolarità e l'intervento generalizzante dentro la società rendono la scienza del governo immediatamente nemica all'uomo, inteso come sistema di relazioni peculiari e particolari, spingendo verso la realizzazione di una sola relazione, univoca, sostanzialmente disumana, vale a dire estranea all'uomo.
In questa maniera la scienza del governo moderno dovendo governare gli uomini diventa nemica di sè stessa, avversaria della sua stessa definizione e si manifesta come causa della sua stessa distruzione; negli anni dieci e negli anni settanta, per ben due volte, ha rischiato di dissolversi. Lo stato, infatti, penetrando nel tessuto sociale non riesce a districarsi, a dare nomi adeguati alle cose che incontra, a elaborare un linguaggio di divisione che possa venir recepito e insistere su autentiche particolarità e individualità (che non siano accidenti, che non siano occasionali) e si scontra, alla fine, con una massa fluida, ingovernabile. Allora è la crisi economica e politica, quando il linguaggio del danaro riconosce di non essere reale, di non comprendere la realtà in sé, di non riuscire a dominarla intellettualmente ma, essendo logica e matematica, di essere solo vero e cioè l'unica immagine della realtà possibile. La verità diventa nemica della realtà e la lotta contro la verità diviene rivoluzionaria.

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Lo sviluppo del pensiero scientifico e filosofico moderno ha accompagnato e favorito l'istituzionalizzazione di una verità brutalizzante, disumana, extraumana. Il pensiero scientifico ha istituzionalizzato filosoficamente la brutalità: dominare è far soffrire, prescindere dall'umano, e si domina per far soffrire e provocare dolore.

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La possibilità dello scrittore, del narratore, del romanziere è quella di volare via, portandosi dietro ogni bagaglio utile al volo: portare via ogni esperienza che sia contaminata dall'alito pesante del presente. Ma non si tratta di Baudelaire.

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Esiste nella città, nel quartiere e nelle singole case, un grosso veicolo. Veicolo ideologico e culturale che analizza, giudica e propone dei valori e che pone la vita quotidiana nel vetrino del microscopio. Dio è sceso tra gli uomini, analizza e giudica tramite la televisione. Non c'è modo di non osservare e non essere osservati: la televisione.

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Mai come oggi l'astrazione brutalizzante sulla vita sociale è stata così profonda. Ogni momento della vita e dell'esistenza è vagliato, segmentato, inserito in una data possibilità organizzativa e rinominato. La vita attiva, come da secoli, nel lavoro, la malattia nell'ospedale, la gioventù nella scuola, la vecchiaia nel pensionato, il divertimento e tempo libero nella stratificazione di offerte. Ci si trova soli e isolati in ciascuna di queste fasi, dentro la vita e l'operare di una macchina che taglia e scompone le esigenze. L'uomo è diviso in settori e sezioni, ognuna con le sue funzionalità e tecniche di controllo. Tutto diventa un'operazione produttiva, il cui oggetto / soggetto è l'uomo, è parte di un grande processo che diventa un valore in sé, perché non è più importante dove vada e a cosa miri.
Non si tratta di negare o abolire le istituzioni sociali, di abbattere scuole, ospedali e pensionati, come non si è mai trattato di bruciare fabbriche e quando lo si è fatto si è dato un segno, si è affermato "tutto ciò non è affatto neutrale". Come i contadini nel medioevo bruciavano il raccolto contro la parte pretesa dal feudale e indicavano in tal maniera la strada da seguire, poichè il raccolto, la terra stessa, diveniva loro nemica nella misura in cui non ne erano i pieni proprietari, così, in epoca più recente, si è affermato che la fabbrica era nemica nella misura in cui non fosse organizzata dagli operai.
Oggi, però, la fabbrica è dappertutto, in quanto logica della fabbrica, è negli ospedali e nelle scuole. La logica della fabbrica è la produzione a ogni costo e a basso costo, la logica dell'assistenza è la stessa. È contro questa estensione della logica della fabbrica che deve scontrarsi l'operaio, il degente, lo studente e il pensionato.

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Il problema della grande macchina del dominio è, però, più complesso: non ci troviamo di fronte, infatti, solo un meschino risparmiatore. Oggi il risparmio impone il controllo e il risparmio è parte del controllo. Questa grande macchina non può fare altro che risparmiare; la creazione di danaro e il suo risparmio sono gli stessi principi del sistema: Dio creò il mondo per torturarsi. Il sistema sociale ha generato il capitale e tutte le sue varianti, il danaro non è libero e non risponde più solo a logica matematica, e il capitale è più importante del danaro, potrebbe, forse, vivere senza danaro,ormai. Il capitale distorce il danaro, ne cancella la logica matematica, e si sviluppa distortamente senza alcuna armonia: è un esterno al sistema, il capitalismo, che domina il sistema dal quale è stato, pure, generato. Questa grande macchina di dominio vive nel paradosso più lampante: crea non per sè stessa ma per il capitale. Si creano ospedali e strutture di assistenza sociale non per venire incontro a un'esigenza sociale, che è alla fine un'occasione, ma per delineare la possibilità e continuità della riproduzione del capitale. Lo sviluppo delle attività sociali, così, non è armonica con le esigenze sociali.
La funzione generale delle strutture di assistenza sociale è quella di produrre per ogni fase della vita individuale un'adeguata fase di controllo e di intervento (terapeutico, chirurgico, psicologico, sociologico, geriatrico). La garanzia che questo intervento sia soprattutto costretto a svolgere un ruolo di controllo sta nell'imprenditorialità che lo governa: più l'assistenza è svolta come impresa, maggiore la sua struttura assumerà un ruolo di controllo. Più il lavoro nell'assistenza sarà sottoposto a logiche di impresa, più prevarrà la parcellizzazione e segmentazione dell'intervento, dei servizi e dei problemi: scompare il soggetto, compaiono diversi soggetti, ora il malato, ora il pensionato, ora il geriatrico, ora il depresso ecc. ecc. 

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Più si parcellizza il controllo, più è difficile mascherarne lo scopo. L'operaio ha imparato nel decennio scorso che non è più il lavoro e unicamente il lavoro lo strumento per controllare la sua vita, ma che il controllo è ovunque. Ha trovato motivi di conflittualità e di antagonismo  anche al di fuori, anche al di là, della fabbrica e il conflitto, invece che complicarsi moltiplicandosi in settori, si è semplificato e accresciuto. Di fronte l'operaio non ha avuto più un padrone buono o un padrone cattivo, di fronte a sè ha scoperto un padrone collettivo, un padrone della vita sociale. Oggi siamo molto vicini alle forme dell'antagonismo dei primi passi del capitale, ma non è la fabbrica, ma la fabbrica del sociale che è percepita come nemica. C'è dunque della verità in certi discorsi di oggi che descrivono l'attualità del comunismo.

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Sul cambiamento radicale in poesia, ovverosia sulla ricerca esclusiva sul linguaggio. È utile gettare uno sguardo sull'operato di questi saccentuzzi, è un'operazione di operazione, come tale estremamente raffinata. Servirebbe per parlare di quello che si vede ora nelle città, con rapide inquadrature sviluppate sotto molti punti di vista. Punti di vista diversi da quelli sviluppati da questi poeti che scrivono partendo da quello che hanno letto, ammassando così opere di opere e carta di carta.

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L'uomo come è stato conosciuto e descritto un tempo, l'uomo in quanto essere con determinati attributi, modi di essere, esiste ancora?

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Quante volte, dunque, la descrizione dell'uomo si è ripetuta nella storia in maniera simile. Quante volte nella storia abbiamo testimoniati comportamenti analoghi e, ancora meglio, culture analoghe o, addirittura, concezioni culturali simili. La nostra epoca, che si sente a fondo corsa, che afferma che non si può fare altro che riscrivere il passato e che si comporta di conseguenza, è stata preceduta da altre che ragionavano in tal senso (penso alla società tardo romana tra quelle) e ha, però, al contrario di quelle il gusto volgare dell'imitazione. Imitare altre disperazioni è, oltre che carta su carta, anche disperazione su disperazione; in questo senso la nostra odierna fine corsa ha una sua drammatica grandezza ed è, per certi versi, reale e plausibile. In questa mania di grandezza dissimulata che percorre l'arte e in genere tutto il repertorio di questo nostro tempo, c'è, inequivocabile, un fondo di verità.
La nostra epoca si comporta come un'epoca conclusiva, ultima, destinata a dare un suggello e chiudere il plico delle ideologie, delle culture e della storia medesima. Come è ovvio, non c'è nulla di ultimativo, definitivo e suggellante neanche in quest'epoca, ma è pur vero che è cambiato, in questo presente, il modo di concepire il futuro: il futuro non potrà essere diverso dal presente, poichè oggi si danno tutti i presupposti materiali immediati (tecnici, scientifici, sociali e istituzionali) per qualunque futuro si possa immaginare. E se il futuro diventa progettabile e prevedibile, secondo diverse linee di fuga, acquisisce una caratteristica nuova, quella di non essere più il futuro, la cosa che sarà. Molte categorie emotive, valide e affascinanti nel passato, come l'avventura, il viaggio, la finzione scientifica e la fantascienza stanno declinando, interessando poco.

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È tramontato il grande avventuroso 700entesco e 800entesco, è tramontata l'introspezione del '900. Ora la penna è ferma, visita il suo inchiostro, ora sono le frasi, le parole a farsi oggetti compiuti che interessano poiché sono loro, in ultima analisi, a decidere e comandare ovunque, anche in politica e in filosofia.

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Il mito dell'informazione è ben adatto a rappresentare il mito di questo mondo. Ciò che conta è l'azione, ciò che conta è la capacità di sollecitare reazioni. Non è il caso di scavare su chi invia un messaggio, di indagare sulle sue ragioni e suoi interessi e piani, interessa il messaggio, cosa è, come si forma, che impatto ha e dopo tutto questo, se ne rimane la voglia e quasi il puntiglio, ci si può interessare del suo autore. Guardate l'ultimo film di Ferreri (il futuro è donna).

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Per quanto riguarda la critica culturale, essa è semplicemente una burla continuata e ripetuta; fa parte del processo di mistificazione più ridicolo che si sia mai dato. L'arte ha delle caratteristiche: è un prodotto. I critici hanno il grande potere di indicarne il prezzo cioè di regolare la trasformazione di questo prodotto in merce. I critici quantificano il valore del tempo di lavoro dell'artista e accrescendone il valore aumentano anche il nome dell'artista. Il nome stesso dell'artista, allora, e non solo il prodotto del suo lavoro, diventa fonte del prezzo della sua opera e, per certi versi, l'artista si rende autonomo dalla sua opera. L'artista diventa anch'esso un prodotto. Pensiamo al caso in cui ci si trovi di fronte a una stupenda riproduzione di un artista, imitazione non dell'opera ma dell'artista, del suo genere e del suo stile, che venga creduta per lungo tempo originale e valutata di conseguenza. Si scopre l'errata attribuzione e l'opera esce dall'artista, il suo valore crolla. Ma non era arte anch'essa? Non esprimeva, seppur nascondendosi dietro altre vesti, lo spirito e la cultura di un'epoca? Non c'era dolore, gioia o riflessione? Ancora peggio per gli artisti moderni e per l'opera dei falsari. Se ci si trova di fronte a un Modigliani gli si attribuisce un certo valore, qualche giorno dopo si scopre che l'opera non è di Modigliani e gli non gli si attribuisce alcun valore. Ma quando è stata Modigliani quest'opera? Qualche tempo? Sempre? Mai? Il suo valore momentaneo di mercato, quando la si riteneva un'originale, non dovrebbe testimoniare della bontà del prodotto? Assolutamente no. Quest'opera è stata Modigliani fino a che non è uscita dal prodotto Modigliani. Pensiamo al falsario, o all'autore della burla (in questo specifico caso): ha prodotto un'opera, l'ha prodotta bene, fino al punto di farla scambiare con un altro prodotto. Nel momento in cui, però, l'opera ritrova la sua autenticità, quella di essere il risultato del lavoro di un'altra persona, allora non è più opera d'arte.
Mi chiedo: come si fa a stabilire che il plagiatore non abbia sentito Modigliani mentre lo imitava e che sia stato davvero, per molte ore di lavoro, Modigliani? Le opere d'arte seguono le regole del mercato, che in quello delle merci ordinarie segue le leggi delle banche, delle borse e delle grandi concentrazioni finanziarie e imprenditoriali, in quello delle merci straordinarie segue le leggi della critica dell'arte. Questo segmento di mercato pare fare riferimento ai principi originari del mercantilismo: il valore dell'oro è il suo palinsesto logico. È necessario controllare la quantità della produzione aurea per stabilirne il prezzo e a fare questo pensano autorevolmente i critici dell'arte.

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I poeti contemporanei che sto leggendo si adattano perfettamente a questa definizione di Ignazio Ambrogio intorno ai poeti simbolisti russi, scritta nell'introduzione a Poesia e rivoluzione dedicata all'opera di Majakowsky: " ... smerciano per innovatrici e viventi le loro raffinate ed epigoniche estenuazioni delle più stantie espressioni artistiche ...". Gli autori post moderni appartengono, anch'essi, al passato e, consapevolmente o no, pretendono di soffocarci con questo passato. Aggiungo un sospetto: il nostro soffocamento sarà la loro realizzazione. Il piccolo scribacchino sarà dominatore del mondo culturale. Non hanno fatto poco, si badi bene, hanno reinventato la cultura! Hanno avuto coraggio, anche se lo nascondono.

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