pensieri chimicamente impuri (1983)
[1]
Vi chiederete, spesso o alle volte, quale sia il sesso delle
donne e quello degli uomini. Un ammasso di fibre, messo in più o in meno,
fa la differenza? Tutto fa la differenza. È molto più importante quello
che sta dietro agli ammassi di fibre che non gli ammassi di fibre che,
forse, vengono dopo.
[2]
Per innamorarsi è necessario appartenere anche all'altro sesso, anche se
tutto fa la differenza.
[3]
Mascolinità e femminilità sono mitologie.
[4]
Maschio e femmina non è mai stato un carattere naturale, perchè ciascun
carattere è dominato e costituito da un numero enorme di informazioni
genetiche che possono stabilire infiniti incroci e infinite gradienze.
Questi incroci rendono solo mitologia la definizione di maschio e femmina.
[5]
La virilità e la femminilità sono due strumenti per non conoscersi. Il
sesso non ha conoscenza.
[6]
L'umanità non potrà conoscersi senza mettere fine a questa manipolazione
del sesso, in base alla quale esiste il sesso individuato. Il sesso
individuato è il prodotto di un'astrazione che viene presentata come una
constatazione biologica, è la costituzione di un diverso da sè attraverso
una geografia di comportamenti che si definisce grazie a confini
invalicabili e insormontabili.
[7]
Esistono sicuramente delle oggettive differenze biologiche tra i sessi,
che permettono anche di fruire di una parte del piacere sessuale, ma le
diversità che troviamo poste tra i due sessi e in genere i 'sessi' fanno
parte di un processo soggettivo, sorto nel corso dei tempi storici
dell'umanità. Sotto questo aspetto anche l'omosessualità è mitologia.
[8]
La trasgressione sessuale, che l'omosessualità e la soggettività
omosessuale rivendicano spesso, è legata a un'immagine tradizionale sui
sessi, come se si stabilisse cosa sono i sessi per poi criticarli: nella
soggettività omosessuale non vedo nessuna liberazione.
[9]
La parola stessa 'trasgressione' è piuttosto priva di senso. Può servire a
descrivere una realtà di fatto, non una verità concreta. Esistono tanti
processi di trasgressione quanti sono i comportamenti umani: ogni
comportamento, in verità, può essere letto sotto il profilo della
trasgressione e interpretato come trasgressivo. Il vero senso della
trasgressione, la sua verità, lo si trova quando la trasgressione e il
comportamento associato diventano sovversione, vale a dire riscrittura
delle regole del comportamento, vale a dire una nuova soggettività che si
slega dalla trasgressione. Ma anche qui si tratta di mitologia, magari
utile, ma di mitologia: nella sovversione i comportamenti trasgressivi
assumono e vengono ridotti a un massimo comune denominatore, che non
possiedono alcuna verità assoluta e inconfutabile, ma per il fatto di
strutturarsi in mitologia e in ideologia si presentano alla storia e
diventano così un fenomeno storico e storicamente interessante. In quei
casi, anche utili e necessari nella storia, si è descritto come
sovversione quello che era determinante e rappresentante storicamente dei
comportamenti trasgressivi, non la loro essenza e la loro struttura,
insomma la loro chimica.
[10]
La società industriale è stato quanto di più trasgressivo e sovversivo sia
avvenuto nella storia fino a oggi: ha liberato l'umanità dalla dipendenza
materiale, stretta, passiva dalla terra e dalla natura. La società
industriale ha detto che la natura siamo noi. I ritmi della natura sono
coordinati, incentivati, letteralmente creati, dall'economia e tecnica
industriale; la società industriale non dipende dalla terra, ma
è la terra a dipendere dalle esigenze della società umana: le sue
trasformazioni e modificazioni sono governate dall'esterno. La
natura e la terra, oggi, sono altra cosa da quelle medioevali e classiche,
perchè esistono solo nella misura in cui l'uomo vi interviene,
perchè è scomparsa la vecchia distinzione, sacra distinzione, fondamento
del paganesimo e di quasi tutte le religioni, tra società umana e mondo
naturale. È inoltre scomparsa la tradizionale forma di intervento umano
che teneva conto della particolarità della terra, della sua individualità,
in quel dato luogo, per quella determinata vegetazione e per il tipo di
animali che la popolavano: in epoca classica e neolitica questo complesso
di valutazione faceva parte della terra. Oggi la terra è un campo
tecnologico, omogeneo e indifferenziato.
Per slegarsi dalla natura la società industriale ha dovuto farsi
natura essa stessa, produrre il mondo, creare sistemi e
sottosistemi. La società industriale è lo specchio della natura,
l'immagine dell'estraniazione della natura da sè stessa. E naturalmente,
precisamente come i sessi, la natura è diventata mitologia e ideologia,
anche se con qualche millennio di ritardo.
[11]
La natura è il palinsesto dell'industria e l'industria è l'unica forza
umana capace di rappresentare e sostituirsi alla natura. Il sistema di
fabbrica produce come la natura e si struttura e presenta come un sistema
di produzione naturale. Questo non è privo di conseguenze. La società
industriale non è dominata da un codice produttivo e riproduttivo preciso
come quello naturale; la società industriale non ha un codice genetico. Il
codice industriale è nel suo scopo, non nel suo processo, il codice
industriale si riduce alla capacità produttiva, intesa come valore che sta
al di fuori del processo, il valore del processo non risiede nel processo
ma al di fuori di quello; il codice genetico industriale sta
nell'accunulazione di ricchezza non materiale, nell'accumulazione di
danaro, di capitale, cose che nulla hanno a che vedere con l'intelligenza
del processo produttivo. La natura, al contrario, lavora in tutt'altro
modo: le regole sono interne al processo produttivo naturale, le regole
sono il processo.
Il sistema industriale è una natura anarchica, governata da
regole trascendenti ed esterne, e non immanenti e interne. Il sistema
industriale è privo di messaggi genetici e rimanda ad altro per quelli,
questo altro è il capitalismo e il suo codice genetico che discende poi
nella produzione industriale ma non ha relazione diretta con quello.
All'interno del codice genetico industriale prevale una sola regola
secondo la quale la vita si deve sviluppare in qualsiasi forma,
purchè sia vita.
È importante, quindi, la produzione e riproduzione delle merci, non
importa di quali merci e non importa in quale modo, ma è importante che
prodotto e forme di produzione garantiscano la creazione di capitale, di
qualcosa che sia traducibile in valore. Che esistano delle relazioni tra
forme di produzione e valore prodotto è innegabile, esistono isomorfismi e
analogie, ma queste nascono dalla necessità di esprimere comando e
controllo sul processo produttivo non in funzione di un suo ordinamento ma
di un suo sfruttamento. Insomma esiste il sistema produttivo ma, alla
fine, nessuno sa veramente come funziona perchè nessuno è veramente
interessato a saperlo, la cosa importante è che produca valore.
La coercizione in natura passa nel corpo stesso della natura, la
coercizione nella economia industriale è qualcosa di esterno al corpo
stesso della produzione, cioè qualcosa che nato al di fuori di
esso, scende in quello a dargli delle norme.
La conseguenza fondamentale è questa: che mentre nel corpo della natura
tutto è compreso, nel corpo della produzione capitalista non tutto è
compreso, questa parte esterna, questa parte esterna e sconosciuta del
processo produttivo trova una sua comprensione e senso in un dominio
esterno, non economico, non produttivo, ma politico e ideologico. È come
se in natura il DNA non risiedesse nelle cellule, ma in un'entità esterna
a quelle.
[12]
Il funzionamento del sistema produttivo industriale è aperto a ogni genere
di interazione. In natura l'interazione è mediata dal codice genetico o
dal codice costitutivo della materia, l'interazione avviene dentro delle
regole interne all'interazione, nel sistema produttivo capitalista è
l'interazione di nuovi fattori ed elementi a determinarne l'aspetto
formale e contenutistico. Si produce un groviglio di dipendenze
concorrenti che delineano equilibri instabili e malfermi tra sistema e
sottosistemi, settori produttivi, settori sociali e rispettivi sotto
sistemi; si produce una forma aggrovigliata di dipendenze e interazioni
che non ha una logica ma solo una razionalità a priori, dimostrata a
posteriori, la ragione di essere del sistema: l'accumulazione di ricchezza
finanziaria. Non che questa costante, l'accumulazione di capitale, questa
verità, non sia soggetta a variabili e ulteriori interazioni, anzi anche
l'accumulazione del capitale è il risultato di variabili e interazioni, ma
ridiscendente tra le dipendenze e le
interazioni che si intrecciano nel corpo produttivo come elemento
fisso, ontologico, e lo informa a sua volta come imperio, norma e ordine
nuovi di volta in volta a posteriori, vecchi, tradizionali e naturali a
priori.
Se venisse a mancare il codice genetico sociale, se venisse a mancare
l'accumulazione, tutto il sistema, i processi e le interazioni
perderebbero qualsiasi senso, la società medesima perderebbe senso, sia in
quanto sistema formato da un complesso di unità produttive e realtà
sociali, sia ancor di più come sistema finalizzato; verrebbe a mancare la
coercizione fondamentale, un rapporto di interazione, un input,
primario. Che in assenza di questa coercizione il sistema possa funzionare
e come è altra questione: potrebbe funzionare diventando un sistema
intelligente, un processo che si conosce e che si guida.
[13]
Il potere del capitale non è uno e ben concentrato, ma sono i poteri,
separati in tutti i microrganismi del sociale e regolati dalle interazioni
razionalmente convalidate.
[14]
Il sistema economico e sociale attuale ha il suo fondamento nella continua
trasformazione di sè stesso. Ogni valore viene nuovamente valutato e
convalidato, ogni informazione che viene creata diviene diversa da
sè fin dalla sua creazione. Questo mondo è galoppante e
apparentemente fondato sull'arbitrarietà e il caso; si dimostra, però,
monolitico e indiscutibile quando deve darsi delle finalità, quelle non
sono mai sottoposte a revisione, monolitico nelle ragioni della sua
riproduzione, monolitico nel difendere il valore di scambio, che non ha
bisogno di apologia, che è un apriori, che è la 'natura'. Le ragioni di
questo mondo economico e sociale creano un falso movimento, un continuo
falso movimento, determinano altissime dinamicità a livello fenomenico,
davvero casuali, spesso. Esiste nella determinazione delle dinamiche
sociali ed economiche una tale interazione di dati e origini dei dati
diverse da far apparire ardua l'individuazione in quelle di un senso, di
una linea omogenea nello sviluppo. Ogni aspetto (morale, etico, sociale,
estetico) appare slegato da ogni altro e muoversi autonomamente e
l'aspetto fenomenico non è davvero riassumibile in un significato. Questo
aspetto fenomenico è uno dei caratteri principali del capitale,
imprenscindibile da esso e che lo segnala rispetto a tutti i sistemi
storici precedenti.
Ogni formazione sociale si dà nella realtà in stretta relazione con il suo
contenuto, che è fisso, fermo e indicutibile, che è dietro e metafisico
rispetto alla sua mutevolezza, rispetto alla labilità della sua fisicità.
Questa dicotomia (fenomeno ed essenza) emerge pienamente nella formazione
sociale capitalistica. Nel capitalismo si usano mille informazioni diverse
per rappresentare la stessa cosa e tutte queste infomazioni, enunciati e
frasi hanno un valore diverso, rappresentano un diverso gradiente
nell'interazione sociale e un nuovo modo di dire e di essere della stessa
cosa, del valore fisso, l'accumulazione del capitale.
[15]
Osserviamo le città. Sono agglomerati casuali o rispondono a della cause?
È una logica a tavolino o giorno per giorno? Il caso fa parte integrante
dello sviluppo urbano: se una fabbrica non si fosse insediata non ci
sarebbe stato il quartiere o almeno quel quartiere, se quel quartiere
fosse stato più vicino alla fabbrica si sarebbe sviluppato diversamente o
ancora se ci fosse stato già un quartiere quella fabbrica non ci si
sarebbe insediata e magari si sarebbe stabilita un'altra forma produttiva.
Il caso è parte integrante dell'urbanistica e dell'assetto urbanistico
proprio perchè realizza in forme visibili il nesso tra sviluppo produttivo
e sviluppo urbano, dal momento che il primo sussume il secondo
secondo modalità casuali. Lo sviluppo urbanistico non possiede una
logica originaria e rimanda a qualcosa di esterno a sè, lo sviluppo
sociale; lo sviluppo sociale si definisce nello sviluppo urbanistico
casualmente. Abbiamo individuato un polo nel discorso, un primo rapporto
causale. Prendiamo ad esempio l'Ansaldo, impiantata a Genova tra fine
ottocento e primi del novecento. Per necessità tecniche gli stabilimenti
furono posizionati intorno alla foce del Polcevera e contemporaneamente
accanto al porto, come contemporaneamente in quell'area, ancora agricola e
balneare, sorsero gli altoforni dell'ILVA poichè il torrente aveva la
doppia proprietà di fornire materia necessaria alle lavorazioni e di
sfociare subito in mare. A livello urbanistico la scelta fu del tutto
dominata dal caso, forse dettata solo dal costo concorrenziale dei
terreni, ma a livello economico e produttivo assolutamente no, e casuale
ma causato fu il fatto che nella bassa val Polcevera sorgessero grandi
borgate popolari.
[16]
Gradatamente le fabbriche richiesero un'industria di supporto in val
Polcevera che si disseminò lungo tutta la vallata (tubifici,
elettromeccaniche e materiali refrattari) fino all'alta valle, che doveva
tenere conto dei borghi agricoli preesistenti e soprattutto delle
potenzialità della rete viaria. Questo secondo insediamento fu costretto a
tenere conto delle realtà urbanistiche preesistenti e si dimostrò molto
meno casuale, commisurandosi con lo spazio antropizzato in precedenza e
rapportandosi con esso. Le piccole fabbriche sorgono allora tutte sulla
stessa riva del fiume, mantenendo una rete viaria autonoma e riservando
agli abitati l'altra sponda del torrente. Al di là di un probabile
intervento regolatore del potere pubblico (l'alta val Polvecera appare
colonizzata industrialmente negli anni venti e trenta e poi nei cinquanta
e sessanta) si ha l'impressione che si sia data un'interazione tra
sviluppo urbanistico e produttivo come tra due entità autonome e
indipendenti. A un primo impulso casuale seguono quindi impulsi sempre più
causali e ragionati.
[17]
Esiste una necessità di sfruttamento dello spazio naturale: questa
potrebbe essere una categoria o conformarla. Questa necessità non esiste
in sè e per sè, come necessità ubicata al di fuori della storia,
altrimenti avremmo avuto il riprodursi di formazioni e tipologie urbane
simili e analoghe, ma esiste come necessità storica che cambia e muta con
il variare delle epoche (città classiche, medioevali, rinascimentali e
moderne). La necessità dello sfruttamento dello spazio naturale è
designata da esigenze determinate di una organizzazione produttiva e
sociale, di un sistema.
In base a questa categoria, però, non riusciamo a spiegarci l'interazione
tra urbanistica ed economia e il sorgere stesso della disciplina
dell'urbanistica. Soprattutto non ci spieghiamo il venir fuori del tema
urbanistico come oggetto dell'intervento statale fin dal tardo medioevo e
anche nella classicità. Se non esiste la categoria in quanto tale, che è
solo una sussunzione della necessita dello sfruttamento della natura,
quindi dell'economia, come spiegare la sua effettualità e il suo peso e la
sua capacità di dialettizzarsi con lo sviluppo produttivo e sociale?
[18]
Questo problema si pone ancora di più quando affrontiamo la progettazione
urbanistica con il suo corollario di piani regolatori e soprattutto di
piani edificatori, monumentali e non. In che cosa si sostanzia
l'urbanistica, da dove nascono le esigenze urbanistiche e le ragioni
dell'urbanistica? Dentro la città l'economia si presenta una seconda
volta, come un secondo personaggio e questo spiega il sorgere della
disciplina urbanistica. Dentro la città si trovano coloro che partecipano
materialmente e quotidianamente all'apparato produttivo e riproduttivo del
sistema economico; grandissime parti della città sono costruite per
costoro e sono il loro luogo di vita e di lavoro. La città non è solo
spazio produttivo, ma anche spazio non produttivo che torna nella
produzione, spazio sociale dunque, spazio di vita per uomini legati alla
produzione e spazio di lavoro per uomini che devono anche vivere al di
fuori del lavoro, per poi tornare a lavorare.
[19]
La città è attraversata da due spinte o pulsioni: quella economica e
produttiva che, a sua volta, determina una spinta sociale. Dapprima
economia e società marciano parallele ma nel loro sviluppo iniziano a
interagire, come due soggetti autonomi, e a scontrarsi lasciando traccia
di questo scontro proprio "nel ventre del tessuto urbano".
L'apparato produttivo ed economico genera una prima rete di comunicazione,
che è una rete sociale (negozi, strade, chiese, scuole oltre che
fabbriche, uffici e caseggiati), oggettiva e primaria. Questa
rete primaria è ambivalente in quanto funziona come possibilità e
opportunità di vita nella città e come possibilità e opportunità per
controllare la forma di vita urbana. Quindi la rete urbanistica oggettiva
e primaria permette la possibilità del lavoro e della mobilità da e verso
il lavoro ma consente anche un controllo di prima fattura che trova il suo
completamento, una sorta di coronamento, nell'attività lavorativa.
Questa rete di controllo di prima frattura, controllo primario, viene
facilmente e naturalmente surcodificata dai soggetti sociali che la
percorrono e che la utilizzano; è spesso divenuta, in passato, lo
strumento per la comunicazione e propagazione di esperienze critiche e
trasgressive, basti pensare ai numerosi casi degli anni sessanta e
settanta nei quali le lotte operaie in fabbrica si sono estese alle scuole
(agitazioni studentesche), ai negozi (movimenti per il controllo dei
prezzi) e ai caseggiati (movimenti contro il caro affitti) insomma sono
andate dalla fabbrica al quartiere.
Questo fenomeno è molto antico, in verità, e origina dall'inizio della
società industriale. L'urbanistica da scienza spontanea si è trasformata
in scienza programmata, proponendo un progetto che non è solo l'idealità
dello spazio urbano e conseguentemente dello spazio sociale, ma che,
invece, assume in sè, fin dal principio, spazio urbano e spazio sociale e,
in questo senso, l'urbanistica diviene scienza amministrativa, scienza
dello stato. Napoleone III, il fascismo e il nazismo esemplificano gli
istinti in materia, ma sono solo i più 'illustri' esempi.
[20]
Nello stesso momento in cui il controllo si dà le forme organizzate e
neutre del corpo di polizia, elemento sconosciuto alle società
pre-capitalistiche, compare questa nuovo modo di fare l'urbanistica,
compare l'urbanistica moderna che ha due nomi: quello dello stato e del
risanamento territoriale. Lo sviluppo delle forze produttive,
programmabile e quantificabile, è accompagnato da un'equivocabile
progettazione urbanistica.
La progettazione urbanistica è di per sè, in essenza, riformista; tende a
riformare il tessuto urbano senza toccarne le caratteristiche fondamentali
di funzionalità massima all'apparato produttivo. Questa funzionalità e
linearità del rapporto tra organizzazione della produzione e spazio urbano
ha, però, reso lineare e diretta, veloce e immediata, la comunicazione
nello spazio e nel territorio di comportamenti antagonisti. Nel primo
capitalismo, nel quale il polo economico e quello sociale marciavano
paralleli, secondo un sogno utopico, il controllo dei soggetti sociali
generati dalla produzione era problematico. La progettazione urbanistica è
intervenuta per rompere questa linearità, per interrompere questa
relazione diretta, cercando di nasconderla e di anestetizzarla.
Qui finisce l'urbanistica e inizia la politica. La dialettica apparato
produttivo / tessuto sociale viene allontanata dalla semplificazione e
svolta nella mediazione politica che interviene fattivamente nello studio
degli spazi urbani e della vita, immagina soluzioni nuove che non
comportino un'immediata assunzione del territorio da parte di chi lo
abita.
[21]
La scienza urbanistica attuale è la risultante di varie e molteplici
interazioni: 1) coscienza dello sviluppo produttivo 2) sviluppo necessario
del controllo sociale 3) intervento riformista dello stato. A disegnare lo
sviluppo della urbanistica contemporanea sono stati tre elementi: sociali,
economici e politici.
[22]
Occorre, però, tracciare una separazione netta tra la progettazione
urbanistica tardo medioevale e poi rinascimentale e moderna e quella
contemporanea. La prima considerava la città come un oggetto vuoto,
vale a dire come materia prima malleabile, immediatamente inseribile in un
progetto razionale. Anzi, la razionalità era, per quella, proprio inverata
dalla possibilità di iscrivere il progetto, l'idea, nella realtà (penso a
piazza del Campo, a Pienza): la realtà diventava ragione.
In parte questo razionalismo ha un origine e spiegazione politica: è lo
stato assoluto aristocratico che dall'alto della sua sovranità dispotica
sente ogni parte e particolare ascrivibile a sè e al generale, sente di
poterne disporre liberamente.
Dopo il XVII secolo tutto è diverso. Ogni progettazione nasce anche dalla
consapevolezza di non poter organizzare lo spazio ma, al massimo,
riorganizzarlo: lo sviluppo delle forze produttive è tale da surclassare i
tempi tradizionali della colonizzazione o ricolonizzazione dello spazio,
infatti.
Inoltre il movimento, la caducità e
temporaneità assoluta caratterizzano il nuovo colonialismo
urbanistico, il nuovo modo di costruire l'ambiente urbano e quindi la
progetazione urbanistica contemporanea deve tenere in conto le future e
potenziali trasformazioni produttive e sociali. Non si ha, quindi, a che
fare con uno spazio vuoto, senza materia o composto da una
materia inerte, ma, al contrario, con uno spazio produttivo e sociale,
vivo e reattivo, morbido ma non elastico.
[23]
Ho scritto che la progettazione urbanistica è sempre stata
riformistica e ha avuto sempre un valore riformistico. Vorrei specificare
meglio il concetto. Quando uso il termine riformistico intendo parlare di
un intervento svolto a livello strutturale, cioé sociale, sul tessuto
sociale stesso, destinato a dare una nuova forma al tessuto
sociale. Il segno politico di questo riformismo è, al contrario, quasi
sempre conservativo ed autoritario poichè si accompagna e richiede un
intervento d'imperio dello stato sul tessuto di comunicazione e di scambio
delle informazioni e delle socialità al fine di normalizzarlo. Pensiamo a
Genova e alle politiche di spopolamento del centro storico a favore dei
ghetti di periferia. Pensiamo anche al fatto che il valore estetico (vero
o presunto non importa) che si crea attraverso queste riforme non si
identifica affatto con la socialità. con il bello sociale, cioè
con uno spazio vivibile socialmente, là dove per socialità si intenda una
comunicazione autentica tra gli individui. Nei grandi quartieri che sono
ultimamente sorti non ci sono possibilità per un transfert comunicativo
tra gli abitanti: niente bar, niente negozi al dettaglio e solo qualche
shop center. Questa indifferenza comunicativa si è sposata, inoltre, con
un fenomeno recentissimo: la tendenza a un radicale decentramento
produttivo. In questa maniera è venuta a mancare buona parte degli organi
e dei nodi che conformavano la rete di comunicazione sociale precedente,
anche sotto il profilo logistico.
Bisognerebbe, inoltre, aprire un inciso sulle trasformazioni nell'apparato
produttivo, che sono complementari a questa impostazione urbanistica ma
credo che mi dilungherei troppo. Lo stesso bello estetico si
riduce oggi a un'estrema frammentazione dello spazio architettonico
(costruzioni per cubi sovrapposti, pensiamo ai moduli atomici delle
'lavatrici' di Pra) e a un abbandono della tematica dei grandi agglomerati
architettonici degli anni sessanta e settanta (esemplare il 'biscione'
sopra Quezzi). Questi ultimi modelli, almeno teoricamente, prevedevano uno
spazio collettivo e comune al quale si poteva accedere, quantomeno ripeto
teoricamente; oggi, al contrario, la separazione di ogni famiglia e
relativa unità immobiliare dalle altre e dall'esterno è pensata e
progettata anche a livello formale, secondo l'enfatizzazione di un ritorno
al privato, al non sociale e collettivo e la proposizione di una socialità
che si fonda sulla dispersione e disgregazione.
[24]
Questo processo che rappresenta urbanisticamente lo smantellamento della
vecchia rete di comunicazione sociale non si realizza solo nei nuovo
quartieri ma è operativa anche nei vecchi e tradizionali rioni proletari.
È la tendenza generale della politica urbanistica attuale.
[25]
Della colonizzazione della val Bisagno si può dire che anche questo
processo ha determinato la scomparsa delle realtà urbanistiche precedenti.
Si trattava di piccoli paesi agricoli come Molassana, San Gottardo e
Prato, del tutto estranei all'economia industriale. La colonizzazione
industriale avviene negli anni venti (qualche anticipazione si verifica
nella seconda metà del secolo precedente) ed è singolarmente
contrassegnata dall'indipendenza dalle grandi industrie portanti di
Genova. È interessante, però, notare il fatto che, durante la creazione
della 'Grande Genova' nel 1927, tutta la val Bisagno è inclusa
amministrativamente nel territorio comunale genovese, nonostante la valle
sia ancora, in larga parte, deindustrializzata. Si fece, in verità, una
programmazione e proiezione urbanistica vera e propria, destinando il
Bisagno e la sua vallata alla produzione più indipendente
rispetto al settore produttivo trainante in Genova, vale a dire alla
produzione di generi che guardavano direttamente al mercato nazionale,
senza le mediazione delle commesse pubbliche. L'impressione è che il
fascismo tenti di dare una fisionomia produttiva e urbanistica a ogni
settore geografico del nuovo comune allargato e questo tentativo ha
lasciato ampie tracce. Ed è stato in questa fase che si è definita, in val
Bisagno, la rete primaria della comunicazione sociale (strade, negozi,
bar, nuove chiese, scuole insieme con tintorie e industrie di vernici).
Le caratteristiche di questa rete sono 1) quella di innestarsi sulla
preesistente struttura demica contadina 2) dare alla struttura precedente
nuovi significati 3) il vecchio paese contadino, divenuto il centro
storico del nuovo quartiere che gli è cresciuto intorno, è mantenuto,
anche urbanisticamente, in funzione della riproposizione del
controllo sui comportamenti esercitato dalle realtà tipicamente
agricole. La società industriale trova nell'antico tessuto delle
relazioni contadine un ottimo strumento per reimpostare il proprio
controllo e la sua sorveglianza.
Tutto questo è utile a tradurre più esplicitamente (in termini più
concreti) quello che significa la rete di comunicazione primaria.
La rete di comunicazione primaria è di origine pre - industriale ed è
formata dal negoziante, dal farmacista, dal vicinato, come strumenti di
controllo e auto - controllo. Il quartiere contadino è
una realtà sociale fortemente controllata in ordine a ogni ambito
del comportamento. Il quartiere contadino conserva la
credibilità nel giudizio, ha una tradizione alle spalle e una storia fatta
di generazioni indigene.
Conseguentemente il quartiere contadino congiunge due fasi
storiche: da una parte la vecchia socialità agricola, dominata dalla
saggezza, la sapienza, l'esperienza e la tradizione, dall'altra parte la
nuova socialità produttiva e industriale che usa sempre meno tradizione ed
esperienza, ma che trova in questi relitti terreno fecondo per
giustificarsi e proteggersi.
La rete sociale del quartiere contadino è fortemente
comunicativa perché quando trasmette messaggi funzionali al controllo,
offre al contempo una costante e continua possibilità di aggregazione. Il
quartiere contadino è un'arma a doppio taglio sotto quasi tutti
i punti di vista perché offre la possibilità di incontrarsi, di
comunicare, a partire da vecchi legami che si rinnovano e
riproducono in forme nuove e da antichi principi che lo rendono
singolare e non disperso nell'indifferenziato urbano.
[26]
Si è attuata una raffinata sterilizzazione della vita sociale, la
comunicazione all'interno dello spazio urbano è svuotata di significati
come lo è lo spazio urbano. Questo si è fatto e si sta facendo deterritorializzando
la città, facendo perdere identità a ogni quartiere dentro la città, ogni
zona urbana viene risucchiata nella pianificazione e nell'indifferenziato
capitalistico. Ciascun quartiere deve essere il più possibile simile a
qualunque altro quartiere, di questa città o di ogni altra città, fino a
che gli abitanti si sentano dispersi in un tessuto urbano
completamente privo di riferimenti 'familiari', di domesticità: fino a che
sia difficile capire che hai sbagliato la fermata dell'autobus. Questo è
il senso politico, sociale e filosofico dei nuovi quartieri che anche a
Genova si stanno edificando.
La città deve presentarsi come un tutto indifferenziato, senza
appigli, senza agganci, senza possibilità di agganci per chi li ricerchi.
Ecco il segreto e l'anima segreta dei nuovi quartieri che, poi, finisce
per pervadere anche i vecchi quartieri, fino ai quartieri contadini.
Ecco uno dei sensi della lotta, che si svolge su un terreno apparentemente
tutto economico, secondo motivi strettamente economici, alle vecchie forme
di distribuzione delle merci, ai piccoli negozi di quartiere. L'obiettivo
sono i grandi supermarket, pochissimi negozi al dettaglio (ridotti a
specializzazioni della grande distribuzione), il più possibile gestiti e
condotti da estranei al quartiere, meno piazze, o meglio solo piazze di
raccordo automobilistico e progressiva soppressione e obliterazione dei
luoghi aperti e allargati non destinati al trasporto e alla distribuzione
delle merci.
Così la rete di comunicazione sociale primaria si sta gradualmente
sfaldando a favore di una indifferenziazione totale, priva di gradienze,
di particolarità, del tessuto urbano.
[27]
La nuova rete di comunicazione è una rete senza differenziazioni,
senza nuclei, poli, senza momenti geografici forti. Comporta degli effetti
dialettici tra loro: 1) la dispersione completa delle esperienze
trasgressive e critiche 2) l'impossibilità di sedimentarne di nuove 3) il
crollo e la scomparsa di una forma di controllo sociale efficacissima
quale quella del quartiere contadino. Il punto di fuga, il punto
della critica antagonista, volge a zero, volge verso il punto nel quale le
esperienze di tutti sono quelle di uno, ma non sono comunicabili. La città
tende a essere un'entità indifferenziata, una realtà in sè e per sè,
un'essenza data, e quindi priva di storia, di evoluzione e di
differenziazione. Una città stranissima e del tutto nuova poichè ha
interrotto ogni rapporto strutturale con il passato.
[28]
Ogni uomo è commisurato a sé stesso; non esiste una misura tra gli uomini.
[29]
Ci vorrebbe il coraggio di sentirsi continuamente nuovi, rinnovati da una
continua apertura verso quello che ci circonda. Questo, però, non si
verifica mai perché un improvvisa sensazione di soffocamente di fronte
alla realtà che cambia ci assale e ci induce a rifugiarci nei sogni della
conservazione, sclerotica, delle cose presenti.
[30]
La città moderna è un corpo indifferenziato e indefinito che dà violenza
nella stessa misura in cui la subisce. Non esistono più punti di
resistenza alla logica della sopraffazione e del dominio, punti e posti
geografici capaci di inquadrare una mediazione, di calmare le pulsioni
individuali che una società di comando e dominazione genera. Il vecchio quartiere
contadino era uno di questi punti individui. Le
agitazione e le rivolte che lo hanno percorso negli ultimi secoli
passavano attraverso il filtro delle grandi finalità, dei grandi scopi
sociali; la rete di comunicazione favoriva immediatamente la definizione
di un fine generale, estendibile a ogni uomo, la salvezza del mondo come
salvezza del quartiere. Oggi, invece, la crudezza dei rapporti di dominio
arriva direttamente nel territorio urbano e viene recepita come
aggressione individuale e restituita immediatamente sotto la forma di una
replica individuale, sotto la forma di una trasgressione indiduale.
[31]
Molti spiegano il successo storico delle società divise in classi e
dell'istituzione statale (sia nella versione democratica che oligarchica)
in termini di repressione, repressione militare e poliziesca. Altri,
invece, affermano che classismo e statalismo hanno trovato dei referenti
nel sociale. Non si tratta nè dell'uno, nè dell'altro caso. Queste due
visioni vanno rifiutate: la prima è una visione metafisica del
sociale, vale a dire che immagina un sociale indipendente
dall'organizzazione della produzione e della proprietà, puro in sè e che
può essere soggiogato solo da un potere espresso militarmente e attraverso
l'uso della forza. La seconda visione discerne tra una componente
adattabile, referenziale al potere, e una non adattabile. In realtà nessun
componente della società risulta essere adattabile e referenziale o
inadattabile e non referenziale al potere e al dominio, ma ogni elemento
sociale è costretto, inevitabilmente (proprio per il suo darsi storico), a
seguire il dominio, per quanto riguarda il coinvoglimento nella
cooperazione sociale. Il dominio, infatti, si presenta ed è, storicamente,
il garante della cooperazione sociale.
La repressione in quanto tale, come elemento essenziale, separabile da
ogni altro strumento di controllo sociale, non esiste. La repressione è
fondamentale solo in alcune fasi della vita di un sistema sociale dominato
e classista, quella del suo consolidamento iniziale. Il dominio in quanto
garanzia di cooperazione sociale, si comporta come una macchina, macchina
di produzione e macchina di desideri: il dominio è coinvolgimento in sé
della società. Senza di quello non sopravviverebbe che poche settimane.
[32]
Il dominio è una macchina perfetta, al punto che gran parte di coloro che
lo subiscono se ne innamorano. La repressione non è costituiva del
dominio, più facilmente l'amore, magari perverso. La repressione è una
grande parata, ma il dominio recupera e reprime molto
più efficacemente e in modo più sottile entrando dentro i rivoluzionari,
facendone delle scimmie ammaestrate alla riproduzione del dominio in un
apparente altro dominio.
[33]
È stupido, in una società che sa creare indifferenziato, credere
che l'ideologia possa svolgere ancora un ruolo trainante nella
trasformazione sociale e nel processo rivoluzionario.
[34]
Repressione. Quante sconfitte sono state giustificate con questa parola!
Con essa si è esorcizzata e nascosta la scimmia ammaestrata che si era
divertita a distruggere ogni speranza nel futuro e si giustifica il fatto
di continuare a dover fare le scimmie. Viva la repressione!
[35]
L'ideologia oggi è un prodotto commerciale: è diventata anche vendibile.
[36]
Che pena i militanti! Sono allo stesso livello di commessi viaggiatori
dell'ideologia che vengono inghiottiti dalla grande indifferenziazione per
la quale il loro prodotto non ha più qualità se non nel commercio. I
militanti godono spesso per la potenza della macchina che li tortura, sono
ammirati della macchina del dominio che, indirettamente, ingigantisce i
loro sforzi, rendendo la loro vita apparentemente importante. Alla fine,
sia per rispondere alla tortura che hanno subito sia per inconsapevole
identificazione e ammirazione, i militanti ricostruiscono in piccolo una
macchina torturatrice: l'organizzazione rivoluzionaria.
[37]
Le grandi forze dominano il mondo: perché piangere sugli indiani
d'America? o sulla civiltà contadina?. Tutto ciò avrebbe senso se si
potesse eseguire una somma dei valori umani espressi nella storia fino a
oggi e se, contemporaneamente e in quello stesso istante, il mondo
finisse. Il mondo, però, va avanti, mai uguale a sè stesso e in
questa metamorfosi continua è la nostra salvezza.
[38]
I rivoluzionari, secondo una definizione statica: "io sono un
rivoluzionario", non esistono e se insistono a dichiararsi tali sono solo
delle ripetizioni della loro biografia precedente.
[39]
Magari! si potesse sapere quanto il mondo ha conquistato le tue gambe, le
tue braccia e la tua testa! Non è possibile stabilire quanto una decisione
nella vita sia nostra o dettata dalle necessità che animano il mondo. Non
è possibile stabilire se ti stai ribellando o arrendendo. Non si sa quanto
l'arte della sopravvivenza ci abbia colto passivi o attivi, ci abbia
trasformato in strumenti di intervento che corrono dietro ai tempi o
piccole lumache rinchiuse nella loro bava.
[40]
Il mondo è in noi, si crea in noi, si struttura e costruisce su di noi, ma
mai si è in grado di valutare quanto questo processo è dominato dalla
volontà di intervenire su quello, di individuare in quello il nostro
taglio o, al contrario, è governato dalla capacità del mondo di tagliarci.
Il mondo è nella nostra immaginazione perchè non si può vivere senza
pensare il mondo, senza vedere le sue articolazioni, le sue alterazioni
storiche, ma come possiamo realmente intervenire sul mondo? Come non fare
di ogni nostra scelta una profonda genuflessione a questo apparato? Come
esprimere la propria volontà?
[41]
Essere il mondo e finirla con l'immaginarlo potrebbe essere l'essenza del
rivoluzionario. Ma cosa è essenza rivoluzionaria quando bisogna correre
affannosamente dietro il mondo, per poi odiare il momento in cui lo
ritroviamo dentro di noi? È questa una contraddizione che perennemente
assilla i rivoluzionari, che assilla questa umanità che non è mai stata
veramente rivoluzionaria, mai capace di essere in sincronia con il mondo e
che, alla fine e non solo, ha reso le rivoluzioni delle opzioni di comodo,
una maniera di evitare un vero ricongiungimento con i tempi del mondo.
[42]
Le ideologie politiche stanno facendo la fine delle ideologie religiose.
Ora la realtà non ha la potenza necessaria per inventare il suo
mascheramento, per trovare un senso storico alla sua esistenza, ora
davvero lo stato di cose presenti è agonizzante.
[43]
Quelli che hanno promosso le cosiddette organizzazioni rivoluzionarie non
hanno avuto alcun dubbio sulla loro funzionalità trasformativa e
antagonista. Essi potevano sentirsi così sicuri di questo grazie al calore
delle coperte della piccola società proto - statalista e torturatrice che
essi chiamavano e continuano a chiamare organizzazione rivoluzionaria. Non
è affatto altrettanto stupido il dominio che non nega loro la possibilità
di organizzarsi, mantiene valida la libertà di riunione e di propaganda,
consapevole del fatto che tra i rivoluzionari si riproducono i suoi stessi
meccanismi e il dominio trova proprio nei rivoluzionari la sua estrema
legittimazione e la dolce funzione di padre indirizzatore che grazie loro
diviene conclamata.
Il dominio sa che nelle organizzazioni rivoluzionarie tradizionali si usa
la sua stessa lingua e che, così, risultano comprensibili, riassumibili e
recuperabili. Mai come oggi politica e ideologia son sinonimi di
mediazione. Il dominio è un complesso di linguaggi e sa che esistono
linguaggi completamente differenti dai suoi, oggi una babele
individualizzata, che trovano la loro espressione con grande difficoltà,
la stessa che incontrò la specie umana nello staccarsi da quella delle
scimmie.
[44]
Questi linguaggi non hanno regole di espressione, essi sono il superamento
della regola, perciò si esprimono a volte attraverso le organizzazioni
rivoluzionarie. È allora che interviene la repressione, la parata della
repressione, che, però, si esprime contro tutti i linguaggi estranei,
facendo il verso di colpire il linguaggio comprensibile
dell'organizzazione rivoluzionaria tradizionale.
[45]
Quante volte nella storia, le organizzazioni rivoluzionarie e comuniste,
conquistate e dominate dalla forza dei bisogni proletari, se ne sono
arricchite, hanno assunto questi nuovi linguaggi e poi hanno cercato di
ridurli, di assimilarli e di inserirli in una progettazione politica che
limitava quei bisogni e la loro affermazione. Il perdurare
dell'affermazione di questi bisogni è stata percepita come estranea alla
progettazione rivoluzionaria e definita avventurista, spontaneista,
infantile, estremista etc. etc. Dopo le organizzazioni rivoluzionarie
tradizionali hanno imparato a filtrare aprioristicamente ogni linguaggio e
comportamento che non parlasse naturalmente di pianificazione, di
indifferenziazione e progettualità ideologica. La prima fase furono gli
anarchici e i primi comunisti, la seconda i socialdemocratici e i
leninisti.
[46]
Di nuovo sul magari! Magari si sapesse se si è nel sistema o contro il
sistema, se si è soggetti che vivono in sintonia, in compatibilità con
esso, oppure no. E si ricerca il metro, che è sempre approssimativo e si
rivela alla fine anche relativo. Non esiste in materia, insomma, una
cartina di tornasole che ci dica: tu sei un acido e tu una base.
Inoltre, si può essere fuori dal sistema, oggi? E ancora di più si può
essere semplicemente fuori? Esiste un fuori? Non esiste più la follia, è
stata abolita per legge insieme con il manicomio. Dentro - fuori sono una
archeologia. Se esistesse ancora, e forse non è mai autenticamente
esistito, un dentro e un fuori, allora si potrebbe spiegare la
conservazione del potere come il risultato della repressione, in termini
di repressione contro il fuori, ma è sempre più chiaro,
lampante, quasi ovvio, che tutto è dentro il potere e che la stabilità
sociale è oggi ottenuta in forme chimicamente pure, in passato secondo
mescolanze e miscele meno pure, attraverso l'identificazione del potere,
attraverso il fascino della sua grande macchina.
Magari! Magari se si sapesse e potesse definire un dentro e un fuori dal
sistema, un estraneo, separato dal sistema. Allora si potrebbe presentare
la lotta di classe tutta in termini di repressione, di attacco
giudiziario, considerarla un immenso problema di politica carceraria. C'è
ben altro! C'è che non si dà un esterno al sistema, un al di fuori inteso
come entità che con esso possa instaurare solo ed esclusivamente rapporti
antagonisti, rapporti di guerra. Non esiste e non è mai esistita nella
storia questa separazione metafisica: potere - non potere. Ogni elemento
storico ha sempre potuto determinare in sé una parte o anche solo una
particella di potere, ogni elemento storico ha ricercato dentro di sé la
capacità di ritrovare il potere, di ricostruirlo e ricodificarlo. Si è
cercato spesso di separare lo scenario dei comportamenti politici e
sociali in riformisti, rivoluzionari e conservatori e gli strati sociali
in privilegiati, meno privilegiati, emarginati ecc., facendoli, anche,
corrispondere. Al centro di questa tipologia analitica c'è sempre stato il
rapporto che comportamenti e strati sociali instaurano con il potere, sia
e fosse stato politico ed economico.
E questo è un dato: il potere, che onnipresente diventa uno dei poli della
pietra di paragone analitica, entra a far parte integrante e costitutiva
del metro di giudizio. Mai, però, si è denunciato e ci si è accorti di
quanto questa oggettiva onnipresenza provocava il naufragio di quelle
stesse separazioni e divisioni. Come non era altro che una riproposizione
del potere nel pensiero e negli atteggiamenti riformisti, così tra i
rivoluzionari si elaborava un altro tipo di questa riproposizione e, in
entrambi i casi, il potere riprendeva fiato e il suo nucleo infuocato, il
suo fascino e la sua macchina, riscaldavano le menti dei riformisti e dei
rivoluzionari. La critica al potere influenza il potere e il potere
influenza la sua critica: lo strumento entra a far parte del fenomeno. Il
potere assomiglia al mare: a lui tutti i fiumi, da lui le nuvole e poi la
pioggia nei fiumi. Ogni cosa in diverse forme partecipa alla
costituzione e ricostituzione del potere, vi partecipa per sè stessa, in
quando sente la necessità di agire in nome di un potere, una
istituzionalità qualunque. Il potere è ovunque, in ogni attimo, in ogni
molecola del vivere sociale, il vivere sociale è inimmaginabile,
non percepibile senza l'esistenza del potere. La repressione, allora, è un
concetto tranquillizzante perchè assolve tutti dal potere, scagiona il
vero potere, ne occulta i meccanismi reali e rappresenta un altro potere,
in versione teatrale.
[47]
Polizia, carceri, tribunali sono le apparenze teatrali del potere, mentre,
al contrario, scuole, caserme e ospedali dovrebbero essere intese,
davvero, come una delle sue forma sostanziali, ma raramente accade così e
risulta più comoda l'apparenza che non la sostanza. L'apparenza del potere
diviene la sua sostanza. E lo diventa realmente!
Lo ripeto: polizia carceri e tribunali sono solo le apparenze teatrali del
potere, perchè la sostanza del potere è un'altra cosa. Attraverso polizia,
carceri e tribunali il potere dice: "io sono soprattutto questo, io sono
questo: la vostra macchina torturatrice". In questa maniera questo
organismo che è di produzione, che un organismo di creazione incessante di
processi sociali ed etici, si sposta sul piano simbolico e si salva. Si
salva, intendo dire, da sé stesso, dalla sua rivelazione e smascheramento,
allontanandosi dal piano della vita quotidiana: il teatro non è vita
quotidiana, ma solo eccezione e selezione, il teatro attraverso il
tribunale solo eccezione negativa, deviazione e emarginazione. Nella sua
versione teatrale il potere usa gli uomini e li macera, distrugge le vite
concretamente, ma quelle vite diventano esempi, non vite concrete e
quotidiane e la pena è studiata per distruggere la quotidianità e la
concretezza dell'azione del potere. Il potere è, quando indossa questa
veste, una grande macchina di tortura, indiscutibilmente. Va, però, detto
che non avrebbe di che torturare se non ci fosse, alla fine, lì pronto ai
suoi piedi, un corpo accasciato che chiede con insistenza: "piuttosto
prendimi e torturami ma non lasciarmi così, nella certezza di essere tu
anch'io". Questo atteggiamento insano non vale per tutti coloro che
passano attraverso le maglie della repressione ma sospetto che sia
descrittivo di buona parte dei rivoluzionari aggrappati alla tradizione
rivoluzionaria.
[48]
Le conoscenze dei tre livelli si possono individuare quotidianamente.
Dapprima si constata l'insensatezza, la crudeltà, l'aridità e l'avidità
che dominano la vita sociale, la meschinità dell'amore che si percepisce
costretto da legacci assurdi.
È l'epoca dei grandi giudizi morali, della lotta ai farisei, agli
ipocriti, ai capitalisti come persone, del disprezzo verso il danaro e
della progettazione di una vita che sia dominata dai grandi valori, dal
grande amore, immaginazione di una vita che, come un fiore di cristallo,
si innalza da sè stessa grazie a un attento e vigile dominio etico: è
anche l'epoca della morale autonoma e della religione personale, è pure
l'epoca in cui si pensa a una società più democratica, a uno stato più
equo e forte contro i forti, a uno stato totalitario al servizio dei
deboli e dei molti, a uno stato morale. Si rovescia Dio a nostro favore: è
l'epoca nella quale Cristo sale sulle barricate e sta dalla nostra.
In un secondo tempo si accerta la necessità del compromesso con questa
realtà, gradatamente ci si rende conto del fatto che crudeltà, aridità e
avidità e che l'amore legato sono utili, adatti alla
sopravvivenza. I farisei sono doppi e inevitabilmente doppi e i grandi
principi morali non tengono in alcun conto la realtà della vita. Si
diventa atei, ma atei di rassegnazione, atei orfani di Cristo. Non si
progettano più stati, ma ci si aspetta qualcosa da quello esistente. Si
accettano le leggi e in quelle si ritrovano molti inequivocabili principi
morali. Il matrimonio non è forse pegno e segno di grande amore? Il lavoro
collettivo non è forse impegno di utilità sociale? "Faccio quello che
posso" è la frase più pensata "e posso davvero poco" è la frase più detta.
I più si fermano qui, su questa soglia, su questa vaga collina. Resteranno
qua tutta la vita. Altri procedono al terzo livello; il motivo del
proseguo del loro cammino è difficilmente spiegabile, ma sta di fatto che
proseguono ed è questa la strada dei grandi filosofi siano essi ultra -
reazionari o rivoluzionari, e pure questa è la strada dei folli siano essi
nel delirio nazisti o ebrei perseguitati. Arrivano a questa semplice
frase: "Faccio quello che posso ma non posso niente, è come se non
vivessi, ma allora se è come se non vivessi, se nessuno si accorge di me,
posso tutto". È questa anche la frase dei peggiori criminali.
Grandi valori morali? Mio Dio! Ne ho abbastanza dei piccoli! Crudeltà,
avidità, amore? Esistono ma fanno parte delle cose, essi sono le cose.
Cos'è quello che si chiama amore se non un incrocio di crudeltà, avidità,
volontà di possesso, paura della solitudine? Cos'è la vita sociale se non
solitudine? Cos'è il lavoro se non l'unica forma di vita sociale, l'unica
che realmente ci è utile? Come si può parlare di stato moderno o libero o
pubblico, quando ogni giorno ci cresce dentro l'idea di potere, quando
siamo sempre più noi il potere, quando amiamo sempre più il nostro
martirio?
Libertà è solo una parola, una gran bella parola, quando poi ti muovi come
un ballerino, felice della danza, costretto a seguire passi già scritti.
Quando sei libero sei un ballerino che bacia i piedi del suo maestro e lo
ringrazia per avergli insegnato ad attraversare il palcoscenico! Se si ha
desiderio di qualcosa, si deve mediare e attendere per esprimerlo e poi
soddisfarlo, fino al punto che il desiderio diviene diverso dalla sua
origine. Quando si ottiene questo desiderato, lo si difende come il frutto
più importante del mondo, anche se non è quello che attendevi, proprio
perchè hai dovuto imparare ad attenderlo, e si è avari di quello, avidi di
quello, crudeli per mantenerlo, qualunque cosa esso sia: un vantaggio, un
amico o un amore. La vita si identifica in questo complesso di desideri
attesi e la perdita di questi desideri è morte. Quando la morte è ridotta
alla mancanza di questo complesso di desiderati significa che non c'è
affatto bisogno di carri armati e fucili per tenere sotto il mondo, perché
il mondo è irrimediabilmente sotto.
Non basterebbe abbattere un potere, uno stato, ma abbattere il potere, la
cosa che dentro di noi ci fa desiderare di essere dominati, di
porre in attesa i nostri desideri, se non abbattiamo il potere, questo
potere, un altro potere e un altro stato si riformeranno al posto di
quelli che abbiamo appena abbattuto.
Oh certo! Ci sono molti uomini oggi che si proclamano per la libertà,
ma come si recita in un film "quando se lo trovano davanti, poi, l'uomo
libero, se la fanno sotto", l'uomo libero, l'uomo dell'ora quello che mi
serve, del 'non so perchè dovrei farlo', del 'amore? Una gran bella cosa,
ma spiegatemi cosa è', del 'lavorare è una cosa strana, proprio fuori dal
mio modo di essere', del 'ogni convinzione è una malattia', del 'lo so,
sono terribilmente cinico e sto male per questo, ma ho altra strada?', del
'Cristo vorrei poter non pensare più'.
L'uomo libero è quello eternamente innamorato che non lo sa e non lo dice.
È il terzo livello conoscitivo dell'uomo. Il primo livello è quello
dell'uomo innamorato a volte ma che lo è per sempre e sempre lo dice, il
secondo l'uomo che non lo è mai e lo dice in particolari occasioni, il
terzo, appunto, l'uomo che lo è sempre e non lo sa.
[49]
Tre livelli anche nella biologia umana, che rovesciano la nostra
filogenesi intrauterina: i rettili, gli anfibi e poi i pesci. L'uomo ha
una parte rettile, poichè è un anfibio che, uscito dall'acqua, si muove o
cerca di muoversi come un pesce, come se sapesse che era un pesce e vuole
ridiventarlo. L'anfibio è il passaggio, la mediazione e il cinismo a
quella connesso. Nell'anfibio l'uomo acquisisce un suo modo di stare al di
fuori dell'acqua e abbandona il mare. E infine il pesce che può essere
visto come un rettile che vive in mare. Quella di essere rettili che
vivono in mare potrebbe essere la nostra parte più profonda, intima.
[50]
L'uomo - rettile è lo spirito romantico, stufo del mondo che si inventa un
altro mondo, a tavolino, forgiato nei grandi ideali, rifiuta l'apparenza e
crea una nuova sostanza. L'uomo - anfibio è l'uomo adattato, che
ha scoperto una parte della sostanza del mondo, ha scoperto l'atmosfera
(la sua necessità, inevitabilità) e ha fatto un bagno di conoscenza ma si
rassegna e rientra saltellante come un rospetto nell'apparenza, acquisendo
il massimo possibile di atteggiamenti razionali (la rana ha le zampe).
L'uomo - pesce vive nella sostanza, ci nuota e si muove in quelle
assomigliando all'uomo - rettile perchè come quello si ribella e la
rifiuta e cerca una nuova sostanza. È, però, un legame apparente poichè il
secondo vive sulla terra, respira atmosfera, costruisce nidi e ripari,
progetta grandi mondi, mentre il primo nuota nell'acqua, sa cosa è il
mondo, non progetta ma non si arrende (non può, infatti, arrendersi:
sarebbe un pesce fuori dall'acqua e morirebbe). La giusta conoscenza del
mondo appartiene all'uomo - pesce, ma chi opera meglio? Il serpente, la
rana o il pesce? Il pesce non è forse tornato troppo indietro? In una
strada dalla quale non si torna, una strada dove non è possibile
respirare? La rana, invece, non sbaglia ad accontentarsi delle piccole
comodità del suo stagno? Il serpente, che ha abbandonato per sempre il
mare e l'acqua e che vive sulla terraferma, non si è spinto forse troppo
avanti e crede di stare in alto quando, alla fine, striscia sulla terra?
In questi caso ogni convinzione è una malattia come potrebbe
dire l'uomo - pesce.
[51]
Quanto sono noiosi tutti quelli che abbozzano analisi tutte - organiche,
capaci di descrivere tutto con tutto. Oltre a essere noiosi sono anche
miopi perchè insieme con il ripetere la medesima equazione non sanno
neppure variarne i termini: gli organici sono degli stupratori analitici e
intellettuali, appiattiscono le gradienze che compongono la realtà
(immaginabili come tinte più forti e meno forti, concentrati quantitativi
diversi) su un solo atto analitico e conoscitivo (che produce un'unica
valenza cromatica). Il problema è che questa valenza monocromatica è il
ponte tra i colori della realtà e quello della loro costruzione analitica:
interpretano i colori in sfumature tra il bianco e il nero.
[52]
Analizzare l'uomo nella sua vita, nel suo modo di essere, allontanadosi
dalla pretesa della conoscenza dell'essenza, fa perdere quel distacco,
stilisticamente espresso con il linguaggio, che ogni analista, quasi per
una forma di difesa dal suo oggetto, assume. Così si scrive come si parla
e non si pensa a come si pensa.
[53]
Tra il modo di essere, presentare, vivere una situazione e l'autentico
sentirla e pensarla c'è tanta lontananza da far apparire inutile la
coscienza di quel sentimento profondo. Il sentimento profondo
rimane inesprimibile e, alla fine, inutile alla conoscenza. Senonchè il
pesce si muove in maniera troppo simile al rettile: di solito si è, si
presenta e si vive una situazione nell'unica maniera in cui è consentito;
e questo fatto è già una testimonianza della profondità del comportamento
che, solitamente, viene catalogato come superficiale. La superficialità
dice grandi cose e profonde sull'animo delle persone e sulle loro
situazioni.
[54]
Se esiste un uomo libero, non c'è maniera di individuarlo, anche perchè
non ha un cartello al collo con su scritto libero, se è libero
non saprà di essere libero, inoltre. L'uomo libero sarà libero non per
libera scelta ma per necessità, tutta una serie di cause lo avranno
indotto a essere libero, cioè al punto di servire la libertà,
immaginandola ad occhi chiusi anche solo un breve attimo e da allora ha
voluto tutte le cose, tutte le cose in sè, come se ballasse nel mondo
abbattendo ogni ostacolo e come se quell'istante fosse l'eternità. Ma
quell'istante non sarà consapevole della sua eternità e quindi la libertà
rimarrà ignota. L'eternità di quell'istante si riduce, così, all'istante
che lascia una traccia eterna sugli altri istanti, ma non è
l'istante eterno e la consapevolezza. Non si può continuare ad abbattere
ostacoli e a sfidare il mondo, quasi fosse un mestiere o una missione. C'è
qualcosa che frena l'uomo libero dal di dentro oltre che dal di fuori,
ovviamente. Vorrebbe tutte le cose in sè ma non può, perchè non è infinito
nè eterno, e finisce, spesso, per sentirsi ostile a tutto e sente tutto
ostile a sè stesso, alla sua potenziale infinitezza ed eternità. Finisce
per dire o esclamare: "Tutto lavora per la mia distruzione, io per primo".
L'uomo libero esiste, ma non è altro che una vaga possibilità, che fa
pisciare di paura molti; l'uomo libero è protagonista di alcune azioni che
fanno un gran baccano, ma poi se ne ritrae rapido e veloce, perchè quel
baccano non era la sua produzione e intenzione. Non si può sfidare il
mondo da soli e naenche se si è in molti continuare a sfidarlo. L'uomo e
gli uomini liberi, giunti a un passo dalla loro realizzazione, devono
ritrarsi e tornare indietro: trovare in sé stessi il limite del mondo, il
limite della libertà e quello che il mondo è veramente.
Non è affatto facile cambiare le cose.
[55]
Allegro, triste, felice, poi altre definizioni più scientifiche
(cliniche), depresso, eccitato, euforico, poi altre ancora tipicamente
urbane, giù, su, paranoico, nervoso, ossessionante, ossessionato, sfasato,
strinato circoscrivono il gusto normativo della definizione che viene su:
sono categorie per sapere / prevedere.
Oggi comunicare è far sapere, come un tempo, ma far sapere per dare
strumenti, per creare categorie; oggi comunicare è stato squalificato a
ruolo e funzione del controllo. Oggi il controllo si gioca tutto sulla
comunicazione. Se non si comunicasse gli istituti del dominio sociale e
politico non saprebbero, ma è necessario che sappiano perchè io devo
comunicare. Allora si rimane tristi, allegri e eccitati, euforici e
catalogati. Basterebbe darsi negli atti, basterebbe rompere la
comunicazione, ma anche gli atti sono comunicativi. L'univa via è
nell'abbandono della comunicazione come assenza di atti e gli atti devono
essere la fonte della comunicazione, anche se non annullano la possibilità
del controllo, ma la sorveglianza si eserciterà su spostamenti, autentici
eventi, tempi che si dilatano, percorsi che cambiano. La comunicazione
rincorrerà e non precederà e il controllo rincorrerà e non precederà: avrà
sempre l'immagine precedente.
[56]
Il controllo di prima fattura se ne va con il quartiere contadino.
Gli ultimi aliti del contadino sono spariti. Siamo in piena civiltà
metropolitana (in USA da trent'anni almeno). Scompaiono anche i ricordi
del paese che c'era prima. E allora? 1) La famiglia è nuovamente centrale
2) il lavoro con lei. Questi i due mezzi di controllo in mezzo al deserto
dell'indifferenziato. In terzo luogo devono emergere strutture /
istituzioni nuove nel tessuto urbano di tipo sociale o sociologico. È lì
che si concentrerà il controllo.
Tutto questo ha dei gravi limiti perché sarà un intervento che non si
svolge nella materialità dei rapporti sociali, la sua
naturalità, ma sarà, necessariamente, qualcosa di estraneo. 1) sarà un
rapporto che imposto dall'esterno si dovrà giustificare in qualche
modo, ammantandosi di ragionevolezza, organizzando una ragione sociale
astratta, poichè non agirà su un terreno individuato e individualizzabile,
ma fluido, privo di centri e nuclei e omogeneo, quindi, difficilmente
analizzabile 2) proporrà il vecchio controllo contadino in maniera più
formalizzata e in veste istituzionalizata, asettica e scientifica, più
difficilmente comprensibile ai soggetti interessati 3) soprattutto si
eserciterà su un tessuto sociale che non possiede un linguaggio omogeneo,
un linguaggio sul quale fare leva.
È chiaro che potrebbe delinearsi la scelta di un controllo strettamente
poliziesco e militare se pensiamo al crollo di credibilità del sindacato
nei posti di lavoro o alla crisi del sistema di produzione operaio. Il
campo del controllo primario potrebbe essere assunto dal controllo
istituzionale e poliziesco.
[57]
La lepre si chiama lepre perchè corre veloce. Questa è la giustificazione
dei nomi delle cose che danno i bambini. Il nome viene prima delle cose, è
dunque per un bambino inconcepibile cambiare il nome alla lepre, poichè
essa è tale proprio perchè si chiama lepre. Nell'adulto il procedimento è
inverso: la cosa è l'animale che corre veloce che casualmente è
stato nominato lepre. Lepre è solo un nome, la cosa sarebbe quella anche
senza di esso e la lepre esisterebbe ugualmente. Nei bambini le cose
esistono solo in quanto ci siamo noi a dare loro un nome, negli adulti i
nomi esistono in quanto ci sono le cose che li suscitano e impongono.
Ma hanno ragione gli adulti? Esistono davvero delle cesure così nette, dei
tagli profondi, tra le cose, immediati alla percezione, tali da
determinare già di pe se stessi la scelta di un nome, il loro nome? Il
nome nasce davvero da un'individualità precisa? O, al contrario, dando
ragione al bambino, il tutto è indifferenziato, anche alla percezione e
solo il nostro intervento lo differenzia e lo individua? La
lepre non è solo l'animale che corre veloce, ma la lepre ha un corpo,
dorme, si riposa e fa molte cose che sono comuni e somiglianti a quelle di
altri animali e non c'è nulla che possa spingere a considerarla lepre, se
non il fatto che abbiamo imparato, per comodità, a chiamarla lepre.
Abbiamo selezionato alcune caratteristiche e in base a questa scelta
abbiamo deciso di chiamarla così, lepre, appunto. Il bambino, quindi, dice
una verità quando afferma che il nome viene prima ed è più importante
della cosa, perchè presagisce il procedimento e sa che se non ci fosse il
nome la lepre, certo, esisterebbe ma non in quanto lepre, poichè le sue
caratteristiche sconfinano in quelle di altri animali ed è stato solo un
fatto di autorità linguistica a darle la definizione di lepre. Gli adulti,
quindi, hanno individuato un parametro attraverso il quale dare il nome
alla cosa e la chiamano la cosa stessa e, alla fine, non importa che
coincida perfettamente alla cosa ma che la rappresenti e la individui
rispetto alle altre.
Dare il nome alle cose è la qualita e capacità fondamentale dell'uomo:
deriva dalla capacità di orizzontarsi nella natura, di valutarla,
giudicarla e manipolarla, deriva dalla capacità di intervenire sulla
natura come un essere esterno a quella. La natura esiste solo come
prodotto umano, è un concetto, un prodotto concettuale, senza l'uomo la
natura non avrebbe senso, non esisterebbe. La natura esiste solo perché
l'uomo gli ha dato un nome, separandola da tutti i nomi che prima aveva
dato alle cose che appartengono alla natura. A quel punto l'uomo oltre che
separare la natura dalle sue cose, ha iniziato a separare sè stesso dalla
natura e ha iniziato a fare discorsi oggettivi sui nomi della natura, ha
iniziato a parlare e scrivere di generi, ordini, specie e razze, giungendo
fino al punto nel quale le cose (come pensa il bambino reintrepretando il
procedimento) esistono solo in quanto sono nomi, solo sotto il profilo
funzionale e caratteriale che interessa in noi e che diventa un tutto
tondo. Si sono, così, gradualmente svuotati i rapporti con la natura, che
è diventata una forma immutabile, divisa in nomi (mito di Adamo e della
creazione). Poi è arrivata la teoria dell'evoluzione e le cose sono
iniziate a cambiare ma i nomi, al contrario, han continuato a rimanere
fissi e immutabili e sempre più inadeguati, anche rispetto a quello che si
principiava a vedere nelle cose della natura. L'ape e il fiore, ad
esempio: l'ape è l'apparato riproduttivo del fiore? Dove finisce l'ape e
inizia il fiore? La scimmia e l'uomo: dove finisce la scimmia e inizia
l'uomo?
I nomi si sono rivelati come distinzioni di comodo e l'ideologia della
perfetta osmosi tra uomini e cose entrò in crisi: era vero che i nomi sono
il nostro modo di far vivere le cose, ma non è certamente quello il modo
in cui quelle sono.
La perfetta osmosi tra nomi e cose fu smascherata proprio quando si intuì
la perfetta osmosi della natura nella quale ogni specie entra a far parte
come organo riproduttore, digestivo di un'altra specie e che una specie è
una contaminazione di molte specie, una cooperazione incredibile tra
diversi organismi.
Solo il linguaggio scientifico, per quanto sia rimasto astraente e legato
alla selezione e all'individuazione, appare in grado di rappresentare verosimilmente
lo stato delle cose: brutalizzandolo, schematizzandolo, isomorfamente a
come l'uomo entra nella natura. L'uomo, usando la volontà di dividersi dal
resto degli altri animali e costituendo il concetto di natura, si è diviso
da sè stesso, che diviene una specie tra le altre specie, un nome tra gli
altri, e usa il linguaggio scientifico anche verso sè stesso. Il
linguaggio scientifico cerca di superare sè stesso, di superare il
linguaggio, riconosce i limiti del linguaggio, la sua brutalità e la
limitatezza: le cose, da un punto di vista scientifico sono innominabili
poichè esistono a prescindere da quello. Il linguaggio scientifico non è
un linguaggio reale, non propone un discorso sulla realtà ma sulla verità,
è un linguaggio vero, che usa la necessità dei nomi per descrivere la
realtà secondo ipotesi di verità. Il linguaggio scientifico è proteso alla
verità e non alla realtà.
[58]
Lo stesso fenomeno si è verificato nello studio della società. I nomi
sociali corrispondevano, in epoca classica, a oggetti che si codificavano
intorno a quelli: plebs, patres, liberti, clientes. La
definizione sociale era indifferente alle attività economiche espresse
dagli oggetti sociali e li collocava in una tradizione, costruendola al
contempo, che limitava la libertà individuale e la potenza sociale di
quelli che erano rappresentati dalla definizione. Non era importante, alla
luce di questa tradizione, se si era artigiani, negozianti, armatori di
navi o argentieri, era decisivo il fatto di appartenere alla plebs,
nè interessava se si possedeva poco o molta terra fuori di città, perchè
si era plebs: non interessava se la lepre è l'animale che corre
veloce o no, perchè la lepre è lepre e cioè l'animale che corre veloce ed
è questa la sua caratteristica interessante, per definizione. Non era
importante quanta terra si possedesse, ma come questo possesso era
iscritto nel territorio della città, a che titolo era posseduto;
l'iscrizione della terra disponeva dei ranghi e la divisione tra patres
e plebs. Il danaro, che permetteva di unire o dividere i
possessi, quando li univa o li divideva, non li rendeva simili, rispettava
la loro tradizione giuridica: il danaro non aveva forza e potenza tale da
riscrivere il territorio, il rango del terreno, come non era riconosciuta
nel nome lepre l'attività riproduttiva che la lepre svolge a favore dei
fiori. Le categorie giuridiche, i nomi sociali, si moltiplicarono con il
tempo, fino a divenire una tradizione ormai priva di rapporto con
l'iscrizione originaria della terra, della famiglia nell'urbs. La
capacità di dividere e unire, aumentare e diminuire, che il danaro portava
con sé, allora, iniziò a crescere in forza, potenza e legittimità,
costituendo una nuova logica della legittimità. Il danaro divenne una
nuova forma e fonte di nobiltà e di fondamento del lignaggio: il danaro si
nobilitò. Questo stato passò dalla tarda epoca classica a quella
medioevale.
La moltiplicazione dei nomi e delle definizioni sociali, corrispondente al
moltiplicarsi degli oggetti e soggetti sociali, lungo il medioevo, fecero
crescere a dismisura le categorie giuridiche e il numero delle relazioni
economiche e sociali, fino al punto che le relazioni avevano tutte una
loro particolarità e individualità. Sopra questo complesso di
particolarità, però, il danaro si presentava come elemento omogeneo e
capace di dare a quelle una misura. La circolazione del danaro, inoltre,
si realizzava attraverso un flusso indifferente alle categorie, alle
definizioni tradizionali e alle particolarità e si giunse al punto che
categorie, tradizioni e particolarità avevano bisogno del danaro per
riprodursi.
Le regole della circolazione del danaro, contrariamente a quelle che
governavano famiglie, relazioni feudali e signorili, avevano un fondamento
logico - matematico, avevano la potenza della logica. Le regole del danaro
erano scientifiche. Il governo della società, allora, nella seconda parte
del medioevo, assunse il danaro e le sue regole di diffusione e
proliferazione come modello. Il governo della società, allora, si
trasformò o quantomeno si immaginò come una scienza, divenne un fatto
scientifico, eseguendo una conoscenza esatta dei suoi insiemi e
sottoinsiemi, non più vissuti come oggetti e corpi iscritti nella terra o
nella città, ma come relazioni, riassumibili logicamente e
matematicamente.
Si elaborò l'immagine sociale moderna seconda la quale esistono decine di
gruppi e sottogruppi sociali, ognuno limitrofo e in coerenza con l'altro,
in compenetrazione l'uno nell'altro, fino a formare un'unità
indossolubile, difficilmente analizzabile, ma tenuta insieme dal danaro.
Il danaro complicando l'analisi sociale, semplificava l'ideologia sociale:
la scienza del governo deve entrare nella società, deve intervenire in
quella, allo scopo di dominarla, allo scopo di ribadire la logica
matematica, l'astrazione di ogni precedente rapporto di potere e dominio.
In questa maniera le particolarità e individualità, le storie familiari e
di lignaggio, erano ridotte a accidenti dentro un processo scientifico
generale ed essenziale: la logica, la matematica e il danaro. Le
particolarità vengono trattate come generalità e l'uomo considerato in
modo astratto.
La distruzione della particolarità e l'intervento generalizzante dentro la
società rendono la scienza del governo immediatamente nemica all'uomo,
inteso come sistema di relazioni peculiari e particolari, spingendo verso
la realizzazione di una sola relazione, univoca, sostanzialmente disumana,
vale a dire estranea all'uomo.
In questa maniera la scienza del governo moderno dovendo governare gli
uomini diventa nemica di sè stessa, avversaria della sua stessa
definizione e si manifesta come causa della sua stessa distruzione; negli
anni dieci e negli anni settanta, per ben due volte, ha rischiato di
dissolversi. Lo stato, infatti, penetrando nel tessuto sociale non
riesce a districarsi, a dare nomi adeguati alle cose che
incontra, a elaborare un linguaggio di divisione che possa venir recepito
e insistere su autentiche particolarità e individualità (che non siano
accidenti, che non siano occasionali) e si scontra, alla fine, con una
massa fluida, ingovernabile. Allora è la crisi economica e politica,
quando il linguaggio del danaro riconosce di non essere reale,
di non comprendere la realtà in sé, di non riuscire a dominarla
intellettualmente ma, essendo logica e matematica, di essere solo vero
e cioè l'unica immagine della realtà possibile. La verità diventa nemica
della realtà e la lotta contro la verità diviene rivoluzionaria.
[59]
Lo sviluppo del pensiero scientifico e filosofico moderno ha accompagnato
e favorito l'istituzionalizzazione di una verità brutalizzante, disumana,
extraumana. Il pensiero scientifico ha istituzionalizzato
filosoficamente la brutalità: dominare è far soffrire, prescindere
dall'umano, e si domina per far soffrire e provocare dolore.
[60]
La possibilità dello scrittore, del narratore, del romanziere è quella di
volare via, portandosi dietro ogni bagaglio utile al volo: portare via
ogni esperienza che sia contaminata dall'alito pesante del presente. Ma
non si tratta di Baudelaire.
[61]
Esiste nella città, nel quartiere e nelle singole case, un grosso veicolo.
Veicolo ideologico e culturale che analizza, giudica e propone dei valori
e che pone la vita quotidiana nel vetrino del microscopio. Dio è sceso tra
gli uomini, analizza e giudica tramite la televisione. Non c'è modo di non
osservare e non essere osservati: la televisione.
[62]
Mai come oggi l'astrazione brutalizzante sulla vita sociale è stata così
profonda. Ogni momento della vita e dell'esistenza è vagliato, segmentato,
inserito in una data possibilità organizzativa e rinominato. La vita
attiva, come da secoli, nel lavoro, la malattia nell'ospedale, la gioventù
nella scuola, la vecchiaia nel pensionato, il divertimento e tempo libero
nella stratificazione di offerte. Ci si trova soli e isolati in ciascuna
di queste fasi, dentro la vita e l'operare di una macchina che taglia e
scompone le esigenze. L'uomo è diviso in settori e sezioni, ognuna con le
sue funzionalità e tecniche di controllo. Tutto diventa un'operazione
produttiva, il cui oggetto / soggetto è l'uomo, è parte di un grande
processo che diventa un valore in sé, perché non è più importante dove
vada e a cosa miri.
Non si tratta di negare o abolire le istituzioni sociali, di abbattere
scuole, ospedali e pensionati, come non si è mai trattato di bruciare
fabbriche e quando lo si è fatto si è dato un segno, si è affermato "tutto
ciò non è affatto neutrale". Come i contadini nel medioevo bruciavano il
raccolto contro la parte pretesa dal feudale e indicavano in tal maniera
la strada da seguire, poichè il raccolto, la terra stessa, diveniva loro
nemica nella misura in cui non ne erano i pieni proprietari, così, in
epoca più recente, si è affermato che la fabbrica era nemica nella misura
in cui non fosse organizzata dagli operai.
Oggi, però, la fabbrica è dappertutto, in quanto logica della
fabbrica, è negli ospedali e nelle scuole. La logica della fabbrica
è la produzione a ogni costo e a basso costo, la logica dell'assistenza è
la stessa. È contro questa estensione della logica della fabbrica che deve
scontrarsi l'operaio, il degente, lo studente e il pensionato.
[63]
Il problema della grande macchina del dominio è, però, più complesso: non
ci troviamo di fronte, infatti, solo un meschino risparmiatore. Oggi il risparmio
impone il controllo e il risparmio è parte del controllo. Questa
grande macchina non può fare altro che risparmiare; la creazione di danaro
e il suo risparmio sono gli stessi principi del sistema: Dio creò il mondo
per torturarsi. Il sistema sociale ha generato il capitale e tutte le sue
varianti, il danaro non è libero e non risponde più solo a logica
matematica, e il capitale è più importante del danaro, potrebbe, forse,
vivere senza danaro,ormai. Il capitale distorce il danaro, ne cancella la
logica matematica, e si sviluppa distortamente senza alcuna armonia: è un
esterno al sistema, il capitalismo, che domina il sistema dal quale è
stato, pure, generato. Questa grande macchina di dominio vive nel
paradosso più lampante: crea non per sè stessa ma per il capitale. Si
creano ospedali e strutture di assistenza sociale non per venire incontro
a un'esigenza sociale, che è alla fine un'occasione, ma per delineare la
possibilità e continuità della riproduzione del capitale. Lo sviluppo
delle attività sociali, così, non è armonica con le esigenze sociali.
La funzione generale delle strutture di assistenza sociale è quella di
produrre per ogni fase della vita individuale un'adeguata fase di
controllo e di intervento (terapeutico, chirurgico, psicologico,
sociologico, geriatrico). La garanzia che questo intervento sia
soprattutto costretto a svolgere un ruolo di controllo sta
nell'imprenditorialità che lo governa: più l'assistenza è svolta come
impresa, maggiore la sua struttura assumerà un ruolo di controllo. Più il
lavoro nell'assistenza sarà sottoposto a logiche di impresa, più prevarrà
la parcellizzazione e segmentazione dell'intervento, dei servizi e dei
problemi: scompare il soggetto, compaiono diversi soggetti, ora il malato,
ora il pensionato, ora il geriatrico, ora il depresso ecc. ecc.
[64]
Più si parcellizza il controllo, più è difficile mascherarne lo scopo.
L'operaio ha imparato nel decennio scorso che non è più il lavoro e
unicamente il lavoro lo strumento per controllare la sua vita, ma che il
controllo è ovunque. Ha trovato motivi di conflittualità e di
antagonismo anche al di fuori, anche al di là, della fabbrica e il
conflitto, invece che complicarsi moltiplicandosi in settori, si è
semplificato e accresciuto. Di fronte l'operaio non ha avuto più un
padrone buono o un padrone cattivo, di fronte a sè ha scoperto un padrone
collettivo, un padrone della vita sociale. Oggi siamo molto
vicini alle forme dell'antagonismo dei primi passi del capitale, ma non è
la fabbrica, ma la fabbrica del sociale che è percepita come nemica. C'è
dunque della verità in certi discorsi di oggi che descrivono l'attualità
del comunismo.
[65]
Sul cambiamento radicale in poesia, ovverosia sulla ricerca esclusiva
sul linguaggio. È utile gettare uno sguardo sull'operato di questi
saccentuzzi, è un'operazione di operazione, come tale estremamente
raffinata. Servirebbe per parlare di quello che si vede ora nelle città,
con rapide inquadrature sviluppate sotto molti punti di vista. Punti di
vista diversi da quelli sviluppati da questi poeti che scrivono partendo
da quello che hanno letto, ammassando così opere di opere e carta di
carta.
[66]
L'uomo come è stato conosciuto e descritto un tempo, l'uomo in quanto
essere con determinati attributi, modi di essere, esiste ancora?
[67]
Quante volte, dunque, la descrizione dell'uomo si è ripetuta nella storia
in maniera simile. Quante volte nella storia abbiamo testimoniati
comportamenti analoghi e, ancora meglio, culture analoghe o, addirittura,
concezioni culturali simili. La nostra epoca, che si sente a fondo corsa,
che afferma che non si può fare altro che riscrivere il passato e che si
comporta di conseguenza, è stata preceduta da altre che ragionavano in tal
senso (penso alla società tardo romana tra quelle) e ha, però, al
contrario di quelle il gusto volgare dell'imitazione. Imitare altre
disperazioni è, oltre che carta su carta, anche disperazione su
disperazione; in questo senso la nostra odierna fine corsa ha una sua
drammatica grandezza ed è, per certi versi, reale e plausibile. In questa
mania di grandezza dissimulata che percorre l'arte e in genere tutto il
repertorio di questo nostro tempo, c'è, inequivocabile, un fondo di
verità.
La nostra epoca si comporta come un'epoca conclusiva, ultima, destinata a
dare un suggello e chiudere il plico delle ideologie, delle culture e
della storia medesima. Come è ovvio, non c'è nulla di ultimativo,
definitivo e suggellante neanche in quest'epoca, ma è pur vero che è
cambiato, in questo presente, il modo di concepire il futuro: il futuro
non potrà essere diverso dal presente, poichè oggi si danno tutti i
presupposti materiali immediati (tecnici, scientifici, sociali e
istituzionali) per qualunque futuro si possa immaginare. E se il futuro
diventa progettabile e prevedibile, secondo diverse linee di fuga,
acquisisce una caratteristica nuova, quella di non essere più il futuro,
la cosa che sarà. Molte categorie emotive, valide e affascinanti nel
passato, come l'avventura, il viaggio, la finzione scientifica e la
fantascienza stanno declinando, interessando poco.
[68]
È tramontato il grande avventuroso 700entesco e 800entesco, è tramontata
l'introspezione del '900. Ora la penna è ferma, visita il suo inchiostro,
ora sono le frasi, le parole a farsi oggetti compiuti che interessano
poiché sono loro, in ultima analisi, a decidere e comandare ovunque, anche
in politica e in filosofia.
[69]
Il mito dell'informazione è ben adatto a rappresentare il mito di questo
mondo. Ciò che conta è l'azione, ciò che conta è la capacità di
sollecitare reazioni. Non è il caso di scavare su chi invia un messaggio,
di indagare sulle sue ragioni e suoi interessi e piani, interessa il
messaggio, cosa è, come si forma, che impatto ha e dopo tutto questo, se
ne rimane la voglia e quasi il puntiglio, ci si può interessare del suo
autore. Guardate l'ultimo film di Ferreri (il futuro è donna).
[70]
Per quanto riguarda la critica culturale, essa è semplicemente una burla
continuata e ripetuta; fa parte del processo di mistificazione più
ridicolo che si sia mai dato. L'arte ha delle caratteristiche: è un
prodotto. I critici hanno il grande potere di indicarne il prezzo cioè di
regolare la trasformazione di questo prodotto in merce. I critici
quantificano il valore del tempo di lavoro dell'artista e accrescendone il
valore aumentano anche il nome dell'artista. Il nome stesso dell'artista,
allora, e non solo il prodotto del suo lavoro, diventa fonte del prezzo
della sua opera e, per certi versi, l'artista si rende autonomo dalla sua
opera. L'artista diventa anch'esso un prodotto. Pensiamo al caso in cui ci
si trovi di fronte a una stupenda riproduzione di un artista, imitazione
non dell'opera ma dell'artista, del suo genere e del suo stile, che venga
creduta per lungo tempo originale e valutata di conseguenza. Si scopre
l'errata attribuzione e l'opera esce dall'artista, il suo valore crolla.
Ma non era arte anch'essa? Non esprimeva, seppur nascondendosi dietro
altre vesti, lo spirito e la cultura di un'epoca? Non c'era dolore, gioia
o riflessione? Ancora peggio per gli artisti moderni e per l'opera dei
falsari. Se ci si trova di fronte a un Modigliani gli si attribuisce un
certo valore, qualche giorno dopo si scopre che l'opera non è di
Modigliani e gli non gli si attribuisce alcun valore. Ma quando è stata
Modigliani quest'opera? Qualche tempo? Sempre? Mai? Il suo valore
momentaneo di mercato, quando la si riteneva un'originale, non dovrebbe
testimoniare della bontà del prodotto? Assolutamente no. Quest'opera è
stata Modigliani fino a che non è uscita dal prodotto Modigliani. Pensiamo
al falsario, o all'autore della burla (in questo specifico caso): ha
prodotto un'opera, l'ha prodotta bene, fino al punto di farla scambiare
con un altro prodotto. Nel momento in cui, però, l'opera ritrova la sua
autenticità, quella di essere il risultato del lavoro di un'altra persona,
allora non è più opera d'arte.
Mi chiedo: come si fa a stabilire che il plagiatore non abbia sentito
Modigliani mentre lo imitava e che sia stato davvero, per molte ore di
lavoro, Modigliani? Le opere d'arte seguono le regole del mercato, che in
quello delle merci ordinarie segue le leggi delle banche, delle
borse e delle grandi concentrazioni finanziarie e imprenditoriali, in
quello delle merci straordinarie segue le leggi della critica
dell'arte. Questo segmento di mercato pare fare riferimento ai principi
originari del mercantilismo: il valore dell'oro è il suo palinsesto
logico. È necessario controllare la quantità della produzione aurea per
stabilirne il prezzo e a fare questo pensano autorevolmente i critici
dell'arte.
[71]
I poeti contemporanei che sto leggendo si adattano perfettamente a questa
definizione di Ignazio Ambrogio intorno ai poeti simbolisti russi, scritta
nell'introduzione a Poesia e rivoluzione dedicata all'opera di Majakowsky:
" ... smerciano per innovatrici e viventi le loro raffinate ed epigoniche
estenuazioni delle più stantie espressioni artistiche ...". Gli autori
post moderni appartengono, anch'essi, al passato e, consapevolmente o no,
pretendono di soffocarci con questo passato. Aggiungo un sospetto: il
nostro soffocamento sarà la loro realizzazione. Il piccolo scribacchino
sarà dominatore del mondo culturale. Non hanno fatto poco, si badi bene,
hanno reinventato la cultura! Hanno avuto coraggio, anche se lo
nascondono.
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