1. Preambolo
1.1. Lo stato assoluto
In Europa abbiamo conosciuto lo stato
assoluto dell'aristocrazia come espressione del dominio collettivo
di quella classe. L'aristocrazia, cioè, assunse un'intelligenza
collettiva di classe e la realizzò, esprimendola nella forma
statale che conosciamo sotto il nome didascalico di monarchia
nazionale. Questa è l'interessante tesi dell'Anderson, che mi
sento di condividere.
Ciò non avvenne, però, ovunque. In molte regioni europee, la formazione
di un siffatto apparato statale si fermò a un preciso stadio, poiché
richiedeva la compresenza e stabilizzazione di alcuni requisiti
indispensabili, di alcuni e ben determinati rapporti di dominio
sociale che non sempre, per cause diverse, tanto intrinseche
quanto estrinseche, si riuscirono a verificare. In alcuni casi la
formazione dello stato assoluto aristocratico fu interrotta
dall'insorgere di una rivoluzione borghese, come nel caso inglese e
olandese. Questo dipese da un profondo ritardo che l'istituzione
monarchica aveva accumulato nei confronti delle trasformazioni sociali
ed economiche, cosicché la ovvia reazione nobiliare alla tendenza
centralizzatrice messa in opera dalla corona si coniugò con una
forte e potente energia mercantile e, fattasi potenza e realtà politica,
ribaltò ogni disegno monarchico. L'aristocrazia inglese, aristocrazia di
forti e antiche tradizioni autonomiste, era contrariata dalla tendenza
centralizzatrice, tanto più che la costituzione di un apparato
amministrativo e militare centrale non trovava giustificazione in
Inghilterra e in Olanda nel rischio di un'aggressione esterna, anzi, nel
caso olandese, era essa stessa l'obiettivo di un'occupazione straniera.
La Francia portò a compimento (e fu forse l'unica) la costruzione
assolutistica, una volta superata la crisi del '600. di modo che il
crollo della monarchia significò davvero anche il contemporaneo e
coessenziale crollo dell'aristocrazia, al contrario di quanto era
avvenuto in Inghilterra, e per l'affermazione del diritto di
proprietà borghese fu necessaria l'eliminazione politica, sociale e
addirittura fisica e materiale della proprietà e dei proprietari
feudali.
In effetti, in Inghilterra i rapporti di dominio feudale erano in crisi
già nel corso del 1500 e la nobiltà si era appropriata rapidamente di
una logica imprenditoriale o proto imprenditoriale che caratterizzò, in
parte, la feudalità dell'Italia settentrionale e centrale in quello
stesso secolo. Soprattutto attraverso la monetizzazione degli oneri
e dei diritti feudali e la utilizzazione del debito in danaro sui
contadini, si ribadiva in forme del tutto nuove il vecchio comando
fondiario. Inevitabilmente, però, i poteri signorili cadevano
parzialmente in disuso o venivano esercitati in sedi e lodi arbitrali
neutri, esterni alla località.
In Francia, al contrario, i rapporti di dominio, dopo il XVI secolo, si
rinsaldarono, i poteri signorili furono ereditati in quanto tali
dal monarca nella figura dei suoi intendenti e dei parlamenti locali e
tutte le clonazioni e filiazioni dei poteri feudali vennero sussunti e
organizzati all'interno dello Stato, rispettandone il più
possibile l'intima gerarchia e più spesso la caotica disposizione
circoscrizionale. In Francia il crollo dell'aristocrazia fu provocato
dalla stessa ipostatizzazione dei rapporti di dominio feudale che lo
stato monarchico creava e riproduceva. L'enorme contrattualità che la
nobiltà possedeva nella società civile, l'ingabbiamento e la
subordinazione dell'iniziativa privata, mercantile e finanziaria alle
esigenze della corona (pensiamo alla compravendita delle cariche, ai
prestiti pubblici, agli appalti del fisco, al controllo monarchico sui
commerci con l'estero cioè a quello che si può definire mercantilismo
di stato) determinarono alla lunga una grande sicurezza politica
nell'aristocrazia, che sconfinava nella tracotanza, vissuta all'ombra
delle baionette reali. La società francese appariva immediatamente scissa:
nobiltà, diritti feudali e alto clero da una parte, artigianato,
contadini, salariati dall'altra. Una funzione di effimera mediazione la
esercitavano i grandi finanzieri e il clero minuto, una mediazione che
poteva essere credibile solo sotto il ricatto di un esercito sempre più
avvezzo a intervenire nelle questioni interne.
Questa grande sicurezza di sé e della legittimità del proprio potere
portarono l'aristocrazia a conquistarsi margini di manovra politica e
istituzionale anche contro la corona, a proibire la compravendita delle
cariche, a cacciare a pedate dall'amministrazione pubblica la nobiltà
di toga, i parvenù di quell'ordine sociale e politico.
Sappiamo che fu la rovina. L'aristocrazia in Francia aveva detto tutto
quello che aveva da dire e non poteva che ritornare, come infatti fece,
a immaginare uno Stato federalista, localista e autonomista, a rievocare
il desiderio politico e sociale più profondamente connaturato alla sua
genesi come classe, a gettare a mare l'esperienza del suo Stato
collettivo, rinunciando alla collettività dei suoi interessi.
Il localismo, l'autonomismo e il federalismo aristocratici, ben
descritti e incarnati da Montesquieu, avevano già buttato a mare e
condannato al fallimento i conati assolutistici polacchi e lasciato la
Polonia priva di un esercito stabile e di una conduzione strategica e
politica uniforme e unitaria in pieno '500, nel pieno, cioè,
dell'aggressività delle grandi dinastie europee. La Polonia fece la fine
di un vaso di argilla tra vasi di ferro. In maniera diversa, poiché
l'autonomismo italiano fu un fenomeno autonomista, un modo di
manifestarsi dell'assolutismo in maniera regionalizzata, questo accadde
nel '500 anche in Italia.
Scrivere, come fa l'Anderson, di stato assoluto come di stato collettivo
dell'aristocrazia non è del tutto giusto anche se è estremamente
indicativo di quale tipo di forze sociali stessero dietro alle monarchie
dinastiche dal '300 in poi, poiché lo Stato politico, o meglio
l'espressione istituzionale in forma chimicamente pura del dominio
feudale e signorile, può essere solo e unicamente una monarchia di
tipo alto medioevale. L'aristocrazia non aveva in sé, in quanto
tale, tentazioni stataliste o centralizzatrici come al contrario le
aveva la borghesia, tutt'altro. Il vero dominio aristocratico è
l'esercizio di un potere signorile derivato da un'investitura e il
potere economico allodiale ereditato. Tutto qui. È di per sé stesso,
quello aristocratico, un dominio particolare e mal delimitato
geograficamente. Ma è pure vero che il dominio feudale ha sempre
presupposto un principio di sé medesimo, un'investitura e ha sempre
ricercato nella figura del re una sua legittimazione un coordinamento
nei confronti di altri domini limitrofi o subordinati, solo nel senso,
però, di difendere il proprio dominio privato. Ci troviamo di
fronte un dominio autonomistico e particolaristico che però ha bisogno
di un estraneo da sé per trovare legittimazione e questo deriva, diritto
diritto, dal diritto barbarico. La componente barbarica del diritto
feudale presuppone il re, ma non presuppone e richiede un potere
monarchico. Non a caso le corone dell'altomedioevo potevano contare, in
favore della loro contrattualità, solo delle terre che, feudalmente,
controllavano direttamente. Il caso dei re di Francia, che per estendere
la loro influenza fecero salti mortali per ingigantire i loro feudi fino
a farli confondere con i domini reali (cioè le terre del demanio
pubblico) è esemplare, così come lo è il caso di quei monarchi che si
conquistarono contrattualità nei confronti dell'aristocrazia,
presentandosi come indispensabili garanti della proprietà feudale di
ogni nobile, preso nella sua singolarità, e trasposero questa loro
indispensabilità sul piano politico introducendo un diritto di
coordinamento tra i domini feudali che spettava al re.
Questo diritto di coordinazione e gerarchizzazione reale è la componente
romana del diritto pubblico feudale; la volontà di costruire,
rispettando i terreni di intervento feudale e autonomistici ed anzi
sopra tali diritti, a partire da essi, una zona amministrativa sottratta
alle singole esigenze feudali, quindi neutra, quindi pubblica. Il grande
re feudale dell'altomedioevo si trasforma, va oltre la propria classe,
ne interpreta le esigenze in una prospettiva generale e, naturalmente,
rafforza l'autorità del suo casato (la feudalità reale è sempre tale e
la lotta tra re e feudalità può essere letta anche, forse in maniera
riduttiva ma efficace, come la lotta tra fazioni feudali, ognuna
rivendicante un'egemonia - autonomia dall'altra).
Un'amministrazione pubblica dunque è il cavallo di battaglia della
corona, un esercito stabile, una regolamentazione dei rapporti feudali.
L'amministrazione pubblica è la bestia nera della feudalità, non fa
parte, infatti, delle prerogative che essa aveva immaginato per il re e
in buona parte l'aristocrazia si ribella in più tempi e in più punti
politici (dal XIII al XVII secolo).
Lo Stato collettivo aristocratico in realtà nasce da un compromesso, che
non è quello visto da Marx tra corona e borghesia mercantile, ma tra
monarchia e aristocrazia con l'utilizzo intermediario del ceto
finanziario e mercantile. La corona fece capire alla nobiltà (non senza
resistenze) che la formazione di grandi entità dinastiche era un dato di
fatto, che era necessario un coordinamento amministrativo sotto una
determinata casata feudale, che era necessario un esercito e che era
anche necessaria una difesa del crescente patrimonio mercantile
nazionale, cioè si richiamava all'intelligenza di classe
dell'aristocrazia. Concedeva, come contropartita, un esercito stabile in
grado di difendere i rapporti di dominio feudale da ogni contestazione
sociale, la repressione di situazioni autonomistiche (comuni urbani e
tessuti comunali di campagna) profondamente antifeudali e l'inserimento
a pieno titolo nell'amministrazione pubblica della nobiltà. Non tutta la
feudalità si offrì di collaborare, tanto che, spesso, la corona fu
costretta ad utilizzare borghigiani e finanzieri nelle amministrazioni;
ma è un dato di fatto che fece questo mentre li subordinava ferreamente
a un sistema di potere feudale. L'intelaiatura di controllo assolutista
compresse lo sviluppo economico delle città anziché incentivarlo. La
borghesia si subordinò, per la sua vocazione ad avere uno stato
unitario, protettore del mercato nazionale, ma soprattutto perché non
intravedeva nessun valore politico generale che fosse esterno allo stato
dinastico.
Quando si parla di crescente autonomia della borghesia in materia
economica e politica all'interno dello stato assoluto, bisogna tenere
conto del fatto che la acquisì proprio là dove lo stato assoluto
non si sviluppò compiutamente come in Inghilterra e Olanda,
ma nella monarchia francese, dove la borghesia fu oggetto di una
feudalizzazione volontaria e di una sudditanza ideologica e sociale al
potere nobiliare, non si sviluppò alcuna autonomia. Ancora più
dura la politica dei reali di Spagna, con la distruzione manu
militari di ogni velleità autonomistica urbana, che piegò gli
interessi emergenti del ceto mercantile. In Francia e in Spagna, ad
esempio, il commercio marittimo si svolse sotto l'egida di Compagnie
Reali e dunque la borghesia mercantile si fece sfuggire un'immensa quota
di ricchezza finanziaria a vantaggio della corona e dei suoi satelliti
sociali.
In Italia la situazione è più intricata. Gli stati regionali 400eschi
del nord e del centro sorgono direttamente dai Comuni mercantili e si
manifestano come volontà da parte di quelli di esprimere un controllo
allargato sul contado circostante. È il ceto mercantile il motore primo
di questo processo di statalizzazione ma questo prende forma solo
(è da notare questo) con l'emergere di una casata investita di poteri
politici trasmissibili ereditariamente. È probabile che questi
gruppi di borghesia embrionale (banchieri, finanzieri e
mercanti), realizzando nella società civile una stratificazione di casta
neo - feudale al vertice della quale si trovavano loro, fossero
rapidamente entrati in una logica dinastica e feudale.
Cercando di cristallizzare i rapporti sociali, questa casta
borghese non trovava di meglio che nobilitare sé
stessa, cioè fare ricorso a strumenti tipicamente feudali: il danaro si
feudalizzava. Non solo dunque si cercava (con successo) di eliminare sul
nascere ogni fenomeno di lotta di classe, ma si tendeva a ingabbiare lo
sviluppo delle forze produttive, l'emergere di nuovi soggetti dominanti,
cristallizzando un ceto politico ed economico e affidando a quello
l'amministrazione del potere. La grande borghesia si voltava indietro,
feudalizzava sè stessa e, incapace di esprimere un suo potere,
era costretta a ricorrere a una dinastia regnante con tanto di
investitura dell'imperatore. Questo vale soprattutto per Milano e
Firenze, due città dove la concentrazione di ricchezza si era data in
maniera eclatante, dove si erano sviluppate potentissime consorterie
mercantili sul modello delle consorterie di lignaggio feudali e dove
questo processo di accumulazione di reddito e di potere economico aveva
incontrato una resistenza popolare fortissima e avviato processi di
lotta di classe inediti per l'immaginario dell'epoca. Non è un caso che
in entrambe le città la borghesia intimorita trovi nella soluzione di
casta e nel potere militare di un principe la risposta adeguata alle
nuove classi popolari e ritrovi un'identità di classe nella
feudalizzazione, cioé nella negazione della sua genesi, della sua
genuina identità. Questo processo poteva solo avvenire sotto le ali
dello stato assoluto monarchico.
1.2. Tra aristocrazia e borghesia
E a questo punto si può aprire una seconda
riflessione sulle ultime cose scritte. Lo stato assoluto aristocratico,
come forma di dominio politico, si afferma in Milano e Firenze in quanto
strumento di potere di una classe non feudale ma rifeudalizzata.
Al di la del fatto che va tenuto in massimo conto che questa borghesia
nobilitata ha sviluppato un rapporto di collaborazione con la
feudalità di campagna e ha rispettato alcune delle sue prerogative
signorili, ponendosi in una sostanziale identità di interessi con
quella, possiamo vedere nello stato assoluto una forma di dominio
emergente in quanto tale, in quanto slegata da specifici interessi
egemonici di classe. È chiaro che la borghesia mercantile lombarda e
fiorentina non può essere paragonata, ma neanche avvicinata, alla
contemporanea aristocrazia sabauda e piemontese che, però, stava
anch'essa costituendo una forma stato analoga. Le costruzioni statali
convergono, infatti, verso lo stesso obiettivo: uno stato accentrato e
organizzato omogeneamente. Tutto questo può essere spiegato in questi
termini: lo stato assoluto aristocratico è una forma di dominio che
risponde ai bisogni emergenti nelle classi egemoni dell'epoca,
all'esigenza di una rapida frustrazione delle aspirazioni delle classi
subordinate (sempre più estese e sempre più allargabili su una
dimensione nazionale) e soprattutto, in questo caso, al desiderio da
parte degli stati di giungere a recintare l'identità nazionale e
linguistica, anche attraverso il potere dinastico e le relative guerre
(strumenti apparentemente vecchi e inadeguati rispetto all'obiettivo);
risponde, quindi, anche al bisogno di creare una potenza militare
ragguardevole e infine all'esigenza di preservare alcuni settori
commerciali che per loro logica intrinseca si esprimevano nazionalmente,
in termini di unità linguistica.
Lo stato assoluto aristocratico fu naturalmente adeguato alle esigenze
dell'aristocrazia più progressiva e della borghesia più regressiva,
quella parte del mondo mercantile che si feudalizzava, rinunciando alle
sue caratteristiche di classe.
Lo stato assoluto era uno strumento inadeguato a gran parte degli scopi
che si proponeva e sui quali si costituiva: soprattutto inadeguato sul
terreno tipico e privilegiato dalla borghesia settecentesca, quello
della coesione e unità linguistica e culturale. Sussunto, come altre
istituzioni aristocratiche, alla logica dinastica, alle divisioni di
lignaggio e alle terre feudali, in Italia non fu in grado di sviluppare
unità politica, mentre in Francia non realizzò unità linguistica.
Nonostante questi limiti storici, lo stato assoluto aristocratico
ha avuto un valore generale, posto al di sopra di mercanti e feudali e
di ogni loro contingente incrocio di interessi.
Secondo forme di analisi sociologica, alla costituzione dello stato
assoluto aristocratico corrispondeva il bisogno astratto e necessario
delle classi dominanti e che si riconoscevano reciprocamente dominanti
(aristocrazia e borghesia mercantile e artigianale) di comandare ogni
parte, settore della società, con fluidità e uniformità e secondo
un'ideologia unitaria, quella della nazione. Secondo forme di analisi
storica, lo stato assoluto va interpretato come un'ipostatizzazione
del dominio feudale tradizionale posto di fronte alle nuove
problematiche sociali ed economiche emerse a partire dal '200. Queste
nuove problematiche originavano soprattutto dall'estendersi sempre più
ampio del potere del danaro, che si dava come un libero flusso di
energia sociale ed economica che saltava ogni argine geografico e
distrettuale feudale. Questo flusso, questa corrente, si articolava e
scorreva usando gli strumenti di comunicazione delle classi subalterne,
le lingue volgari, le parlate non burocratiche e amministrative; la
lingua popolare era quasi il letto di questo fiume.
Questo è un primo fondamentale punto:
lo stato assoluto tra XIV e XVI secolo cerca di
riproporre l'ordine feudale e il suo diritto sul terreno nuovo della
comunicazione linguistica innervata dal danaro.
In Italia più che in altre regioni europee, l'aristocrazia, soprattutto
quella minuta, già nei secoli XII e XIII era stata sconfitta
dall'emergere di nuove forze sociali; non esisteva, inoltre, la base
materiale, almeno omogeneamente distribuita sul futuro territorio
nazionale, per l'operazione di potere costitutiva dello stato assoluto.
Per questi due motivi, lo stato assoluto italiano si fraziona
regionalmente, fornendo espressione politica e istituzionale alla
borghesia mercantile e finanziaria e alla parte più affermata
dell'aristocrazia. Questo dimostra che, nonostante l'innegabile sviluppo
delle forze sociali ed economiche italiane, senza pari in Europa, lo
stato assoluto era un'esigenza imprescindibile, una necessità storica
per quella fase, e una forma di dominio naturale. Era tanto forte,
naturale e necessaria questa tendenza, che lo stato assoluto, in Italia,
fece a meno di uno dei suoi caratteri, il carattere nazionale,
sacrificandolo alla necessità del processo.
Anche nei tradizionali comuni e poi repubbliche mercantili, Genova e
Venezia, si istituzionalizzano gruppi di famiglie (consorterie e alberghi)
che acquisiscono l'esclusività dell'esercizio del dominio politico e del
controllo dello stato.
Lo stato assoluto, inteso come forma di dominio, ha bisogno di una
classe cristalizzata e al tempo stesso la richiede. Questa classe
cristallizzata, inamovibile, riassunta più che rappresentata da alcune
casate ancora più elette e scelte, ha avuto nell'aristocrazia e nei suoi
diritti signorili un riferimento coerente e cosciente e poco più tardi
ha esteso questo riferimento alla borghesia mercantile e finanziaria
rifeudalizzata. Questa super classe cristallizzata è un
involucro di lignaggi, dinastie, legami e cultura, che oltrepassa gli
interessi immediati dei suoi diversi componenti.
La tendenza necessaria alla formazione dello stato assoluto è dimostrata
anche dagli avvenimenti dell'Europa orientale, dove la grande proprietà
allodiale fu investita dal monarca di poteri signorili, trasformandone
la natura di classe, proprio in funzione della creazione dello stato
monarchico. In Prussia, per esempio, la nobiltà tenutaria, la futura
classe politico - sociale degli Junker, si legò, proprio per
questa donazione e dotazione di poteri locali, indissolubilmente al
potere monarchico, come, seppur secondo gradienze diverse, in Austria e
Russia. Le strutture di potere orientali, pur fondandosi su una
feudalità inventata dalla corona e quindi molto diversa
dall'aristocrazia dell'occidente europeo, sono analoghe e isomorfe a
quelle francesi.
Ovunque è il consiglio di guerra a funzionare come prima struttura, come
cavallo di Troia, di questo stato, come embrione dello stato
assoluto. Lo stato assoluto monarchico nasce come consiglio collettivo
dei pari del regno in vista di operazioni belliche. Lo stato
assoluto manterrà questa natura militarista per
tutta la sua storia; dopo una lunghissima epoca di universalismo
medioevale e antico, nacque la politica estera come noi oggi la
conosciamo. Un esercito regio, una guardia reale e una struttura
militare stabile saranno tendenze che, espresse fin dal '200,
giungeranno a maturazione nel XV secolo e troveranno nei grandi
conflitti dinastici il loro emblema storiografico.
In secondo luogo, ma non subordinatamente alle esigenze del consiglio di
guerra, si organizzò un struttura finanziaria, un'amministrazione delle
spese militari che di per sé stessa presupponeva una pressione fiscale
organizzata da parte della corona e quindi un'autonomia istituzionale
della monarchia. Di qui, le esigenze di coordinare e sussumere il
sistema esattivo signorile, locale e regionale a un disegno più ampio e
nazionale. Proseguendo sorge molto presto la necessità da parte
dello stato di creare un corpo di funzionari adibiti al controllo di
questa macchina amministrativa e alla comprensione della sua complessità
politica.
I funzionari non possono più identificarsi, come in epoca carolingia e
fino al XII secolo, nei signori comitali, nei comites del
monarca, che erano investiti da quello, dalle autonomie comunali o dalle
repubbliche municipali, di una signoria su una determinata regione, di
carattere ereditario e feudale; i nuovi funzionari o ministeri pubblici
del XIII secolo intendono essere veri supervisori, arbitri,
dell'attività fiscale signorile e della proprietà feudale, in ragione
delle necessità e degli interessi autonomi della nuova forma di stato.
La monarchia si propone come elemento di controllo superiore della
macchina militare, fiscale e giuridica della feudalità. La giustizia
reale avoca a sé i casi più importanti, esegue il diritto di appello,
come si occupa dei problemi militari principali e non circoscritti a una
particolare regione e tradizione conflittuale.
Questa grande macchina di controllo superiore, che nulla muta nei
rapporti sociali e che sembra quasi lievitare da essi pur tra
grandi convulsioni e contraddizioni, è una forma di stato nuova,
aristocratica e paradossalmente antagonista alle esigenze politiche più
genuine dell'aristocrazia. È una forma stato che percorre un'epoca con
la capacità di prefigurarne un'altra, di prepararsi a un'epoca futura.
Non è quindi un caso che a molti storici, Marx storico tra quelli, lo
stato assoluto monarchico sia parso il frutto di un compromesso tra ceto
mercantile e finanziario e corona, in funzione apertamente anti -
aristocratica. In effetti, lo stato monarchico tardo medioevale e
moderno si adatta meglio, con le sue caratteristiche di
centralizzazione, stabilità istituzionale e il suo modo di essere pubblico,
al concetto di potere connaturato con la borghesia che non all'idea di
governo adeguata all'aristocrazia e al suo modo di essere privato.
In parte è vero: dall'aristocrazia e dalle sue istituzioni storiche, la
borghesia eredita solo la grande costruzione statale, tutto il resto
verrà distrutto.
L'opzione borghese, pienamente espressa dopo il XVI secolo, a favore di
uno stato accentrato e centralizzato ci dice moltissimo sugli istinti
politici fondamentali della borghesia.
2. Le grandi rivoluzioni in Inghilterra e Francia
2.1. Difficoltà e arretratezza
2.1.1. La fase rivoluzionaria
Lo Stato accentrato, burocratico, costituito
sul diritto pubblico è ereditato dalla borghesia, poiché risultava
naturalmente funzionale ai suoi interessi, quasi connaturato con quella.
Potrebbe sembrare una contraddizione ed è una grande contraddizione
storica il fatto che fu la forma rivoluzionaria a farsi strumento di
distruzione del potere aristocratico e feudale; sappiamo, però, che le
rivoluzioni borghesi avevano due caratteri nuovi: furono rivoluzioni di
massa e sociali, oltre che politiche.
In realtà lo stato assoluto era uno strumento interessante e
affascinante per la borghesia, la borghesia non sognava di
abbatterlo perché non avrebbe saputo costa istituire al suo posto. La
borghesia del XVII e XVIII secolo scelse la strada rivoluzionaria, o
meglio inventò la rivoluzione e la politica rivoluzionaria, non per
distruggere e disarticolare la forma stato assolutista ma, anzi,
per portare a termine il processo di centralizzazione e
razionalizzazione dei poteri che all'aristocrazia e alla monarchia non
riusciva di completare. Interessante è il caso della rivoluzione
francese che comportò una precisa divisione dipartimentale,
distrettuale, amministrativa e giudiziaria insieme con la
concentrazione, pienamente maturata in epoca giacobina, termidoriana e
consolare, del potere politico, legislativo, esecutivo e militare sul
governo centrale e sulla capitale della nazione francese. La società,
almeno nella rappresentazione politica e ideologica, si concentra e
centralizza sulla capitale dello stato e sul governo che in quella
risiede.
Le tendenze localistiche, che ancora oggi si mantengono (sia pure a
livello formale e quasi folclorico) in Inghilterra, sono, invece, un
retaggio della cultura politica feudale. L'Inghilterra uccise lo
sviluppo dello Stato assoluto feudale durante una fase intermedia del
suo cammino, quando le tendenze particolaristiche e i localismi della
nobiltà non erano ancora stati sconfitti dalla Corona. La nascente
borghesia inglese, così, si trovò davanti un nemico ancora radicato,
istituzionalmente rappresentato e motivato ideologicamente e quindi
dovette affrontare un lungo patteggiamento e fare quello che il re non
aveva ancora iniziato a fare. La potenza economica e politica della
nobiltà, che aveva anche saputo riformarsi avvicinandosi all'economia di
mercato e intervenendo in essa, produsse numerosi relitti istituzionali
che sono eloquentissimi del confronto e della trattativa: primo fra
tutti il mantenimento del bicameralismo. La tendenza di fondo del
seicento inglese, però, è la medesima del settecento francese: la
costruzione di uno Stato accentrato, burocratico e militarista, ben
rappresentata dalla dittatura di Cromwell. Anche in Inghilterra, lo
Stato assoluto degli Stuart, ancora acerbo, andava ampliato, articolato
e rafforzato, senza gli Stuart.
Lo Stato assoluto aristocratico esprimeva, agli occhi della borghesia,
delle qualità e delle potenzialità che andavano sviluppate e portate a
definitiva maturazione storica. Le rivoluzioni borghesi, come al
contrario ci si sarebbe potuto attendere dai loro esordi, tanto in
Inghilterra quanto in Francia, non misero in discussione la necessità di
una organizzazione statale centralizzata, gerarchica e burocratizzata,
che era un obiettivo preciso delle monarchie e di gran parte
dell'aristocrazia, ma anzi richiedevano una versione arricchita,
potenziata, rafforzata e perfezionata dello Stato monarchico
della prima modernità europea. Il perfezionamento passava per l'idea
nazionale, l'idea di nazione che, al contrario, non faceva parte delle
energie costituenti dello Stato monarchico moderno, ma era solo un
elemento secondario e collaterale in quello. Tanto in Inghilterra quanto
in Francia, nella fase critica del processo rivoluzionario, quando lo
scontro tra borghesia e aristocrazia si fa acuto, il nuovo stato
assoluto e centralizzato, lo stato rivoluzionario, trovò istanze e
alleati alla sua stabilizzazione e strutturazione nelle richieste e
nelle esigenze delle classi popolari, nei sanculotti e nei levellers
e da esse trasse linfa vitale per la sua riproduzione, conservazione e
soprattutto per l'accrescimento delle sue competenze sociali ed
economiche.
La campagna di liberazione dai
servaggi e dalle servitù feudali e signorili non fu solo un
portato dei nuovi rapporti di produzione borghesi , ma anche il
risultato di un'operazione di ingegneria sociale e politica:
non potevano più esistere steccati, divisioni e separazioni in seno alla
società che avessero natura ed origini extraeconomiche. Nella società le
divisioni dovevano passare attraverso l'economia, la vita economica
degli individui, ed essere, quindi, considerate e sentite come naturali
e la comunanza che si elevava sopra queste divisioni naturali e
spontanee, non coartate, era altrettanto naturale e spontanea, la
comunanza di lingua e cultura. Questa nuova comunità si elevava al di
sopra di ogni divisione e separazione e le negava attraverso la
sacralità di lingua e cultura comuni, il mistero comune. Lo stato
assoluto nella versione borghese diveniva, quindi, uno stato nazionale e
l'ente preposto non solo, come lo stato assoluto monarchico, a difendere
e ottenere i confini nazionali e naturali ma anche a
preservare la nazionalità, vale a dire la naturalità e spontaneità dello
Stato borghese.
Questa naturalità e spontaneità ha l'aspetto dell'indifferenziato
economico e nelle relazioni sociali. Tutte le figure tipicamente
feudali, vissute come ibride ed ambigue, il fittavolo, il rentier,
il mezzadro, il compartecipante, il proprietario dei mezzi di produzioni
sottoposto a condizioni particolari, le corvees sui
proprietari, il commerciante - commissionante lavoro artigiano,
l'artigiano produttore domestico erano in stridente contrasto
con questa natura spontanea che richiedeva, invece, figure sociali
semplici, astratte e assolute da ogni relazione personale con il potere
produttivo. Le frazioni innumerevoli di società, le centinaia di
sottosocietà e sottosocialità, che contraddistinguevano il mondo e
l'economia feudali dovevano precipitare, almeno tendenzialmente, verso
un rapporto generale e semplificato e verso i due poli opposti generati
dal rapporto di lavoro salariato. Le società feudali, ma insieme con
quelle anche le società classiche, erano strutturate da relazioni di
subordinazione che si intrecciavano con rapporti di coordinazione, le
asimmetrie si coniugavano con simmetrie e affinità, diritti
consuetudinari con diritti di fatto, la nuova società riconosceva un
solo o quantomeno principale e generalizzato rapporto di subordinazione,
che prevedeva una simmetria e affinità altrettanto generalizzate, la
nazionalità.
Non fu, comunque, né rapido né facile, poiché non era, comunque, né
spontaneo né naturale.
Per constatare l'assenza di spontaneità e naturalità in questo processo
storico basta guardare la dittatura bonapartista, la progressiva e
artificiosa concentrazione degli stati regionali in Italia, la Prussia
nella Confederazione tedesca. Immediato, però, è stato il venire fuori
della relazione diretta tra Stato e idea nazionale, che pretendeva di
istituire una altrettanto diretta relazione tra Stato e territorio, una
relazione ideologica: l'esistenza della nazione giustificava ed era
causa dell'esistenza dello Stato. Si oltrepassava l'uniformità delle
autonomie e la loro iscrizione in un tessuto comune che era stata
realizzata dalla Stato assoluto aristocratico; lo Stato assoluto
aristocratico aveva realizzato una catalogazione politica delle realtà e
istituzioni locali. Il referente del nascente Stato rivoluzionario, la
base materiale per la sua realizzazione non era l'aristocrazia, classe
relativamente eterogenea per diritti, esigenze, leggi di casato e usi
familiari, e in parte ancora per lingua e tradizioni culturali, ma
una classe che era omogenea per interessi, valori, lingua, istinti
sociali, usi familiari e tradizioni culturali o che, quantomeno, sentiva
necessaria e inevitabile per sé l'acquisizione di questa omogeneità. Di
qui la creazione di un diritto pubblico ispirato dai valori
dell'unitarietà, che fosse applicabile usando lo stesso metro ad ogni
cittadino. Lo stesso metro giuridico, l'omogeneità giuridica, fa sorgere
il concetto stesso di cittadino.
Il diritto pubblico trionfa nella nuova forma stato della borghesia e ne
diviene la forza costituente, mentre nello Stato assoluto aristocratico
era un elemento tecnico e puramente politico, una sovradeterminazione
intentata da un ente centrale contro svariati enti locali, senza che
però gli enti trovassero una misura comune, un'essenza comune, e
riuscissero a operare con un mezzo che fosse organico per tutte le
parti, per lo Stato centrale e le istituzioni locali, e cioè una
legislazione unitaria.
Lo Stato bonapartista, superando definitivamente l'ancient regime,
portò a completo sviluppo lo Stato assoluto aristocratico superandone la
disorganicità e risolvendo le contraddizioni che lo percorrevano e che
non era in grado di superare, proprio perché erano parte della sua forza
costituente, vecchia di cinque secoli. Non è un caso che la riduzione
del territorio a spazio rigorosamente geografico, da inquadrare con
visione zenitale, da dividere geometricamente o secondo linee
geometriche, ne faceva un'entità razionalmente definibile e definita,
uno spazio oggettivo divisibile amministrativamente secondo esigenze di
ordine politico ed economico (dipartimenti, regioni). Questa riduzione
del territorio a spazio razionale e geometrico eliminava le vecchie
associazioni comitali, i distretti feudali e una visione del territorio
non come spazio geometrico ma come estensione politica, soggettiva, come
spazio soggettivo e faceva sorgere una nuova disciplina, la geografia
moderna, fondata sulla rappresentazione zenitale del territorio, sulla
descrizione delle linee di comunicazione commerciale e di regioni
omogenee per vocazione produttiva.
Analogamente l'estensione dei diritti civili, fu, in verità, una
omologazione di quelli su una dimensione omogenea, e i diritti politici
non furono, in verità, estesi (in Francia, nell' ancient regime
il diritto di rappresentanza era molto più esteso che non nella prima
parte dell'ottocento, tolto il biennio giacobino) ma solo uniformati.
L'uniformità dei diritti civili e politici si modellava su un concetto
geografico, quello di nazione, e qualificava il popolo, come fatto
nazionale, o meglio borghese e nazionale.
Le classi subalterne nell'ancient regime avevano condiviso una
posizione giuridica di soggezione e discriminazione, che non passava
attraverso il discrimine della ricchezza e del possesso ma, come è noto,
della nascita e del rango; questo determinò il fatto che soggetti
sociali diversissimi tra loro si trovassero accomunati nella soggezione
e subalternità giuridica, anche i ceti che economicamente e socialmente
erano divenuti emergenti e dominanti partecipavano con i ceti minori e
svantaggiati a questa discriminazione, non fondata sul possesso e il
danaro. Quando i nuovi ceto forti e dominanti, la nuova
aristocrazia del marco, come la diceva Babeuf, fece la sua
rivoluzione trovò in quasi tutti gli altri ceti non giuridicamente
privilegiati, in molte altre sottosocietà giuridiche, formidabili
alleati. Lo Stato assoluto dell'aristocrazia aveva, tra XVI e XVIII
secolo, causato il sedimento di una micidiale alleanza contro di sé.
Non si trattò di un'alleanza tattica, come moltissimi analisti
ritengono, ma strategica: la borghesia era una classe decisamente
diversa dalla nobiltà e sbagliava Babeuf nel considerarla una nuova
aristocrazia. Lo Stato rivoluzionario della borghesia, ovvero il
completamento e perfezionamento dello Stato assoluto aristocratico, non
ignora affatto, nel suo costituirsi, le classe subalterne dell'ancient
regime, nonostante l'oggettiva restrizione dei diritti politici
della prima metà dell'ottocento europeo.
I diritti civili devono essere comuni, uniformi e i medesimi per tutti,
deve nascere una nuova forma di cittadinanza, estesa a tutti. Lo Stato
aristocratico fondava il suo potere sul terreno del controllo,
stratificazione e parcellizzazione del diritto cioè sulla coercizione
extraeconomica, lo Stato rivoluzionario della borghesia fonda il suo
potere su realtà di fatto, su divisioni effettive, sulla crudezza dei
fatti che le leggi non regolano, sulla crudezza, naturalità e
spontaneità selvaggia dell'economia. I diritti civili sono uniformati e
nella percezione storica estesi perché è su questo terreno,
sul terreno del diritto, che la borghesia poteva scardinare il sistema
economico e di potere feudale.
Ancora, però, di più. I diritti civili sono estesi perché la
borghesia ha bisogno delle classi subalterne, che via via si trasformano
in una nuova classe subalterna, il proletariato, per costruire il potere
territoriale del suo stato, la nazionalità. Come lo Stato assoluto
aristocratico aveva avuto bisogno dell'emergente borghesia, facendola
lavorare come forza di mediazione sociale e politica per la sua
costruzione, così lo Stato rivoluzionario della borghesia ha bisogno del
proletariato, che, in questo caso, si limita, nella sua costituzione,
alla dimensione nazionale. Lo Stato borghese è immediatamente,
spontaneamente e naturalmente nazionalista; usa la lingua filtrata, che
viene trasformata in lingua nazionale, per affermare l'unità delle forze
sociali intorno di sé. L'unità, anzi, è sinonimo di nazione e non
casualmente tutte le carte costituenti dedicano un loro articolo
all'unità e indivisibilità della nazione.
La comunità linguistica e la comunità giuridica, distesa su tutte le
classe e i soggetti sociali, garantita dalla legislazione pubblica e
dall'esercito nazionale rappresenta una comunità di interessi, un
interesse comune e generale. Questa comunità, in realtà, non esiste ed è
solo una rappresentazione ideologica, un'ideologia, ma è un'ideologia
rivoluzionaria che contraddistingue lo stadio rivoluzionario
dello Stato borghese di fine settecento e prima metà dell'ottocento.
2.1.2. La fase restauratrice
Abbandonati i sistemi di controllo e
coercizione feudale, lo Stato borghese nazionale e rivoluzionario si
trova in grossa difficoltà a trovarne altri, che non siano ideologia,
cultura e lingua. In una brevissima fase, le esigenze rivoluzionarie in
Francia comportarono, in epoca giacobina, l'estensione dei diritti
politici, il suffragio universale e addirittura l'assemblearismo di
base. Questa via, però, fu prestissimo abbandonata: il giacobinismo
dimostrò tutti i suoi rischi sociali e lo stato borghese si ritrasse,
proprio come in Inghilterra un secolo prima, su sé stesso, restringendo
la fruizione dei diritti politici a una base della popolazione
addirittura meno ampia di quella che ne fruiva durante l'ancient
regime. L'esercizio dell'autorità politica venne, inoltre,
ristretto ai cittadini che potevano vantare un censo apprezzabile, e si
riaprivano le porte che regolavano l'esercizio del potere, addirittura,
all'aristocrazia, a quella frazione dell'aristocrazia che aveva imparato
ad affermarsi e convivere con l'economia di mercato. Si formò ovunque
una amalgama, un ceto formato da diverse frazioni di classe, dove grandi
banchieri, appaltatori e finanzieri sedevano a fianco dei redditieri
agricoli. A suggellare questo restringimento e rivisitazione del passato
moderno dell'istituzione statuale (il XVI e XVII secolo), si riaffidò
una parte della gestione del potere esecutivo, e della rappresentanza
dell'autorità politica, al re e alla corona.
Fu un compromesso storico tra due strutture di potere oltre che tra
parti significative di due classi sociali dominanti: tra Stato
assolutista aristocratico e Stato rivoluzionario borghese, tra borghesia
finanziaria e aristocrazia redditiera. Questo comportò la costituzione
di una forma stato epocale (valida e influente per quasi tutta la prima
parte del XIX secolo) nella quale, come nello Stato assoluto
aristocratico, si cristallizzava un ceto politico per via di cooptazione
di alcuni scelti ceti economici e, come nello Stato rivoluzionario delle
borghesia, si codificava un diritto pubblico esteso e uniforme.
Fu, ci si permetta il chiasmo, uno stato borghese feudale e uno
stato aristocratico borghese al pari tempo.
Questa forma stato ha predominato in Inghilterra per il XVIII secolo e
in Francia nella prima metà del secolo seguente; in generale tutta
l'Europa fu influenzata da questa forma statuale. Eccezion fatta per gli
Stati Uniti d'America e forse l'Olanda, questa forma divenne normale per
tutta la prima metà del XIX secolo.
Vedendo la cosa sotto un altro aspetto, in Europa lo Stato borghese
nazionale è stato il prodotto di un altro compromesso, un compromesso
giuridico e istituzionale, stipulato tra vecchio Stato assoluto
aristocratico e Stato borghese rivoluzionario e questo ha fatto il
ritardo europeo e l'immenso vantaggio americano sul terreno
istituzionale: negli Stati Uniti, infatti, non era necessaria nessuna
logica compromissoria, sia perché la rivoluzione si era svolta contro
uno Stato borghese nazionale, sia perché i rapporti di produzione
feudali non si erano sviluppati nelle colonie americane.
Non si trattò, però, di provincialismo europeo; le origini del
ritardo non vanno cercate esclusivamente nella resistenza e residualità
di corona e aristocrazia sul vecchio continente. Esiste una motivazione
più generale, che entra a far parte della stessa genetica della nuova
protagonista del potere; la nuova classe dominante, la borghesia, temeva
di non essere capace ed era stata effettivamente incapace (l'esperienza
giacobina o quella dei leveller furono emblematiche in tal
senso) di controllare politicamente le contraddizioni sociali che il suo
stesso sviluppo come classe generava, temeva di non riuscire a dominare
da sola, come nuova protagonista della scena politica, sociale ed
economica, la società. La borghesia amava la novità, nella stessa misura
in cui la temeva. Il dominio politico borghese, il dominio del capitale,
si può realizzare, in forma pura e quindi matura, con strumenti
politici, solo con il coinvolgimento delle classi subalterne o
intermedie in esso, solo attraverso la propaganda ideologica e la
rappresentazione incessante della società davanti a sé stessa, solo
attraverso una incessante propaganda che, però, differenziandosi da
quella che ha caratterizzato le epoche precedente, non deve
apparire come tale, ma come buonsenso, normalità, norma
universale e moralità assoluta.
Questo disegno puro non poté trovare attuazione proprio per
l'arretratezza strutturale della società europea rispetto a quella
americana, per la continua presenza di coercizioni extraeconomiche nelle
campagne e nella manifattura e per le difficoltà che incontrava la
piccola proprietà agraria nel realizzarsi, ma non poté realizzarsi anche
perché lo sviluppo stesso della borghesia rendeva utili al suo sviluppo
la conservazione di alcuni istituti precedenti, come forma per evitare
che lo sviluppo delle forze produttiva potesse trasformarsi in crisi
economica e politica, in anarchia, parola pronunciata, non
casualmente, come sintesi di ogni timore politico nel primo ottocento
europeo.
L'arretratezza dello Stato borghese nazionale in Europa ha, dunque,
molte facce e numerose ambivalenze; ebbe, sostanzialmente, anche dal
punto di vista della nuova classe dominante, ragione di esistere proprio
per una residua utilità dei rapporti di produzione feudali e della
mentalità signorile nelle campagne europee e anche perché il superamento
di quelle forme avrebbe potuto provocare la crisi stessa della borghesia
e del suo nuovo dominio politico. La borghesia per esprimere il dominio
politico doveva rinunciare a parte del dominio sociale.
Questo generò molte contraddizioni perché l'affermarsi di nuove
relazioni e antagonismi sociali, il rapporto di lavoro salariato e
l'embrionale e via via sempre più chiaro antagonismo tra capitale e
lavoro, unito con il persistere di vecchie, da una parte garantiva il
capitale da un eccessivo sviluppo, dai rischi dell'anarchia, ma
sotto un altro punto di vista questa combinazione di contraddizioni, di
epoche diverse dentro la stessa epoca, non rendevano perseguibile e
praticabile un dominio puramente ideologico della società. Per di più, e
questo si verificò tanto nella provinciale Europa quanto
nella modernissima America, gli strumenti sociali e tecnici del nuovo
controllo non si erano ancora sviluppati in maniera soddisfacente,
mancavano ancora precise normazioni sulla produzione, erano indecise le
comunicazioni tra la città e la campagna e le organizzazioni politiche e
ideologiche, le forme stesse di quelle, da articolare sul territorio e
in seno al popolo. Tolta l'ideologia nazionale, alla borghesia
mancavano gli strumenti atti a costituire un blocco sociale e quindi era
costretta a guardare costantemente al passato e non certo al
futuro.
2.2. La restaurazione europea del 1815
Al di là di tutti questi elementi contingenti
ed esogeni, la borghesia del primo ottocento dimostrò di essere legata a
una concezione feudale del potere. La modernità dello Stato borghese
nazionale era arcaica. Non si trattava solo di arretratezza dello
sviluppo economico e sociale della borghesia, ma del fatto che il nuovo
Stato borghese vive in una sudditanza e rispetto ideologici verso lo
Stato assoluto aristocratico e malgrado la nuova forma di stato la
borghesia non amministra, come classe, il potere.
Inoltre, e questo non è un dato contingente ma strutturale, lo Stato
borghese è debitore dello Stato assolutista monarchico per moltissime
istituzioni dell'esecutivo, seppur riadattate alle nuove esigenze
giuridiche e sociali. La borghesia non ha introdotto una rottura
rivoluzionaria con la precedente struttura dello Stato, ma
esclusivamente una rottura politica e si operarono molti aggiustamenti,
rivisitazioni e perfezionamenti su una struttura di potere
distesa sulla centralità e sulla nazionalità, o meglio ben preparata a
quelli. La borghesia, come nel XVIII secolo si poteva ancora pensare,
non si fa propugnatrice di decentramento, federalismo e autonomie
amministrative e rappresentative, ma di centralizzazione e autoritarismo
amministrativo.
L'ideale statuale che emerge nella fase rivoluzionaria della borghesia
spiega la restaurazione del 1815, altrimenti inspiegabile, se non
attraverso un impossibile e anacronistico ritorno allo Stato assoluto
aristocratico hic et nunc.
Alla rivoluzione politica non fece seguito nessuna rivoluzione
istituzionale di eguale spessore e parallelamente nessuna rivoluzione
sociale profonda, cosicché fu possibile, ma forse necessario, che
settori borghesi pensassero a un compromesso in politica e nella
costituzione statuale con l'aristocrazia redditiera. Così, quasi in un dejavu,
la grande finanza, i grandi casati borghesi, si misero nuovamente a
prestare danaro allo Stato, assumendo il ruolo di creditori che era
stato tradizionale durante l'antico regime, mentre la borghesia
produttiva, gli imprenditori, venne emarginata dalla gestione dello
Stato. Il cuore della nuova classe è escluso dal potere sia perché non è
ancora così forte da egemonizzarne la rappresentanza, sia perché si
teme, in ragione delle paure intorno alla crisi e all'anarchia,
di vedere chiaramente rappresentata politicamente la natura selvaggia
della nuova economia. Si stese un pietoso velo sulla nuova realtà
sociale ed economica. La borghesia continuava ad avere timore di sé
stessa.
La borghesia produttiva, però, si sviluppava fino al punto di dare luogo
ad autentici conflitti di classe di tipo nuovo, ma ostracismo
ideologico, volontà di mistificare e occultare il cuore del processo
storico e un relativo e innegabile peso specifico basso del cuore della
nuova classe, all'interno della sua stessa classe, le impedirono di
organizzarsi per poter intervenire direttamente sul potere politico; a
completare questo quadro che favoriva la restaurazione del 1815, la
piccola borghesia, gli artigiani, i negozianti, i proprietari agricoli,
i contadini e la massa rurale europea in genere continuava a venir
esclusa da ogni rappresentanza, in ragione dei modernissimi sbarramenti
censitari, e diveniva una classe estremamente instabile e turbolenta, in
lotta contro la concentrazione e concorrenza capitalista, quanto contro
le sopravvivenze feudali e signorili, minacciata su due fronti. La
piccola borghesia produttiva, urbana e rurale, era molto lontana dal
riconoscersi nel progetto statale apparentemente ibrido, nel quale
banchieri e grandi proprietari terrieri governavano.
Si manifestò l'assenza di un blocco sociale che avesse basi popolari e
di massa, questione che aveva dominato anche la fase rivoluzionaria
della borghesia e del suo Stato e che era stato provvisoriamente risolta
dai giacobini, con il rischio dell'estensione della rappresentanza, con
il rischio dell'anarchia. Lo Stato borghese, infatti, (e questa
sua natura e tendenza naturale venne incarnata e prefigurata dalla breve
esperienza giacobina e della convenzione) è portato dalle sue stesse
forze costituenti ad allargare la sua presenza e le sue competenze
giuridiche, legislative, militari e poliziesche in ogni settore del
vivere associato, a sottoporlo a una norma generale, in
perfetta analogia con l'ancient regime, ma, al contrario di
quello, rivendica e istituisce un'autorità diretta, non schermata. Per
fare questo ha bisogno di un consenso sociale altrettanto diretto. Non
poteva avvenire nel 1815 e nei suoi dintorni. Lo Stato borghese
nazionale e sempre monarchico era una prosecuzione e perpetuazione di un
potere esterno alla società, che trovava la sua giustificazione e
legittimità al di fuori di quella, anche se la struttura di questa
legittimità non poteva più risiedere in una trascendenza divina,
assoluta, ma in una trascendenza relativizzata, una volontà divina che
si inverava nella storia.
La riscoperta del re e della Corona è il prodotto di questa nuova
trascendenza del potere politico, il re è il popolo, l'incarnazione
della sua decisionalità; il monarca è la personificazione della coesione
nazionale: da re di Francia a re dei Francesi e di Francia. Il binomio
stabilito tra trono e altare, che ha fatto leggere la restaurazione come
una revanche medioevale, fu esattamente il contrario di una revanche,
fu, invece, la secolarizzazione incipiente del potere statale. Si
secolarizzava Dio, non si divinizzava lo Stato.
Una serie infinita di fattori spinse le borghesie europee a scegliere di
costruire uno stato neo monarchico e neo aristocratico, una monarchia
costituzionale a rappresentanza ristretta su base censuale.
Questo avvenne, anche se in maniere diverse, in Italia, dove, pure, non
si era manifestato il fenomeno insurrezionale francese o inglese. Le
monarchie sabauda e fiorentina, mantenendo caratteri assolutistici ed
escludendo istituzionalmente la rappresentanza, fanno testimonianza di
questo compromesso che è dettato dalla Corona, su posizioni di assoluta
forza. Uno stato di diritto pubblico di derivazione francese influenza
le istituzioni in Prussia e in Austria, ma anche qui l'assoluta
preminenza della Corona manifesta l'impero asburgico e il regno
prussiano come naturali prosecuzioni dello Stato assoluto dell'antico
regime.
Questo dimostra ancora di più che, in quella fase storica, la nuova
borghesia e l'aristocrazia, Stato nazionale borghese e Stato assoluto
aristocratico fossero e siano stati estremamente vicini: alla potenza e
apparente arbitrio del monarca si oppone un'amministrazione pubblica
regolata da leggi generali, alla dinastia regnante fa riscontro il
territorio e il popolo nazionale, l'esercito, pur rimanendo volontario,
usa reclute nazionali e raramente ricorre a mercenari stranieri.
Si trattava, ribadisco, di un ibrido, del compromesso
provvisorio tra due classi dominanti, o meglio due settori di classi
dominanti, che trovarono nel re e nella religione organizzata gli
strumenti più efficaci, anche se provvisori, per creare e organizzare
consenso, per organizzare l'ideologia del potere statale. Fu, comunque,
una grande novità, malgrado l'apparente arretratezza restauratrice,
perché, per la prima volta, con coscienza, con analisi cinica, si
utilizzava la religione e il divino come strumento di controllo sociale,
come ideologia politica; la religione e i parametri religiosi divennero
il termometro della situazione sociale, un misuratore, e anche un
riferimento costante per l'immanenza. Anche per questo aspetto la
restaurazione fu un nuovo modo di usare vecchie cose.
Questa concezione dello Stato era molto lontana dall'essere espressione
diretta di un dominio di classe che fosse organico (cioè una parte
costitutiva, una frazione della sua essenza) del dominio di classe della
borghesia.
Fu un processo curioso: mentre la borghesia aveva, in verità, trovato
una omogeneità di vedute politiche e istituzionali durante l'antico
stato di cose, e questa omogeneità aveva riguardato anche la cultura, le
tradizioni, gli usi familiari e finanche il modo di vestire, insomma gli
stili di vita nella loro accezione più ampia, anche grazie al fatto che
era sottoposta alla medesima discriminazione, allo stesso inquadramento
giuridico, ora, invece, si diversificava politicamente e anche
culturalmente secondo settori sociali. Con schematismo si potrebbe dire
che ad alcuni settori sociali del fronte borghese corrispondevano
altrettanti, e facilmente individuabili, settori politici.
L'omogeneità politica che il fronte borghese aveva sperimentato durante
lo Stato assoluto aristocratico si rompeva e, in realtà, si era spezzata
già all'indomani dell'insurrezione inglese o francese. Tutto questo
dipendeva proprio dal fatto che questa nuova classe sociale non sapeva
forgiare gli strumenti adeguati al controllo e dominio della società,
strumenti che avessero la stessa presa della coazione feudale e delle
sue norme personalizzate. Venne fuori, come scritto, una paura, o per
dirla con Marx, parafrasando e interpretando metaforicamente una sua
famosissima espressione, uno spettro o un fantasma (che si aggirerà in
Europa qualche decennio più tardi), quello del vuoto di potere
o della debolezza del potere. Il timore di non riuscire a
governare da sola, con i mezzi ideologici che le appartenevano e le
erano connaturati, la società divenne un'ansia genetica della borghesia,
un'angoscia che si porterà dietro per tutta la sua storia: mai una
classe ha sperimentato soluzioni istituzionali così differenti tra loro
(democrazia oligarchica, democrazia di massa, dittatura populista,
monarchia costituzionale, dittatura militare) nell'esprimere il suo
dominio, segno inequivocabile di quest'ansia e angoscia. La spiccata
tendenza allo statalismo, alla concentrazione massima dei poteri e delle
decisioni, alla programmazione centralizzata, che ha sempre
contraddistinto la sua storia istituzionale, sono l'espressione di
quest'ansia genetica.
Dopo aver liberato le forze produttive dal diritto coercitivo,
distintivo dell'epoca classica e medioevale, dopo avere, cioè,
smascherato e rivelato la reale natura dei rapporti sociali basati sul
comando del lavoro altrui, in termini puri e semplici, insomma come
tali, in quale maniera, ora, ricodificare credibilmente la vita
sociale senza metterli in discussione?
Basteranno gli assiomi derivanti dalla necessità e naturalità del
profitto per giustificare l'assoggettamento e lo sfruttamento del lavoro
altrui? Se la proprietà privata non dipende da un'investitura superiore
e neppure dalla naturalità delle relazioni (due cose che si assomigliano
tra loro anche se apparentemente antitetiche) e neppure, infine, da una
serie di consuetudini accettate dalle parti e realizzate attraverso
relazioni personalizzate e antropologiche, ma dipende da una
possibilità che sta al di fuori dell'uomo, una possibilità astratta, una
possibilità economica, allora il diritto di proprietà ha in sé il
proprio inizio e la propria fine, una sua compiutezza e perfezione alla
quale, però, è difficile trovare una giustificazione e soprattutto sulla
quale è difficile edificare un sistema sociale e politico.
L'unica giustificazione del capitalismo è l'esistenza stessa del
capitalismo, alfa e omega, ancora una volta.
È così, allora, che la borghesia della prima metà del XIX secolo ritrovò
nel re e anche nell'aristocrazia una copertura (certamente
scomoda e problematica nella contingenza storica) al suo autentico
potere. La borghesia come classe affidò e affittò lo Stato borghese
nazionale ai relitti aristocratici e a una casta finanziaria interna.
C'era un'alternativa, ovviamente, quella indicata dai giacobini tra il
1792 e il 1794: rendere il numero dei proprietari, anche infimi, il più
numeroso possibile, fare della proprietà un bene diffuso, e si avrà una
serenità sociale e politica generale e si potranno fondare istituzioni
basate sulla rappresentanza universale. Era compito impossibile, una
vera utopia, almeno per le risorse tecniche e informative dell'epoca,
oltre che per la contingenza politica, vale a dire la congiuntura
sociologica che toccava l'epoca: combattere i relitti signorili e
feudali nelle campagne, liberando la proprietà contadina e
contemporaneamente limitare il progresso del modo di produzione di
fabbrica nella manifattura. Si sarebbe delineata una combinazione di
interessi contrapposti ingovernabile.
Durante e nei pressi del 1815, incontriamo una evidentissima aporia
storica.
3. La grande aporia del primo '800
3.1. Dal 1815 al 1871
3.1.1. I moti del primo ottocento e
lo Stato bonapartista
Le rivoluzioni politiche, i movimenti
insurrezionali e in generale i moti percorsero tutta
l'Europa nella prima parte del secolo. In Inghilterra, in particolare,
si espressero il primo movimento operaio organizzato, le prime
insurrezioni nelle fabbriche, il movimento per la riforma agraria e per
il suffragio universale, ma altre espressioni di inquietudine sociale e
politica vennero fuori in Francia, Austria, Prussia, Italia e Spagna.
Tutto questo complesso e inedito alla storia di forme organizzative,
tecniche associative e azione politica proposero risposte diversificate
a questa aporia.
Per Inghilterra e Francia il problema era spostato più avanti che nel
resto d'Europa, ma va ribadito che il problema era ovunque, nella
sostanza, il medesimo; i moti europei (questa indeterminatezza
del termine viene utile) vedono i proletari, la nuova e in larga parte
embrionale classe subalterna, giocare un ruolo politico indipendente e,
quindi, più grande divenne l'esigenza per la borghesia, la nuova e in
larga parte anch'essa embrionale classe dominante, di risolvere il
problema del potere e dell'amministrazione del potere, poiché era in
vista un pericolo che non proveniva dal passato, dalle resistenze della
società feudale e signorile, ma dal futuro, cioè dal suo stesso sviluppo
e rafforzamento.
La borghesia deve trovare una maggiore omogeneità politica, superando le
spaccature esistenti tra rendita fondiaria, rendita finanziaria e
imprenditoria, e costruire in funzione di questa unità interna un blocco
sociale che le consenta di costituire il suo Stato politico.
La dittatura del secondo Bonaparte, prodotto illegittimo delle vicende
del 48 francese, fu un esempio di questa unità perseguibile e in
quel caso realizzata. L'aristocrazia, nel secondo bonapartismo, è
definitivamente battuta, accantonata come un alleato scomodo ieri e
inutile oggi, si è elevata, infatti, agli onori della politica e della
rappresentanza istituzionale la sua tradizionale antagonista e
avversaria, la piccola proprietà di campagna, la massa di contadini
francesi che avevano votato Bonaparte anche perché dovevano al primo
Bonaparte e alla rivoluzione del 1792 il pieno possesso delle loro
terre. Attraverso la dittatura del secondo Bonaparte, la borghesia
francese e non solo quella francese avevano scoperto il loro alleato
naturale per quella particolare fase del loro sviluppo: la piccola
borghesia campagnola.
Era uno stato borghese, il primo Stato borghese della Francia,
realizzato nel 1851. Esso conserva i caratteri formali dell'istituto
monarchico: c'è un imperatore, il potere esecutivo è ancora concentrato
in una figura titolata. C'è, ancora, la borghesia finanziaria e i grandi
banchieri che mantengono un ruolo egemone su tutta la classe borghese.
C'è, ancora, un compromesso di potere al quale la borghesia, presa nel
suo insieme e intesa come classe, è costretta verso una componente a lei
estranea: la borghesia non esercita il potere esecutivo che è esercitato
dal militarismo bonapartista. La borghesia accettò questo compromesso
perché, per la particolare situazione storica della Francia, solo il
carisma di Bonaparte le avrebbe potuto offrire, davvero su un piatto
d'argento, l'alleanza politica con le masse contadine insieme con la
loro fiducia e il loro consenso. Fu una dittatura basata sul consenso di
massa, su un plebiscito, appunto, negli aspetti formali che
combaciavano, però, perfettamente con la sostanza di un blocco
sociale che legava tutti i possessori dei mezzi di produzione, un
blocco interclassista antelitteram; questo blocco sociale
veniva rappresentato per interposta persona, per
rappresentazione monarchica, militarista e imperialista.
Certamente l'esperienza francese denuncia l'arretratezza della
borghesia, almeno di quella europea, rispetto ai suoi obiettivi ma la
definizione del blocco interclassista intorno alla monarchia di
Napoleone III manifesta, al contempo, una novità profonda, una nuova
immagine della politica e, nonostante tutto, del potere politico e dello
Stato. Per la prima volta la borghesia poteva elaborare e pubblicizzare
le sue ideologie preferite: l'idea di nazione, lo Stato come istituzione
nazionale e rappresentativa del popolo nazionale, il culto della
proprietà la cui legittimità si fonda sul lavoro speso per acquisirla,
l'etica familiare, la famiglia nucleare e ristretta. I cardini della
propaganda politica e del moralismo politico dello Stato borghese della
seconda metà dell'ottocento furono cuciti sulla misura dell'abito dei
contadini proprietari, liberati da una o due generazioni dalla
legislazione feudale e signorile.
Alcuni elementi della seconda epoca bonapartista, che alcuni storici,
anche marxisti, hanno considerato arretrati e relitti delle epoche
precedenti, sono al contrario nuovi e progressivi e manifestano
l'essenza e i meccanismi (anche se espressi in forme vecchie) del nuovo
potere. Le tecniche assolutiste, che il potere di Napoleone III recupera
dal passato, descrivono, in realtà, la coazione verso un nuovo
assolutismo politico e statuale, del tutto estraneo a quello
aristocratico. Se è certamente vero che i parroci e i curati continuano
a funzionare nella campagne, nel grande serbatoio di consenso sociale e
politico dello Stato bonapartista, come agenti politici del governo,
strumenti di propaganda, è anche vero che la natura principalmente laica
dell'ideologia del nuovo potere mobilita schiere di notabili, avvocati,
medici e uomini di cultura bassa e media in questa operazione e in
questo meccanismo. Si diffonde una pioggia culturale che, senza entrare
in aperta contraddizione con la fede e la religione, anzi appoggiandola
come necessaria e utile, semina i nuovi valori nazionali e una nuova
etica e moralità laiche e autonome. L'ideologia borghese per le masse
deve trovare la giustificazione in sé stessa, la legittimità nella sua
stessa legittimità e non rimandare a cause eteronome.
Il blocco sociale della Francia del secondo Bonaparte ebbe un cemento
laico e nuovo: ebbe l'ideologia politica. Sotto questo e molti altri
aspetti, dopo la sconfitta della rivoluzione del 1848 e attraverso il
colpo di Stato di Napoleone III del 1851, il sogno giacobino si è
realizzato.
La dittatura politica borghese, anche nella forma anomala,
particolare e per certi versi provinciale di Napoleone III Bonaparte, ha
una caratteristica costante: riesce a solidarizzare intorno a sé la
piccola proprietà. Questo è sempre avvenuto, anche se in forme
completamente diverse, nella dittatura giacobina, bonapartista, nel
fascismo e nel nazismo.
La dittatura di Napoleone III è stata un'esperienza importantissima per
lo sviluppo politico della borghesia e del suo Stato. Lo Stato, la sua
autorità politica, non solo inizia ad articolarsi nella società, ma
tende a essere rappresentativo della società e a costruire la società:
lo Stato della borghesia registra quello che produce, è la registrazione
del suo stesso movimento nella società e degli effetti di questo
movimento nella società. La tendenza alla dittatura, una dittatura
espressa con strumenti di massa, è stata genetica e originaria nello
Stato borghese; l'ideologia politica, intesa come categoria che riguarda
i massimi sistemi per influenzare i piccoli, che scrive di nazione per
organizzare e definire la famiglia, e che trova legittimità in sé stessa
e nel suo stesso discorso, è uno strumento per definizione integralista:
l'ideologia politica tende a spiegare tutto, ad essere assoluta. Si
conforma una idea completamente diversa di assolutismo.
3.1.2. Il caso inglese
Nello stesso periodo in Inghilterra, anzi
qualche decennio prima, lo Stato iniziò a interessarsi e ad intervenire
sul nuovo conflitto tra capitale e lavoro, in forme differenti:
dall'aggiornamento della giurisprudenza in funzione del contrasto delle
nuove forme di insubordinazione (famosissimo il decreto della pena
capitale per gli operai che danneggiavano volontariamente le macchine
delle officine, le leggi contro gli scioperi) ma anche con i primi passi
verso la definizione di spazi sociali di mediazione (significativo il
riconoscimento della legalità delle trade unions del 1825).
Nella fase borghese neofeudale lo Stato viveva il
rapporto con la nuova classe subalterna, il proletariato urbano, in
maniera essenzialmente repressiva e questo rimarrà un atteggiamento e un
modo di fare costante per il nuovo ordine sociopolitico sino
agli anni settanta del XIX secolo; questo modo di fare fu prima
abbandonato in Inghilterra dove si iniziò a riconoscere giuridicamente
l'esistenza della classe operaia nelle sue espressioni più organizzate,
nelle sue forme di associazione economica, anticipando largamente i
tempi. L'organizzazione della classe operaia diviene rapidamente, agli
occhi del capitale, un male, certamente, ma un male endemico e
inevitabile che va dunque inserito in un contesto giuridico, va
sistemato e, in un certo senso, garantito. Fino a che la nuova classe
subalterna e antagonista si esprime in forme compatibili con
l'esistenza del sistema capitalistico, e queste sono le forme sindacali
che si stanno sviluppando in Inghilterra, e gli obiettivi delle
rivendicazioni operaie rimangono vincolate a minimi economici e non
mettono in discussione il comando sulla produzione, allora questa nuova
classe va rispettata e compresa, conosciuta e studiata. Il
rispetto, la comprensione, lo studio e la conoscenza della classe
operaia hanno la funzione di non vedere radicalizzato lo scontro di
classe, ma di conoscerlo in tutta la sua estensione e di isolarne, per
colpirli, i picchi più alti, là dove si intravede un altro studio
e un'altra conoscenza, diametralmente opposta a quella del capitale.
Il capitalismo inglese si rese conto molto prima degli altri che
l'antagonismo proletario era fenomeno talmente connaturato alla nuova
società che era impossibile sradicarlo ed era necessario il suo
inserimento in un sistema giuridico; questo sistema giuridico faceva
certamente riferimento alla storia precedente e al mondo delle
corporazioni medioevali, quindi al passato appena abrogato, ma era di
nuova concezione poiché si riduceva, anzi doveva ridursi, ad
amministrare la contrattazione economica, il valore del lavoro
salariato, evitando ogni altra proiezione sul vivere associato. Questo
furono le trade unions, in pochissime parole. Gli
interessi operai, o meglio una parte di quelli, e gli interessi di
controllo borghese trovarono un punto di convergenza nella struttura
sindacale. Le lotte proletarie dovevano mantenersi nel solco
delle compatibilità con il sistema di fabbrica, rimanere lotte interne
alla fabbrica, mentre gli interessi borghesi dovevano limitarsi in
funzione del recupero e della codificazione contrattata dei rapporti di
sfruttamento: le due classi dovevano trovare e riconoscere unanimemente
un limite nell'altra. La nuova struttura associativa della classe
subalterna, l'organizzazione sindacale, nacque come elemento di
mediazione degli uni e degli altri interessi e quindi non nacque per
esprimere gli interessi degli uni e degli altri in forma chimicamente
pura: di fronte alla manifestazione della loro purezza chimica
l'organizzazione sindacale perde di senso e scompare.
In Inghilterra la borghesia riconobbe l'esistenza di un altro da sé,
della sua negazione con la quale era necessario scendere a patti. Esisteva,
quindi, un non - potere, un confine che delimitava il terreno della
potenza dell'imprenditore nella nuova forma produttiva, nella fabbrica.
La legislazione sociale inglese circoscrive il problema alla fabbrica ed
esorcizza ogni forma di critica che travalichi la fabbrica, ogni disegno
sovversivo globale e cercava di condurre in fabbrica il conflitto tra
capitale e lavoro. Divenne a tutti abbastanza chiaro che il nazionalismo
e il familismo se funzionavano per solidarizzare la piccola proprietà
contadina intorno alla nuova forma di Stato, non erano sufficienti a
generare consenso tra gli artigiani espropriati della proprietà dei
mezzi del lavoro o dei nuovi artigiani inseriti nel lavoro di
fabbrica, tra la forza lavoro priva di investimenti e autonomia sulla
produzione. Era necessario concedere alla nuova classe spazio e potere
su un terreno meno ideologico e assolutamente più concreto: bisognava,
quindi, concedere spazio e potere sul terreno della contrattazione dei
salari e del reddito, usando in
questo commercio il crudo linguaggio dell'economia e della
proprietà privata dei mezzi di produzione. Il profitto, principale
obiettivo imprenditoriale, in Inghilterra divenne prodotto non
automatico della produzione ma risultato di una mediazione, di un
compromesso tra esigenze materiali contrapposte.
L'aporia, che venne superata in qualche maniera dallo Stato
del secondo Bonaparte in Francia, si mantenne in Inghilterra ma
presentandosi in forma davvero nuova. In Inghilterra, la forma del
dominio borghese smaschera sé stessa, si rivela a tutta la società
e necessariamente comporta una composizione della borghesia come classe:
il capitale finanziario e quello produttivo, la rendita e la produzione,
le banche e la manifattura, si vengono incontro e costituiscono
un'alleanza.
Lo Stato borghese non deve affrontare limiti imposti al suo sviluppo
da un'altra classe dominante, come aveva dovuto fare lo Stato assoluto
dell'aristocrazia, con la quale può comunque iniziare una relazione di
collaborazione nella gestione del dominio, ma deve affrontare un
impedimento, una non - collaborazione, una negazione di sé. Esso
si adopererà per contenere e sterilizzare questo nuovo elemento.
Per contenere e sterilizzare questo altro da sé, lo Stato borghese deve
compiere ai massimi termini l'accentramento avviato dalla precedente
forma Stato e al contempo articolare fino all'impensabile le strutture
del suo potere, diramarle sul territorio, invadere le località e la
nazione. Lo Stato borghese ha bisogno di istituire strutture che
garantiscano l'egemonia politica e culturale della borghesia, non tanto
come borghesia, come complesso di individui, ma come logica astratta,
come morale economica, come capitale. La borghesia e il suo
Stato devono affermare l'egemonia culturale e politica del capitale
sulle classi subalterne, devono teorizzare l'astrattezza del potere e la
sua naturalità, proprio in ragione di questa astrattezza.
Questi erano ormai i problemi in Inghilterra, dove lo Stato della
borghesia si trovava faccia a faccia con l'emergenza della lotta, spesso
selvaggia, degli operai e dei proletari urbani, raramente ideologizzata,
ma cinica e brutale come quella del suo antagonista. Il nuovo Stato si
sente assediato dalla nuova e magmatica classe e non ha a disposizione
alcun codice credibile per disciplinarne i comportamenti, se non la
legge astratta del mercato, se non l'affermazione del capitale, quindi
nessun codice. Si rimpiansero i codici personalizzata dell'epoca
precedente, il medioevo come epoca di una genuina umanità e,
naturalmente, ordinata. Gran parte del decadentismo dell'ottocento si
legò a questa mitologia nostalgica. In termini di contingente ideologia
politica, invece, la borghesia e il suo Stato, anche negli aspetti
istituzionali, legarono sè stesse alla intangibilità della corona, alla
dinastia dei Tudor, alla personificazione della storia della nazione.
Insomma i bei tempi andati, dove il rispetto reciproco e l'armonia
sociale prevalevano sugli interessi materiali, e persino le jacquerie,
orrore di quei tempi, divenivano memorie accettabili, contro il
terribile cinismo delle rivolte del presente.
La monarchia costituzionale inglese, associata al modo di fare delle
classi egemoni, allo stile di vita rarefatto, esorcizzava la realtà del
nuovo dominio che non trovava codici e, alla fine, seppur ne aveva, non
trovava ideologie socialmente permeanti.
Abbiamo veduto l'emergere del proletariato urbano in
Inghilterra e in Francia come un elemento non facilmente inquadrabile
storicamente nelle prospettive della borghesia e nel suo Stato, qualcosa
che richiede un'ulteriore trasformazione dello Stato ereditato
dall'antico regime, che richiede la sua trasformazione in una struttura
sociale e fondata sul consenso di massa. Questo nuovo soggetto sociale,
l'operaio di fabbrica, diviene un limite costante al nuovo potere che
non può esprimersi secondo le forme assolutistiche del passato; lo Stato
borghese è costretto a rinunciare a una delle prerogative tradizionali
dello Stato assoluto aristocratico, quella dell'assolutezza del suo
potere, precisamente come la nuova proprietà dei mezzi di produzione è
costretta a riconoscere un limite alla sua affermazione.
Non è una completa novità: nel XIII e XIV secolo, in Italia fin dal XII,
ad esempio, lo Stato assoluto aristocratico e le realtà comunali, le
città, iniziarono a parlarsi come istituzioni se non contrapposte
parallele. Lo Stato monarchico, in quell'epoca, aveva inquadrato nel
tessuto di relazioni feudali e signorili, alle quali sovrintendeva,
molte realtà municipali, che rivendicavano autonomie giuridiche,
ovviamente di tipo feudale. Queste autonomie, quindi, non si
manifestarono immediatamente e naturalmente come negazione del potere
aristocratico ma come prodotto interno di quello e come suo
completamento locale e localistico.
Certamente, secondo un processo analizzato da Marx, in quell'epoca la
nascente borghesia commerciale e finanziaria fu incentivata a
conquistarsi un ruolo stabile nello Stato aristocratico e monarchico e
spesso assunse concretamente, attraverso suoi rappresentanti e membri,
il ruolo di promuovere lo sviluppo e la razionalizzazione dell'apparato
amministrativo assolutistico. Questo ruolo tradizionale fu rinnovato, in
maniera rivoluzionaria, nel XVII e XVIII secolo, spingendo verso la
rottura della collaborazione tra borghesia finanziaria e alta nobiltà e,
infine, nel XIX secolo, verso la composizione politica della borghesia
in un'unica classe. In Inghilterra, nonostante gli stili politici
rarefatti e tradizionalisti, questa composizione si realizzò già nella
prima parte del secolo, in Francia è ancora la finanza e la banca a
mantenere l'asse principale nelle relazioni con Napoleone III.
3.1.3. L'Italia
In Italia il 1848 significò Stato borghese neofeudale,
ma solo in Piemonte il 1848 sopravvisse a sé stesso. Nella
sostanza solo nella monarchia sabauda si realizzò il compromesso,
peraltro in maniera estremamente timida, tra Stato assoluto
aristocratico, che anche qui da decenni aveva adottato il diritto
pubblico e gran parte della legislazione napoleonica, e le nuove istanze
della borghesia. Fu il cosiddetto costituzionalismo 48esco:
vale a dire lo Statuto albertino.
Posto a mezza strada tra consiglio del re e parlamento censitario, il
parlamentarismo sabaudo nasceva sull'aggressività verso l'Austria e
sulla retorica nazionalista del Piemonte. Il nazionalismo piemontese non
era, però, un nazionalismo borghese, ma un nazionalismo dinastico, il
nazionalismo di casa Savoia. Il nazionalismo sabaudo, infatti, non
divenne un nazionalismo italiano ma si alleò con quello.
Il Piemonte, nonostante l'apparente progressività, era molto indietro
rispetto alle coeve monarchie francese e inglese.
Lo Stato sabaudo è uno Stato dinastico, di diretta fondazione
medioevale; è uno Stato di diritto pubblico ed è uno Stato dove i
diritti di produzione feudali sono in estinzione ma dove è la proprietà
fondiaria a rappresentare egemonicamente la nuova forma assunta dalla
proprietà privata. In Piemonte, come del resto in quasi tutto il resto
d'Italia (eccezion fatta per la Lombardia asburgica e il napoletano
borbonico), non esisteva la borghesia produttiva, la borghesia
industriale. Il pensiero borghese, il pensiero moderno, trova
referenti, tanto in Piemonte che nel resto d'Italia, nella piccola
borghesia delle professioni liberali e dei commercianti ed è,
inevitabilmente, esogeno, importato, da dove (Francia e Inghilterra) i
rapporti di produzione capitalistici si sono già affermati. In generale,
il pensiero moderno italiano del 1848 converge secondo declinazioni
diverse (federalismo clericale o laico, centralismo clericale o laico, o
l'idea di una confederazione nazionali di Stati regionali) sull'esigenza
dell'unità politica italiana, un disegno che recupera la geopolitica
napoleonica e più lontane aspirazioni di epoca preindustriale.
Questo disegno nazionale divenne interessante per il nazionalismo
dinastico sabaudo. La forma Stato era quello di una monarchia
costituzionale sotto la dinastia regnante in Piemonte e la posta in
gioco l'unità commerciale della penisola. Nel caso italiano fu la
monarchia sabauda e i suoi emissari a sostituirsi in più punti alla
forza e alla determinazione di una borghesia nazionale che,
effettivamente, se non esisteva proprio era appena in embrione.
Il caso piemontese e italiano dimostra quanto sia elastico il
rapporto storico tra assolutismo e borghesia. Nella fattispecie il
compromesso fu raggiunto proprio per l'arretratezza della borghesia
italiana, malformata e disomogeneamente distribuita sul territorio
nazionale, oggettivamente incapace di organizzare un movimento nazionale
nel senso pieno del termine, tanto che l'unità nazionale in Italia venne
raggiunta attraverso le baionette dell'esercito sabaudo e grazie a un
quadro internazionale favorevole a questa impresa. Proprio per come era
stata realizzata, l'unità nazionale favorì subito gli interessi
espansionistici ed egemonici della seppur debole borghesia del
settentrione del paese.
Il prolungato regionalismo italiano, sorto nel cuore del medioevo, fece
sì che si venissero a creare delle situazioni di sviluppo diverse da
regione e regione, e che le guerre di indipendenza del 1848 - 9 e del
1859 - 1860 possono essere anche interpretate come autentiche guerre di
aggressione della borghesia del settentrione contro tutte le altre
strutture di potere economico presenti nella penisola. Inevitabilmente
quella borghesia si trovò del tutto legata agli interessi dinastici di
casa Savoia.
Via, via, si manifestarono contraddizioni, anche grandi, all'interno di
questo blocco politico, basterebbe pensare ai garibaldini e alla
questione romana, ma si trattava soprattutto di contraddizioni
introdotte da una frazione della classe borghese del nord dell'Italia,
dalla piccola borghesia commerciante e artigiana, che divenne
repubblicana, ed era ancora molto lontana dal riconoscersi nelle
tattiche e nelle strategie della grande rendita agraria e finanziaria
che dominava il movimento della borghesia. Quasi tutto il fronte,
inoltre, era dominato da culture e stili produttivi preindustriali.
Dunque mentre in Inghilterra e in Francia la piccola borghesia aveva
cessato di avere una funzione propulsiva e rivoluzionaria, in Italia
accadeva il contrario. Tante battaglie parlamentari che seguirono il
1861 dimostrano questo e il rifiuto reiterato di riconoscere la
monarchia divenne motivo costante dell'opposizione democratica.
Su tutto altro schieramento la grande borghesia finanziaria concedeva al
re gran parte del potere, simile a quello di cui godevano i reali di
Francia prima della rivoluzione del 1848, mentre, allora, si sedimentava
un movimento opposto, un'opposizione che si collocava ai margini della
legalità e della cittadella politica, repubblicana. Questo determinò
negli anni sessanta, settanta e ottanta un'instabilità politica
abbastanza alta e un fenomeno abbastanza originale, in gran parte
italiano, ma che riguardò altri paesi mediterranei e dove il
proletariato urbano era estremamente debole e minoritario e il mondo
delle campagne governava le problematiche sociali ed economiche.
Mentre in Francia e in Inghilterra la comparsa dell'antagonismo
proletario aveva provocato la tendenza alla coagulazione di tutte le
frazioni della classe borghese e insieme con quelle anche della piccola
borghesia produttiva, commerciante e proprietaria, che accompagnata
all'indebolimento del suo ruolo socio - economico, aveva diminuito, se
non azzerato, la capacità di quella di esprimersi in maniera
indipendente e di progettare il governo della società, in Italia la
comparsa delle prime lotte operaie (negli anni '60 e '70) si coniugò con
la presenza di una piccola borghesia intellettuale e produttiva ancora
vispa e robusta (garibaldina come si diceva allora). L'alleanza
tra garibaldini e emergenti istituti organizzativi operai fu
abbastanza naturale: fu di allora la diffusione del pensiero mazziniano,
ma anche di quello anarchico, che ebbero la funzione, secondo
sensibilità diverse, di cementare ideologicamente questa alleanza.
Fu una situazione analoga a quella francese prima della rivoluzione del
1848, anche se l'analogia è in gran parte apparente, perché la piccola
borghesia italiana rimase, per tutta la seconda parte dell'ottocento,
una classe molto potente, capace di sedimentare un'organizzazione
partitica e una forte influenza culturale, insomma un progetto politico
generale.
Ecco perché, allora, la grande finanza e anche l'emergente strato
imprenditoriale della borghesia italiana si appoggiò stabilmente alla
figura del re e alle prerogative costituzionali della monarchia. La
monarchia sabauda venne nazionalizzata, estesa alla nuova e
disomogenea nazione, attraverso le prefetture strettamente controllate
dall'esecutivo e dal monarca. A rinforzare questo quadro di forte
collaborazione tra monarchia e alta borghesia italiana venne la
modernizzazione del paese, e cioè le opere volte a creare infrastrutture
produttive.
Fu una soluzione italiana all'aporia storica che contraddistingue gli
inizi del potere e dello Stato borghese: un nucleo di proprietari
fondiari, soprattutto del mezzogiorno, e un nucleo di grandi finanzieri
e banchieri trovarono un compromesso per mantenere il vecchio nel nuovo.
La società politica italiana è, fino al 1876, estremamente ristretta, il
diritto di voto limitatissimo: la borghesia italiana non era in grado
che di costituire una base di massa intorno al suo potere. Lo Stato, a
livello di immaginario di massa, si giustifica ancora con la presenza
del re, con il carisma tradizionale della corona, e anche la
costituzionalità e il relativo parlamentarismo appaiono e devono
apparire come un prodotto della monarchia, ancora come una concessione e
il risultato dei moti di trenta anni prima.
Il nuovo stato nazionale e parlamentare è ancora giustificato attraverso
il cascame dell'antico regime dei titolati e questo fu al contempo
il prodotto e anche la causa della spaccatura, in Italia, tra il
movimento della piccola proprietà urbana, mercantile e artigiana, votata
alla repubblica e qualche volta all'anarchismo e la grande
borghesia redditiera, finanziaria e produttiva quasi sempre volte a un
governo forte, autoritario e a una costituzione monarchica.
3.2. Un'epoca antirepubblicana e il sogno americano
3.2.1. Stato aristocratico e Stato nazionale
borghese
Prussia e Austria si trovarono in una
situazione simile a quella italiana. La Prussia, in particolar modo,
realizzò l'unità tedesca in modo analogo a come il Piemonte l'aveva
ottenuta in Italia; sostanzialmente analoga è la condizione di
marginalità alla quale viene condannata la piccola borghesia produttiva,
intellettuale e contadina. Mentre, però, in Italia la cultura
aristocratica non riusciva a trovare espressioni in campo politico e
istituzionale, che non fossero la dinastia regnante e casa Savoia, e,
concretamente, l'amministrazione dello Stato era in mano a eminenti
borghesi e finanzieri, in Prussia lo junker, il grande
tenutario agrario, rimane al centro dell'amministrazione burocratica e
dell'apparato militare. Lo Stato assoluto prussiano era nato, infatti,
come espressione di un'esigenza militare, come organizzazione militare,
e non perse, nel corso del XIX secolo, questa sua connotazione di fondo.
L'antica nobiltà costituisce l'ossatura dell'apparato militare e
dell'amministrazione dello Stato. La borghesia tedesca manifestò
un'intima debolezza politica all'interno del nuovo Stato unitario e non
è lecito scrivere di una assunzione diretta del potere da parte della
borghesia nella Germania del XIX secolo.
Se si guarda alla Francia, all'Italia, all'Austria, alla Germania e più
che mai alla Russia del XIX secolo, ci si rende immediatamente conto del
fatto che la borghesia non fu capace, in forme e misure diverse, di
assumere il potere politico. Gli Stati europei continentali, nessuno
escluso, mantengono la corona, si consolidano intorno alla monarchia e
alle dinastie, e sembra quasi realizzarsi una doppia codificazione
del potere dello Stato: le corone e i parlamenti.
In Inghilterra, al contrario, il ceto imprenditoriale ha ormai preso
possesso delle funzioni politiche dirigenti, però, nonostante questo, la
monarchia persiste, quasi come relitto istituzionale, ma persiste e
questa persistenza ha, anche nella modernissima Inghilterra,
il suo peso politico, oltre che formale e istituzionale.
Lo Stato borghese europeo, sia sul continente che oltre Manica, ricorre,
così, all'incarnazione della memoria dello Stato assolutista
aristocratico per trovare la sua suprema giustificazione istituzionale,
storica e filosofica. L'800 europeo fu un'epoca decisamente,
visceralmente e assolutamente antirepubblicana, nel cui contesto
si esprime oltre alla continuità sostanziale tra Stato borghese e Stato
aristocratico, necessariamente una continuità formale e istituzionale.
La borghesia non è stata una classe rivoluzionaria in politica
istituzionale, nonostante le rivoluzioni che ha sollecitato e provocato,
anzi è stata una classe, in quel campo, conservatrice e regressiva; la
borghesia europea temeva la liberazione di cui aveva bisogno e diffidava
delle nuove istituzioni delle quali preconizzava in parte la necessità.
In generale la borghesia non trovava strumenti autonomi, prodotti in
autonomia, capaci di giustificare il suo potere sulla società e ricadde
in una specie di eteronomia politico - istituzionale, in base alla quale
la monarchia avrebbe proseguito nella giustificazione dell'autorità
suprema dello Stato. Per di più la borghesia aveva bisogno di un
apparato statale il più possibile accentrato e centralizzato e, dopo la
crisi rivoluzionaria francese, il termine crisi è scritto e va letto
sotto tutti i punti di vista, ogni idea di stato repubblicano,
federalista e orizzontalmente distribuito era caduta nel più profondo
discredito. La borghesia si presentava alla storia come una classe non
più rivoluzionaria ma fortemente conservatrice. L'imprenditore del XIX
secolo, al contrario del feudale medioevale, aveva bisogno della
presenza costante e reale dello Stato nella società: l'economia di
mercato, che è una coercizione immanente, continua e dilagante, al
contrario di quella del feudalesimo, che è invece trascendente,
intermittente, limitata alla comunità locale e personalizzata, va difesa
quotidianamente, quasi ora per ora, dalle aggressioni che possono essere
tanto interne quanto esterne, quelle operaie e quelle degli altri Stati
nazionali borghesi. Il protezionismo, la politica dei dazi sulle merci,
operata da tutti gli Stati nel XIX secolo, forniva la prova tangibile
della necessità di una continuità con gli Stati dinastici e
assolutistici precedenti e dell'ulteriore consolidamento di quelli in
uno Stato nazionale e centralizzato affinché la borghesia potesse
svilupparsi. Lo Stato assoluto aristocratico era stato un eccezionale
laboratorio, dunque. La politica sociale dello Stato, già
embrionalmente predisposta in Inghilterra all'inizio del secolo,
prefigurava un intervento diffuso e articolato sulle nuove classi
subalterne in funzione del mantenimento dei presupposti dell'economia di
mercato, del mondo della merce e del comando sulla produzione
industriale. Senza una struttura centralizzata sul modello dello
Stato assoluto aristocratico l'economia di mercato, il sistema di
fabbrica e la borghesia non si sarebbero potute sviluppare, molto
più che il vecchio e appena sorpassato sistema feudale.
Lo Stato assoluto aristocratico aveva dato prova di capacità
interessanti nel senso della discesa dello Stato nella società
e rimaneva, dunque, un esempio. Il protezionismo, il mercantilismo
statalizzato e, in genere, l'omologazione del tessuto giuridico verso
l'obiettivo di un'omogeneità nazionale gli erano connaturati. Per la
borghesia era necessario potenziare queste caratteristiche,
trasformandole, e di abbassare, quando non eliminare, altre, soprattutto
quelle relative al sistema fiscale, alle modalità del prelievo e alla
protezione della proprietà feudale. Il legame tra Stato assolutista
monarchico e rapporti di produzione feudali, anche se sciolto nello
Stato nazionale borghese, rimaneva come un'ombra, una potenza
ereditaria, un segno di un passato che era difficile non riutilizzare e
rielaborare. Scritto in una parola era impossibile prescindere da quella
plurisecolare esperienza di potere.
3.2.2. La rivoluzione americana
Dove lo Stato borghese non dovette
confrontarsi con una coordinata struttura di potere feudale fu nelle
colonie inglesi del nord America. Gli Stati Uniti d'America
rappresentano una prova incredibile di quello che la classe dei liberi
proprietari del '700 era in grado di produrre politicamente; fu quasi
una prova di laboratorio e una soluzione chimicamente pura. La piccola
proprietà agraria, mercantile e produttiva (agricoltori, coltivatori
diretti, allevatori, artigiani e bottegai) formavano il tessuto
connettivo sociale delle colonie settentrionali americane, insieme con
una notevole attività imprenditoriale volta alla cantieristica navale e
ai commerci marittimi. Due fattori, inoltre, rendevano questo quadro
sociale quasi perfetto e, per certi versi, privo di grandi
contraddizioni interne: l'uso di manodopera servile nelle grandi imprese
agrarie del sud delle colonie e la possibilità, sentita come illimitata,
di espansione politica ed economica verso l'ovest, verso le terre
indiane. Tutto questo aveva inibito la formazione della manifattura, di
una produzione di fabbrica e la formazione di grandi fortune
capitalistiche e all'epoca della rivoluzione le colonie americane erano
una nazione di liberi proprietari dove il lavoro salariato era fuggito
con una potente marcia verso l'ovest, verso la frontiera, verso le
possibilità libere dell'economia. La marcia verso ovest riproduceva,
contemporaneamente, altra piccola borghesia. Il contemporaneo
capitalismo inglese era sicuramente più sviluppato in termini economici
e produttivi, fino al punto di avere relegato la colonia americana al
ruolo di consumatrice di prodotti finiti, lavorati altrove. Indicativo,
sotto questo punto di vista, è il rapporto economico stabilito nel
settore dell'industria tessile, dove il cotone, prodotto nelle Americhe
e attraverso l'uso massiccio di manodopera servile, ritornava alle
colonie dopo essere stato lavorato dalle manifatture inglesi sotto forma
di un prodotto finito e a prezzo decuplicato. Le forze produttive
americane, quindi, non trovarono sulla loro strada la proprietà feudale,
ma un mercantilismo di Stato che direzionava e regolava il flusso e le
logiche del mercato e dei commerci; i piccoli proprietari indipendenti
delle Americhe non affrontarono l'aristocrazia, ma la sua forma politica
e istituzionale, lo Stato assolutista nazionalizzato.
Se da una parte la piccola proprietà fondiaria americana si massificava
e diveniva il principale soggetto sociale ed economico delle colonie e
sorgeva anche un'industria metallurgica che, però, limitava la sua sfera
d'azione ai confini coloniali, l'industria tessile e meccanica, cioè la
capacità della trasformazione delle materie, rimaneva riservata al
capitale inglese che anche dopo le rivoluzioni del XVII secolo non
esitava affatto di servirsi dell'intelaiatura impositiva e
protezionistica ereditata dallo Stato assoluto monarchico. Questo
scenario andava soprattutto a detrimento del nord delle colonie, poiché
nel sud la grande proprietà fondiaria che utilizzava manodopera servile
rimase maggiormente legata alla madrepatria coloniale. Nel grande
proprietario fondiario del sud era il desiderio di difendersi e
tutelarsi dalla concorrenza della piccola proprietà del nord e di vedere
questa deprimersi piuttosto che innalzarsi; la grande proprietà
schiavista del sud delle colonie americane ambiva a mantenere rapporti
di produzione precapitalistici, che erano i suoi propri, in base ai
quali la mobilità della manodopera andava controllata, se non proibita,
e si preoccupava della potenziale concorrenza che la società
imprenditoriale e libera del nord poteva esercitare sull'uso
della manodopera servile. Il grande proprietario del sud, di
conseguenza, allacciava con la madrepatria e con lo Stato assoluto
inglese migliori relazioni, poiché i rapporti coloniali non mettevano
affatto in discussione le forze produttive che basavano il suo progresso
e la sua conservazione.
Il grande proprietario del sud, il coltivatore di cotone, in quanto
possedeva una importantissima materia prima, poteva permettersi di
limitare la sua azione economica all'estrazione di quella, con il minimo
costo possibile, e a veicolarla alla madrepatria. La protoborghesia del
sud non conosceva e affrontava rischi di impresa. Non dovendo sostenere
se non minimi costi per la manodopera, non dovendo contrattare i costi
di produzione con nessuno e non dovendo affrontare le conseguenti
fluttuazioni al rialzo dei prezzi con alcuna controparte poteva
tranquillamente ignorare gli aumenti dei prezzi dei prodotti finiti e la
dinamica inflazionistica; al contrario il piccolo proprietario del nord
delle colonie era particolarmente sensibile a questo aspetto. Per il
nord ogni fluttuazione del mercato determinava un problema sociale ed
economico. Soprattutto la piccola proprietà contadina risentiva di una
tale dinamica nella costruzione dei prezzi, essendo in gran parte
dipendente (in attrezzi di lavoro, vestiario e anche generi alimentari)
dai prodotti dell'industria capitalistica inglese.
Gli americani, raggiunto un grado di concentrazione di capitale adeguato
a dar vita a nuovi settori produttivi sul loro territorio, quindi ad
avviare una riproduzione allargata dal punto di vista qualitativo del
loro apparato produttivo, si trovarono nella necessità di richiedere una
possibilità commerciale indipendente e quindi un annullamento dei
vincoli mercantilistici. La terra americana era interamente percorsa dal
movimento della proprietà privata libera, non feudale, da un'economia di
mercato che trabordava nel mercato esterno. Il mercato libero, in
America del nord, si manifestò con mezzi clandestini, che aggirassero i
divieti e controllo del mercantilismo statale inglese, si realizzò,
dunque, con un'agguerritissima flotta di contrabbandieri. I regolamenti
della madrepatria, che imponevano un'economia di scambio controllata e
attraverso di quella riuscivano a mantenere il capitalismo inglese privo
di concorrenti nelle colonie, colpendo la piccola proprietà diffusa e la
sua libera riproduzione, iniziarono a venire intesi come
privilegi.
La rivoluzione americana fu questo: la reazione di una borghesia
coloniale ai rapporti coloniali a lei imposti, senza che esistessero le
condizioni oggettive per un tipo simile di imposizione. La borghesia
americana trovava intralcio alla sua crescita economica in un'altra
borghesia, quella inglese e la borghesia non si comportava come classe,
ma come strato sociale coalizzato su interessi nazionali.
Questo ci conduce a due riflessioni di carattere generale. Seguendo i
gradi stabiliti dal marxismo tradizionale, e in larga parte seguiti in
questa analisi, il colonialismo è arretratezza. Il
colonialismo non è affatto espressione di un dominio sovranazionale e
dell'affermazione di un relativo e isomorfo mercato sovranazionale,
non è il prodotto della maturità e forse neppure dell'adolescenza
della borghesia, ma è, al contrario, l'espressione spuria e sporca
di un dominio borghese che ancora si coniuga con una cultura di potere
assolutista e aristocratica. Il colonialismo è l'aristocrazia
internazionale della borghesia. La volontà di concentrare nello stesso
ambito geo-politico mezzi di produzione e materie prime da
trasformarsi in prodotti e la necessità conseguente di preservare
quest'ambito attraverso un'intelaiatura protezionistica e militarmente
determinata appartengono, senza grandi differenze, alla tradizione
coloniale francese, inglese e spagnola; questo sistema fu potenziato e
non stravolto nel XVIII e XIX secolo dalle borghesie nazionali europee e
le borghesie nazionali europee erano visibilmente arretrate, indietro,
rispetto ai loro autentici, naturali e istintivi obiettivi sociali ed
economici. La seconda riflessione ci induce a pensare, con una certa
verosimiglianza, che la borghesia fatica ad assumere l'aspetto e la
mentalità di una classe internazionale, destinata a governare il mondo.
Certamente la borghesia europea non si sentì come una classe o un gruppo
di potere internazionale.
3.3. The american dream
La nascente borghesia americana non
aveva avuto di fronte i rapporti di produzione feudali, anzi era formata
da uomini che per un secolo e più, oltre che dalle persecuzioni
religiose, erano fuggiti da quelli. La borghesia americana non temeva
l'assenza di confini del mercato, anche perché la nuova Inghilterra non
aveva al momento confini e limiti al suo sviluppo. Non casualmente, se
possiamo ancora oggi scrivere di colonialismo europeo, ci è impossibile
identificare una fase colonialista nella storia della borghesia e del
capitalismo americano. Il colonialismo poteva resistere solo fino alla
formazione di borghesie indigene nei paesi coloniali e non oltre, e
bastò questa presenza embrionale a metterlo in crisi e a mettere in
crisi l'idea di una naturale prosecuzione, in politica internazionale,
dello Stato assolutista dell'aristocrazia: la borghesia dovrà
internazionalizzarsi. diventare una classe cosmopolita, capace di
riconoscere i suoi interessi mondiali e di sostituire il colonialismo
con l'imperialismo, che sono due fenomeni radicalmente diversi e, per
moltissimi aspetti, addirittura opposti. La catena di rivolte e
rivoluzioni che negli anni '20 del XIX secolo sconvolsero il sud America
e lo sottrassero nella sua interezza al dominio coloniale spagnolo sono
la prova più tangibile dei limiti del colonialismo.
Il colonialismo era uno strumento inadeguato allo sfruttamento autentico
dei paesi non capitalistici, presupponendo un rapporto tra madrepatria e
colonia che reggeva fino a quando il problema era quello di inquadrare e
sottomettere la popolazione indigena e il suo territorio all'economia di
mercato. La monocultura, esempio cristallino del tipo di produzione
imposta a una colonia, è, in realtà, più funzionale allo sviluppo e al
consolidamento di interessi politici, di strumenti di controllo politico
su una regione, attraverso la completa subordinazione del suo sistema
produttivo alla madrepatria che non allo sviluppo del capitale in
quella. Le risorse da estrarre vengono selezionate e limitate, nel
colonialismo, e non si riproduce la libertà dei flussi produttivi che,
invece, caratterizza la madrepatria: in una parola, nel colonialismo, il
capitalismo si disciplina e si limita e manifestava tutta l'incapacità
di ideare un dominio del mondo realizzato attraverso l'imposizione di
rapporti di forza puramente capitalistici, puramente economici.
Nel colonialismo era la politica, l'interesse politico, a legare a sé,
in maniera grossolana e sperimentale, quello economico. È così che i
grandi stati europei, come l'Inghilterra. la Francia e la Spagna
rimasero ancorati in campo internazionale e per tutto il XVIII secolo (e
per Spagna e Francia arriviamo tranquillamente alle soglie del XX
secolo) ai paradigmi espansionistici dello Stato assolutistico
aristocratico. Questo dipendeva in larga misura dal fatto che la
proprietà feudale non era del tutto annientata al loro interno e che
ancora si andava consumando un compromesso di potere tra nobiltà e
borghesia. Quel compromesso epocale, che ha caratterizzato la vita
politica e istituzionale europea del 1815 fino alla grande guerra, era
realizzato, senza dubbio, sotto l'ombrello degli interessi economici
della borghesia; in quello la borghesia costituiva il polo di attrazione
fondamentale. Era, però, un compromesso, secondo il quale alla grande
borghesia finanziaria e mercantile rimaneva il potere di determinare le
scelte politiche ed economiche di fondo ma dove la componente fondiaria
e agraria, e moltissimi relitti della passata legislazione feudale,
soprattutto nelle campagne, riuscivano a determinare modi e forme
istituzionali di quella politica, dando loro una tranquillizzante
continuità storica di fondo.
Durante l'epoca coloniale, la borghesia produttiva, il capitale in senso
stretto, viene messa in minoranza dal grande volume del capitale
mercantile e finanziario e vede depresse le sue capacità di espansione
in quanto parte più significativa della nuova classe borghese. Si tratta
molto spesso, per la borghesia produttiva, di lavorare alla
trasformazione della materia prima coloniale e di limitare a quella
produzione il suo sviluppo. I mercati nazionali delle madrepatrie sono
contratti, ridotti, e gli stili di vita delle nazioni coloniali in poco
differiscono da quelli delle regioni colonizzate. Il mercato interno è,
dunque, povero mentre quello coloniale controllato e regolato da un
oligopolio mercantile. L'alleanza ottenuta tra proprietà fondiaria e
grande borghesia mercantile e finanziaria alienava alla borghesia
produttiva la possibilità di ottenere capitale e profitti considerevoli
dalle colonie. Il modello di sfruttamento coloniale mal si adattava,
quindi, allo sviluppo internazionale dei rapporti di produzione borghese
e nell'800 esso era un ostacolo e non un motore per lo sviluppo
dei rapporti di produzione capitalistici e, probabilmente, non lo è mai
stato.
La borghesia americana, animata da uno spirito fortemente innovativo che
le derivava anche dal fatto di essere una classe, sotto alcuni aspetti,
di massa si rese conto di questa antinomia, di questa contraddizione
implicita nello sviluppo delle forze produttive e dei rapporti di
produzione. L' "America agli Americani", la famosa dottrina Monroe, non
fu una dichiarazione di nuovi intenti coloniali, ma la consapevolezza di
sé di una nuova borghesia che vuole esportare tecnologie, capitali, modi
di produzione e modi di vita nel sud America. In questa dichiarazione è
la necessità di far diventare la politica una funzione dell'economia e
non viceversa. La prima dichiarazione imperialista della storia del
capitalismo fu, quindi, forgiata all'inizio del XIX secolo negli Stati
Uniti d'America.
Per gli Americani, non si trattava più di organizzare la produzione e la
sua espansione secondo forme coloniali, ma di imporre con audacia e
necessario cinismo le leggi dell'economia e del mercato al mondo,
attraverso l'economia e il mercato. Il profitto andava inventato e le
risorse per il profitto costruite anche là dove, fino ad allora, non si
erano verificate le condizioni necessarie all'accumulazione. Il
capitalismo diventava, quindi, una legge generale, una legge
scientifica, applicabile all'intero globo. Gli investimenti e la
proliferazione della manifattura determineranno la nascita di nuovi
mercati locali e bisognerà lasciare la briglia sciolta al cavallo delle
imprese locali, al loro sviluppo e allo sviluppo della borghesia anche
là dove non esista ancora. Le risorse strategiche internazionalmente, i
minerali e i prodotti agricoli, subiranno un controllo determinato dalle
leggi stesse dell'economia, dalle competenze tecnologiche e dalle
risorse finanziarie necessarie ad assicurarselo. Si formeranno, quindi,
borghesie nazionali, centinaia di borghesie nazionali, disperse in tutti
gli angoli del mondo, e si determinerà uno sviluppo economico
complessivo, mentre le leggi dell'economia stabiliranno chi avrà, oggettivamente,
il ruolo del volano di questo processo: volano e non controllore, o
meglio controllore interno, implicito e intimo. Il volano di questo
processo sarà la potenza imperialista del capitalismo più affermato e
più sviluppato. Così la vecchia colonia europea si svilupperà
economicamente, il capitalismo imperialista vampirizzerà quello sviluppo
senza interdirlo. Il sogno americano della grande libertà in economia
era un sogno imperialista e gli Americani sono stati davvero una razza
beata.
4. L'aporia superata
4.1. Gli U.S.A. a fine '800
4.1.1. Il vantaggio americano
Lo sviluppo capitalistico americano dell'800
è stato prodigioso e non credo possa trovare paragoni con altri fenomeni
nella storia dell'economia. Gli americani potevano usare una ricchezza
di materie prime e risorse naturali nella loro stessa terra e la marcia
verso ovest iniziata nell'800 e sostanzialmente completata, almeno
politicamente, nel 1884, rappresentò lo strumento di appropriazione
globale di tale ricchezza.
Un grande stato minerario, agricolo e industriale si era formato, con un
capitale di partenza diversificato e ben distribuito in ogni settore.
Negli Stati Uniti il capitalismo si realizzò rapidamente in una serie di
infrastrutture, di servizi (trasporti, edilizia, grandi linee di
comunicazione ferroviaria e stradale) che non ha paragoni in Europa. Il
territorio diviene oggetto di un investimento intensivo, di
pianificazione degli investimenti e di sua messa in produzione. La
metropoli, già dalla fine del secolo, domina il territorio circostante,
la campagna si inurba, entrando a far parte non solo del
rapporto di produzione capitalistico, ma anche del tessuto territoriale
urbano, della territorialità urbana, grazie a strade e linee
di trasporto rapide ed efficienti e a una rete di servizi sociali e
pubblici che si articola omogeneamente tanto nelle città quanto nelle
campagne.
Il territorio, in America, è veduto come entità organica allo sviluppo
economico che, idealmente, non offre resistenza alla colonizzazione
capitalistica; i limiti che il territorio pone allo sviluppo del
capitalismo sono, in U.S.A., di tipo geografico, oggettivi,
scientificamente misurabili (monti, laghi, fiumi, ostacoli geografici,
insomma), perché la presenza di una territorializzazione precedente, di
un diritto sulla geografia dei luoghi, è inesistente ovvero è stata
spazzata via, come per il caso dei nativi. La territorializzazione in
America quasi mai si è legata a una particolare soggettività del
territorio, ma la geografia si è manifestata in tutta la sua
oggettività. La macchina capitalistica ha proceduto come un'intricata ma
razionale rete di linee su di una carta geografica.
L'importazione di manodopera dai paesi europei fu la necessaria
conseguenza e presupposto di questo processo di colonizzazione del
territorio. Una prima ondata migratoria intorno alla metà dell'800
introdusse operai qualificati e professionalizzati dei quali l'industria
pesante, metallurgica ed elettromeccanica americana aveva profondamente
bisogno; giunsero soprattutto operai scandinavi e tedeschi. Nella
seconda metà del secolo, invece, arrivò manodopera dequalificata, di
origine contadina e razzialmente definita dalle etnie mediterranee
(Italiani, Turchi, Greci, Spagnoli, Serbi e via discorrendo) e dagli
Irlandesi. Questo secondo gruppo di immigrati si inserì nella produzione
a basso contenuto professionale (edilizia e settore minerario) e
maggiormente meccanizzata (industria tessile e metalmeccanica). Il
capitale siderurgico e tessile, così, si allargava e riproduceva in
quello meccanico, metalmeccanico e infrastrutturale, manifestando
subito, e senza troppi patemi, drammi e indecisioni, la tendenza a
concentrarsi, a costituire concentrazioni economiche e produttive.
Queste concentrazioni spesso coinvolgevano tutti i segmenti di una
medesima filiera produttiva ma anche settori economici diversi. Le holding
ed i trust furono il risultato formale di questa naturale
tendenza del capitalismo americano, che, al contrario, faticava ad
affermarsi in Europa.
Tutto questo non deve essere confuso con un salto in avanti, un
progresso e un'innovazione sul terreno dei rapporti di produzione
capitalistici americani, poiché il modello produttivo è ancora quello
legato alla professionalità e ricchezza della mansione lavorativa, la
forma organizzativa è ancora quella padronale e paternalistica o
paternalisticamente autoritaria e l'imprenditore è una figura precisa,
una biografia. Anche sotto l'aspetto della forza lavoro è l'operaio
qualificato, come in Inghilterra, Francia e Germania, a essere al centro
della produzione di fabbrica ma, in USA e con largo anticipo rispetto al
vecchio mondo, diviene sempre più pressante e per certi versi naturale
l'esigenza di avere una produzione e segmenti produttivi di supporto a
quella principale, che offrono servizi e collaboratori al processo
principale, lavorazioni dequalificate che vengono affidate a operai
privi di qualifica, dequalificati, unskilled. Le holding
e i trust di fine ottocento rappresentano la fase di
massimo sviluppo del sistema di fabbrica basato sul lavoro
professionalizzato, sul mestiere, nel tentativo di mantenere rigide le
divisioni tra i diversi comparti produttivi, le differenze tra
produzioni centrali e secondarie e tra operai di mestiere e unskilled
ma anche di aggirare la criticità di questa segmentazione e
stratificazione, velocizzando i contatti tra le diverse branche
produttive, controllando i flussi delle materie grezze e dei lavorati e
gli spostamenti della manodopera, attraverso un'identità proprietà
distribuita su tutti questi segmenti diversi per natura e livello di
sviluppo. Inoltre, e per la prima volta il problema viene affrontato
negli Stati Uniti anche se in maniera 'privatistica', ci si pone il
compito di regolare, in funzione della conservazione del profitto, il
mercato. Le holding e i trust sono un
meccanismo difensivo della borghesia nei confronti delle
fluttuazioni del mercato, delle altalene produttive e del costo del
lavoro. Si manifesta la volontà di costituire un sistema autoregolato
che riduca la manodopera a fattore interno, certamente interattivo, ma
assolutamente interno e passivo nel processo produttivo.
4.1.2. Vantaggio e anticipazioni epocali:
l'imperialismo
Il limite esterno al capitale nel nuovo
mondo non deriva dalla territorializzazione precedente, dai diritti e
dalle consuetudini ereditati dai secoli della monarchia e del
feudalesimo, ma deriva dall'esterno a sé che il capitale genera nel suo
presente, un esterno, il lavoro salariato, che deve divenire interno. Il
limite in America non deriva dal passato ma dal futuro. Questo
limite che viene dal futuro venne interiorizzato a livello
dell'impresa stessa; fu un passo avanti importantissimo verso la
contemporaneità, verso il capitalismo maturo o tardo. Le holding
e i trust rappresentano un meccanismo difensivo della
borghesia nei confronti del mercato delle merci e del mercato del
lavoro, cioè nei suoi stessi confronti. Si cercava, attraverso
quella concentrazione privatistica di progettazione economica, di
regolare, narcotizzandolo, il meccanismo della concorrenza, le
conseguenti fluttuazioni economiche e l'emergere di nuove forze
produttive e dirigenti. In questa fase la borghesia vede sé stessa come
classe produttiva ma anche finanziaria, ma di una finanza diversa da
quella redditiera del contemporaneo capitalismo europeo che, per certi
versi, fa parte delle eredità dei secoli precedenti, del mercantilismo
protetto dallo stato, della fiscalità delle monarchie, degli appaltatori
e prestatori di danaro. In America si scopre un nuovo valore e uso della
finanza: il capitalismo bancario, legato all'attività delle grandi
concentrazioni produttive, subordinato alle sue risorse economiche e ai
suoi profitti, dovrebbe e in parte diventa lo strumento per regolare
queste ricorrenti fluttuazioni e per condividere l'accumulazione del
capitale in tutta la classe dei capitalisti.
Il grandissimo limite storico dei trust e delle holding
fu il loro indissolubile legame con la classe borghese intesa come
classe nazionale, il vincolo che mantennero con i confini e le risorse
dello Stato nazionale. Holding e trust
rappresentarono un sistema offensivo verso i mercati esteri, uno
strumento per esportare e realizzare all'estero il capitale nazionale,
uno strumento imperialista di prima fattura e in quintessenza, capace,
però, di mandare in frantumi gli schemi del colonialismo europeo e della
borghesia europea, sostituendo la presenza militare e l'intervento
politico diretto sulle altre nazioni e le altre realtà regionali con uno
sfruttamento immediatamente economico e una sopraffazione culturale e
finanziaria. Le holding e i trust furono il cuore
dell'imperialismo e il declino del colonialismo.
4.1.3. L'arretratezza endemica
dell'imperialismo sub specie del capitale
È possibile una lettura in negativo
dell'esperienza delle holding e dei trust sub specie
del capitale, dal punto di vista dello sviluppo capitalistico. 1 - Si
dimostrarono incapaci di organizzare il salto in avanti nei modi di
produzione che già l'epoca preconizzava 2 - Le grandi concentrazioni di
capitale non furono in grado di rappresentare e cogliere appieno le
caratteristiche internazionali che il capitalismo andava assumendo,
rimanendo ancorate a una forma di capitalismo e di borghesia nazionali e
subordinando il capitalismo alla logica delle sfere di influenza dei
singoli stati nazionali. Non casualmente, nonostante l'imperialismo sia
intrinsecamente nemico del colonialismo e segua tutt'altre logiche,
dinamiche e si serva di meccanismi di dominio diversi rispetti a quelli
coloniali, ebbe sempre il bisogno di essere accompagnato dalla capacità,
espressa dagli stati nazionali, di creare uno scenario favorevole alla
sua penetrazione nei paesi arretrati o, anche, nei paesi rivali sotto il
profilo capitalistico. L'imperialismo, quindi, era curiosamente in
conflitto con gran parte delle sue autentiche aspirazioni e con parte
della sua natura. 3 - Le grandi concentrazioni finanziarie e produttive
e insieme con esse l'imperialismo non servirono affatto a regolare la
concorrenza e a organizzare la pianificazione economica, il disordine
del mercato, infatti, si ripresentò puntualmente proprio nei momenti di
maggior bisogno, nei momenti, cioè, di crisi economica, durante i quali
rifioriva una piccola industria dalle caratteristiche altamente
concorrenziali. L'autoregolazione 'privatistica' del capitale di fine
ottocento e dei primi tre decenni del XX secolo fallì miseramente.
I trust e le holding ebbero, comunque, un
significato e compito storici davvero importanti: essi funzionarono come
il miglior strumento per realizzare l'espansione capitalistica a livello
mondiale, e nei trust e nelle holding nacque l'idea
dell'imperialismo e la sua ideologia che sopravvive ancora oggi. Essi
rappresentarono il mezzo più adatto agli scopi del capitalismo: rendere
capitalista il mondo, conquistare l'egemonia sul mondo. C'era il
desiderio non evitabile, il desiderio inevitabile e costituivo, di ogni
singola borghesia nazionale dietro all'obiettivo dell'estensione del
capitalismo sull'intero pianeta. Nelle forme dell'imperialismo questo
desiderio internazionale spingeva ogni singola economia nazionale ad
allargare le proprie sfere di influenza e di difenderle dalle altre
economie nazionali. Per certi aspetti non sarebbe del tutto scorretto
descrivere l'imperialismo come una modernizzazione del colonialismo; ma
sarebbe sottolinearne solo i limiti, solo il ritardo e non coglierne la
novità che, in effetti, ben pochi colsero. La novità non erano le
cannoniere e la relativa politica di forza, ma il flusso degli
investimenti, la forza dell'economia liberamente dispiegata.
Le grandi concentrazioni di capitale dei paesi sviluppati
capitalisticamente, al contrario del colonialismo, non disdegnano
affatto una politica di investimenti produttivi nei paesi subordinati e
non sviluppati né rapporti finanziari con la borghesia emergente in quei
paesi, con la borghesia indigena. Si tratta di aggredire mercati
esistenti e di crearne nuovi. di espandersi nel mondo non - capitalista;
la forma del trust, che in una certa misura si richiamava alle
strutture dello Stato nazionale, era e fu la più adeguata a questo
compito. Nel trust la concentrazione dei capitali e dei
settori produttivi è meccanica, non chimica, cioè i legami tra i
capitali e i capitalisti non erano organici ma rispondevano all'esigenza
di fare cartello. Non si socializza un modo di produrre e non
esiste una composizione di capitale capace di esercitare sulla società
un comando sincronico, ma sussistono diverse composizioni che si alleano
secondo logiche di politica economica.
Il trust, imperialista all'estero, sull'apparato produttivo
nazionale tende, invece, a stabilire un rapporto di dominio coloniale, a
ottenere la protezione dello Stato, e non è, dunque, il rapporto di
capitale ad esprimere il dominio della borghesia. Il trust è
la prefigurazione di questo dominio organico, ma non la sua
realizzazione.
Quanto scritto vale in primo luogo per gli USA, ma anche per
l'Inghilterra, la Francia e l'Italia fin de siecle.
Il capitalismo, attraverso la fase imperialista, inizia a uscire,
inoltre, dalla sua gioventù, potremmo dire che raggiunge una prima età
adulta e in quella, paradossalmente, inizia a perdere il capitalista
come figura biografica, come figura giuridica, per assumerne una sociale
e collettiva, anonima.
4.1.4. Modernità americana
Torniamo a ragionare sull'America. L'emergere
dei grandi trust soprattutto nel settore siderurgico (United
Steel) determina la concentrazione produttiva, l'aumento della quantità
della classe operaia impiegata nella produzione e l'emergere di nuove
strutture e infrastrutture sul territorio. Determina una trasformazione
sociale, nel caso americano la creazione di un nuovo, che va controllata
politicamente perché il processo è estremamente complesso e articolato e
richiede la nascita di un complesso sociale e geografico.
La necessità di governare quel processo determina, in maniera
assolutamente pragmatica cioè nuova e immanente, l'organizzazione
politica del capitale. Nasce, negli Stati uniti, una forma politica
nuova, che non ha paragoni o analoghi nella vecchia Europa, nasce il partito
politico pragmatico. Nasce a immagine e somiglianza dei trust,
come strumento di una sfacciata e non cucita ideologicamente
regolazione tra i diversi settori borghesi, tra i diversi settori della
proprietà privata. E nasce, non a caso, su questo suolo vergine,
incontaminato da precedenti storici. Proprio là dove gli interessi erano
chiari e privi di maschere, dove l'antagonismo proletario si manifestava
in forme radicali e coscienti, di una coscienza molto diversa da quello
che innervava il coevo movimento operaio europeo, e dove la produzione
capitalista dettava direttamente i contorni del territorio e del vivere
associato stesso.
Il grande capitale industriale e anche il capitale fondiario e agricolo
sono, in America, elementi fluidi; fondano la loro egemonia sulla
capacità di ridefinire i termini del conflitto di classe cioè di
individuare nuove forme di dominio, sfruttamento e controllo. Il ciclo
composto da crisi - sviluppo - ristrutturazione - nuovo sviluppo si
manifesta negli USA per la prima volta in maniera chiara. Di fronte alla
chiarezza del suo dominio, il capitale americano si pose il problema
della classe operaia senza false coscienze ma con chiara coscienza. Non
si trattava di legittimare o deligittimare le organizzazioni operaie e
sindacali per principio, si trattava, invece, di creare dei lodi
arbitrali politici attraverso i quali la contrattazione potesse avere
sempre luogo, di centralizzare e razionalizzare lo scontro di classe, di
dare una ragione capitalistica alla protesta ed estraneità operaie.
Nacquero, così, negli Stati uniti, già nell'ultimo decennio del XIX
secolo, comitati congiunti di padroni e sindacati a carattere
permanente. Non è più la singola vertenza, la lotta improvvisa a
determinare la contrattazione, essa si protrae oltre i termini
cronologici della singola battaglia, essa assume il significato, anche
ideologico, di una contrattazione generalizzata. In America, attraverso
i vari comitees pubblici, stabiliti in molti realtà e
solitamente presieduti da elementi rappresentativi delle diverse parti
sociali, si stabilisce, anche nell'ideologia, una contrattazione
permanente votata a definire, per la prima volta nella storia del
capitalismo, tutti i rapporti, anche quelli sociali, anche quelli
che riguardano la vita sociale, i rapporti generali tra capitale e
lavoro.
Non è ancora la mediazione politica di cui si farà carico lo Stato
keynesiano di quaranta anni dopo, la politica non riesce a essere una
funzione diretta dell'economia, contaminandola inevitabilmente, ne è
solo la prefigurazione, limitata, inoltre, al quadro della produzione di
fabbrica, al conflitto industriale e alle sue immediate vicinanze.
In America lo Stato scopriva, però, la sua funzione moderna: mediare ed
equilibrare, dal punto di vista capitalistico, i conflitti generali tra
le classi.
4.2. L'Europa di fine '800 e dei primi decenni del '900
4.2.1. L'arretratezza: suffragio universale e
anarchia
Negli Stati Uniti, alla fine del XIX secolo,
si apriva la strada un nuovo modo di amministrare i conflitti di classe;
altrimenti stavano le cose in Europa, dove i problemi erano spostati
indietro e il modo di amministrare il conflitto era quello tradizionale
per lo Stato assoluto ereditato dall'epoca moderna. In Europa permaneva
il pericolo, percepito sia dalla borghesia che dal proletariato, di un
ritorno al passato ed esisteva il problema storico e concreto di
conservare e difendere le forme dello Stato nazionale borghese contro il
desiderio di abbandonarle e rinnegarle.
Questa arretratezza è, in parte, spiegabile con la permanenza dei
rappresentanti della proprietà fondiaria di derivazione feudale o, al
massimo, protocapitalitica all'interno dello Stato, che corrispondeva
con il peso dei grandi agrari nell'accumulazione economica e questa
permanenza e resistenza erano ulteriormente appesantite
dall'arretratezza del capitalismo industriale europeo.
L'uso di trust e monopoli si afferma anche in Europa, ma in forme meno
chiare e nette che negli Stati Uniti. È determinante il fatto, e questo
fatto ha provocato, probabilmente, la debolezza dell'esperienza delle
grandi concentrazioni produttive europee, che l'Europa possiede una
struttura industriale più vulnerabile di quella statunitense agli
attacchi della contestazione operaia. Questa vulnerabilità dipendeva dal
fatto che l'Europa non usufruiva di una massa di manodopera immigrata e
dunque la produzione industriale rimase ancorata a un'organizzazione del
lavoro che valorizzava il mestiere e la professionalità e la figura
dell'operaio specializzato e 'semi - artigianale'; dipese anche dalla
difficoltà che i paesi europei incontrarono ad abbandonare il modello di
sfruttamento coloniale nei paesi arretrati e a convertirlo in modello
imperialistico (la Gran Bretagna con minor evidenza, Francia, Germania,
Belgio e Italia, con maggiore); in terzo luogo in Europa la produzione e
il mercato privilegiavano i macchinari industriali, l'estrazione dei
minerali e l'industria tessile grezza che rappresentavano i settori
trainanti e la siderurgia, l'industria del carbone e la produzione
tessile rimasero le avanguardie tecniche del capitale europeo e ne
rappresentavano la composizione più cospicua, mentre negli Stati Uniti
la produzione iniziava a rivolgersi al mercato più diffuso, ai beni di
consumo di massa.
Questi tre aspetti interagivano e avevano una comune origine: in Europa
la borghesia doveva ancora confrontarsi con la tradizione culturale ed
economica feudale.
Lo Stato del capitale, così, non riusciva a riassumere e rappresentare,
compiutamente e linearmente, le trasformazioni sociali, a organizzarsi
con conseguenza intorno ad esse, perché troppe erano le resistenze a una
relazione diretta e naturale (meccanica) tra quello e il nuovo corpo
sociale.
Il suffragio universale rappresentava ancora un effettivo pericolo in
una situazione sociale complessivamente arretrata che, naturalmente,
corrispondeva con una situazione produttiva incapace di dare risposte
adeguate alla contestazione operaia ormai insorgente ed estesa. Il
suffragio universale avrebbe potuto significare l'abdicazione, in quella
fase storica, del potere da parte della borghesia, il governo
dell'anarchia delle masse incontrollate e incontrollabili; questo è
certamente vero per la propaganda conservatrice dell'epoca, ma lo è con
tutta probabilità anche per la realtà delle cose: il suffragio
universale sarebbe stato, quantomeno, un salto nel buio.
Il ciclo tipico dello sviluppo e dell'esistenza del capitalismo, il suo
motore e il motore del suo sviluppo, quello che prevede la crisi
economica -> la ristrutturazione produttiva -> il nuovo sviluppo
-> l'emergere di nuove contraddizioni e difficoltà per lo sviluppo
-> la conseguente crisi economica -> che comporta una nuova
ristrutturazione produttiva, questo è stato il ciclo vitale del
capitalismo industriale, in Europa rimaneva inceppato. La
crisi si presentava ma non riusciva a generare una ristrutturazione
delle forze produttive e dei modi di produrre adeguati al suo
superamento e si faceva endemica e strisciante. In questo contesto lo
Stato, anziché seguire in maniera strategica quello che avveniva nella
produzione, era costretto a limitare il suo ruolo al controllo giuridico
e poliziesco degli antagonismi che si esprimevano. Il mondo della
produzione, nell'Europa di fine ottocento, non riusciva a parlare
direttamente con lo Stato, nella misura in cui non riusciva a governare
sé stesso e le sue problematiche. Alla fine lo Stato interveniva solo
sul sintomo e solo sulla sua fase acuta, quando l'antagonismo tra le
classi assumeva caratteri esasperati, quando la violenza prendeva
possesso delle piazze o quando le organizzazioni padronali minacciavano
di 'farsi Stato' e di assumere carattere istituzionale autonomo.
Non si riusciva, quindi, a trovare un piano di azione organico e lo
Stato rimaneva funzione e strumento per controllare il conflitto,
inconsistente verso la sua natura; l'intervento dello Stato, ovviamente
volto in favore del movimento della proprietà privata e dunque degli
imprenditori, si limitava, però, a essere un episodio di una battaglia
che non gli apparteneva nei termini politici più profondi.
Per dirla in termini chiari: lo Stato nazionale europeo non era uno
Stato organico alla borghesia e al capitalismo, ma era solo uno
strumento per la borghesia e per il capitalismo adatto a inquadrare
giuridicamente e repressivamente i nuovi rapporti di produzione.
4.2.2. I paradossi dell'arretratezza europea
Lo Stato borghese europeo, dovendo misurarsi
con la presenza di una borghesia agraria che si era appropriata con
estrema facilità delle nuove forme di sfruttamento e dei nuovi rapporti
di produzione ma che aveva solo parzialmente acquisito, con
proporzionale difficoltà, la mentalità politica del capitalista
industriale, preferendo a quella la tradizionale ideologia feudale,
chiuse gli occhi sulla complessità del nuovo antagonismo operaio; la
arretratezza delle forze produttive europee non fece che rendere ancora
più naturale questo processo. Lo Stato nazionale e solitamente
monarchico costituzionale dell'Europa del XIX secolo non era uno Stato
borghese in essenza, ma solo in apparenza.
Non era in questione, quindi, se non nei sogni dei riformisti tra i
socialisti come Bernstein e in parte Kautsky, di istituzioni statali
capaci di mediare i conflitti di classe, sarebbe stata utopia, poiché
prescindeva completamente dalla materialità dello sviluppo capitalistico
europeo. La mancanza di una mediazione, di una penetrazione dello Stato
nazionale in Europa dentro i meccanismi del capitalismo ha costituito il
grande limite del capitalismo in Europa e sarà un'eredità questa di
lunga durata, pesante e difficilmente estinguibile.
In Europa, la lotta proletaria e la sua organizzazione trova terreno
fecondo, un vero e proprio humus, nella rigidità
dell'organizzazione del lavoro, che si impernia sul carattere
professionale della produzione, e di converso la borghesia non riesce a
trovare spazi per una ristrutturazione produttiva che permetta di
distruggere questa potenza organizzativa e questa soggettività nemica.
La tendenza, allora, alla dittatura e all'abbandono del
costituzionalismo monarchico e del parlamentarismo ristretto diverrà
sempre meno sotterranea durante l'ultimo decennio del XIX secolo e nei
primi due decenni di questo secolo. La rivoluzione bolscevica del 1917,
come fattore esterno, la necessità di trasformare la società in una
società di massa, di consumi, gusti e produzione di massa, senza, però,
avere la capacità di gestirla in quanto società di massa ma
solo di subirla in quanto tale, come fattore interno, hanno catalizzato
la tendenza a costituire forme istituzionali dittatoriali,
tendenzialmente, ma non sempre, repubblicane.
La tendenza alla dittatura, espressa non nelle forme tradizionali
dell'assolutismo monarchico, ma rappresentata, almeno nell'ideologia,
come dittatura di massa, espressa attraverso il consenso della
maggioranza dei componenti della nazione, come una specie di dittatura
democratica privata del contenuto rivoluzionario che aveva
durante il governo giacobino, manifesta la necessità da parte di buona
parte degli Stati nazionali europei di farsi borghesi organicamente
anche a costo dell'arretratezza della borghesia europea, oltrepassandola
con un escamotage. In Italia, Germania, Ungheria e Spagna, la
borghesia e il capitalismo troverà in questa riedizione reazionaria
della dittatura democratica giacobina, in questo suo
scimmiottamento, il modo per riuscire ad articolarsi sul sociale, nel
mondo dei produttori e, soprattutto, per imporre alla borghesia una disciplina
di classe, per imporre alla borghesia un comportamento di classe.
In questa arretratezza, va annotato, si produce una paradossale
anticipazione, importante ed epocale: per la prima volta in Italia e in
Germania, il capitalismo sarà anteposto alla borghesia, il capitalismo
precederà la sua classe nell'interesse politico e istituzionale.
4.2.3. La sospensione europea
Lasciate da parte le anticipazioni, lo Stato
borghese europeo rimase così, per tutta questa serie di fattori, sospeso
a mezz'aria. Rimase incapace di rispettare la sua vocazione assolutistica
in senso nuovo, in senso 'americano', e finisce, quasi sempre, per
rivalutare il tipico ruolo, storico, dello Stato nazionale
aristocratico, come macchina repressiva e giudiziaria, piuttosto che
sociale ed economica. Questo ruolo viene incarnato sia rispettando la
tradizione istituzionale e la monarchia costituzionale o, a partire
dalle nuove tendenze di fine secolo scorso e inizio di questo,
immaginando una nuova forma istituzionale capace di esercitare
repressione e controllo poliziesco, nuova alla storia: la dittatura
civile e laica, la dittatura con le vesti borghesi.
Il quadro del dominio borghese in Europa è pieno di contraddizioni, di
sovvertimenti, di nervosismi e di lacerazioni e questo ha fatto spesso,
a un'analisi epidermica molto in voga oggi e quasi tradizionale, una
maggiore modernità europea, una superiore sensibilità culturale e
sociale alla quale farebbe da contrappeso un cinismo monolitico nel
capitalismo americano, una banalità assoluta in quella società, la
banalità del capitale in America.
Si è spesso immaginato, pensato, l'Europa come una specie di territorio
sacro della soggettività operaia, a partire dal proliferare ed
estendersi delle organizzazioni del movimento operaio e dall'affermarsi
del movimento e dei partiti socialisti in gran parte di quella e si è
costruita un'ideologia su di questo, anche e soprattutto a sinistra,
della superiorità europea e della maggiore capacità analitica del
pensiero europeo. Il famoso anatema di Lenin contro il movimento operaio
americano, secondo lui affetto da un infantile estremismo, completava,
anche sul fronte rivoluzionario della sinistra europea, questo giudizio,
forniva un'insperata convalida a questo pregiudizio, proveniente dal
fronte rivoluzionario del movimento socialista. Insomma il pregiudizio
era completo e organico, sostanzialmente condiviso e, quindi, vero.
Le cose vanno radicalmente riviste. La grande risonanza storica e
politica che le battaglie ideali del proletariato ebbero in Europa,
grazie alla formazione dei partiti di massa aderenti alla seconda
internazionale socialista, non sono affatto un segno di maturità e forse
neppure di arretratezza, quanto di sospensione del conflitto di classe a
un punto morto. Il successo della seconda internazionale e della
corrispettiva variante riformista del pensiero di Marx furono
determinati non dal grande livello di coscienza raggiunto dai proletari
europei, come affermavano Bernstein e Kautsky e in genere i riformisti
(ma questa linea di pensiero era tanto profonda da influenzare anche il
versante rivoluzionario, soprattutto la Luxemburg, che però usava questo
pregiudizio per evidenziare la possibilità dello sviluppo antagonistico
del conflitto), ma dall'inadeguatezza dello Stato borghese rispetto allo
sviluppo del capitale in Europa. I movimenti operai organizzati
riempirono, sotto alcuni aspetti, questo divario. Per dirla con
linguaggio odierno, i Socialisti europei incitarono, alla fine del
secolo scorso, gli operai a 'farsi Stato'. Inutile dire che, in questo
contesto, anche l'idea di 'coscienza di classe' veniva manipolata e mai
autenticamente interrogata e analizzata e un'analisi seria e
materialista sulla soggettività rimaneva, necessariamente, sconosciuta.
L'arretratezza dello sviluppo capitalistico europeo, arretratezza
rispetto all'essenza stessa del capitalismo, arretratezza del capitalismo
europeo rispetto al capitalismo in generale, e gli alti livelli
di coscienza ideologica e di capacità organizzativi del movimento
operaio in Europa erano l'uno funzione dell'altra e, quindi,
determinavano un altrettanto apparente maturità della coscienza di
classe. L'operaio europeo era arretrato rispetto all'operaio in
generale, nella stessa misura del capitalismo europeo.
Il riformismo socialista poteva assumere caratteri di massa in paesi nei
quali il suffragio universale non era un prodotto spontaneo del
capitalismo e un obiettivo naturale della borghesia, ma diventava, per
bocca di Bernstein, Kautsky e dello stesso Engels, un compito
nell'agenda del proletariato, secondo una revisione radicale del
pensiero comunista di Marx. Che la cosiddetta lotta democratica
non fosse un compito del movimento operaio fu chiaro solo a Lenin e
molto meno alla Luxemburg, anche questo, quindi, era un pregiudizio
generale, assodato e dunque vero, in Europa.
È comunque indubbio che in Europa, il suffragio universale e
l'allargamento dei diritti politici e civili fu una conquista ottenuta dal
basso e non una tendenza inaugurata dall'alto. La
monarchia costituzionale come forma istituzionale prevalente pesava come
un macigno sullo sviluppo della forma Stato della borghesia europea.
È comunque molto difficile spiegare come, anche all'interno del
movimento operaio più radicale ed evoluto, le esperienze del
sindacalismo americano di fine ottocento e dei primi del novecento non
trovarono diritti di cittadinanza e furono liquidate come fenomeni e
portati di una arretratezza, banalità e cinismo tutto statutinense e la
modernità venne, curiosamente e paradossalmente, scambiata per
arretratezza.
Scritto tutto questo, in maniera assolutamente critica, sull'esperienza
del riformismo e massimalismo socialista europeo dell'inizio di questo
secolo, non voglio assolutamente ridurne la portata e l'importanza
storica e cioè il grado di indipendenza che comunque ebbe rispetto alla
progettazione capitalistica, ma voglio anche ricordare e affermare che
il socialismo riformista e massimalista fu la risultante di una
complessiva inadeguatezza del capitalismo europeo e del suo stato
rispetto alla fase storica che si stava attraversando.
4.3. Alcune riflessioni
4.3.1. La definizione dello Stato in Lenin
Lo Stato borghese che cosa è, quale è la sua
intima essenza? È una forma istituzionale che tende ad assolutizzarsi, a
slegarsi dalla materialità delle relazioni sociali, a divenire
un'astrazione, come espresso da Hegel, e che nasce dalla volontà
politica, molto concreta, di estendere le prerogative dello Stato
assoluto aristocratico che si sacralizza ininterrottamente,
reiteratamente, fino a divenire paradigma della razionalità. Lo Stato
borghese si presenta in questa forma anche quando è minima e irrisoria
la sua funzione sociale, come è stato agli inizi della sua storia e come
pare divenire il suo attuale orizzonte.
Bisognerà, ovviamente, compiere delle astrazioni su una realtà storica
che è estremamente variegata e plurale, ripercorrendo la stessa
astrazione ideale che lo Stato borghese ha compiuto nel costituirsi.
Abbiamo la definizione generale dello Stato in Lenin, una definizione
illuminante sulla natura dello Stato in quanto tale, in quanto Stato:
"Lo Stato è il prodotto e la manifestazione degli antagonismi
inconciliabili tra le classi". Va scelta perché è una definizione
semplice e chiara che Lenin in Stato
e rivoluzione usa parafrasando Engels.
È l'uovo di Colombo e la scoperta dell'acqua calda. Lo Stato presuppone
una società complessa dove esiste una determinata divisione del lavoro,
delle classi e della ricchezza, sotto qualunque forma esse si diano. Si
sviluppano degli antagonismi, cioè dei rapporti di reciproca distruzione
all'interno della società, che nascono dal fatto che la struttura
economica è asimmetrica, cioè richiede la ricchezza e il potere degli
uni, che si costituiscono in classe dominante, contro la povertà e la
subordinazione degli altri che formano la classe subalterna.
4.3.2. Lo Stato, l'antagonismo e le classi
sociali
Lo Stato sorge e interviene per limitare e
per reprimere gli antagonismi, poiché, però, le cause materiali e
oggettive degli antagonismi sono le sue stesse cause di esistenza, lo
Stato non fa, in realtà, nulla per eliminarle, cioè per eliminare gli
antagonismi e si limita a neutralizzare le manifestazioni
dell'antagonismo. Comportandosi così, quando si comporta coscientemente
in tal maniera, lo Stato si riconosce come figlio naturale e diretto
della divisione della società umana in gruppi asimmetrici, in classi e
quindi come alleato necessario della diversificazione e subordinazione
sociale. L'uomo di Stato, il burocrate e il militare sono i migliori
alleati del proprietario, del nobile o del capitalista non per la loro
funzione storica ma in quanto tali. Altrimenti sarebbe
impossibile spiegarsi la genesi dello Stato, se si volesse spiegarla con
un utilitarismo storico del dominio di una classe su un altra, come
espressione lineare di questo dominio: si farebbe fatica a interpretare
tanto la genesi dello Stato, quanto la genesi di una classe o gruppo
egemone. Lo Stato sorge come gruppo a sé, come gruppo di uomini conciliatori
tra le contraddizioni e delle contraddizioni. Nella società tribale, lo
Stato e gli appartenenti allo Stato non differenziandosi dalle tribù
originarie, dai clan e dai lignaggi, entrano, però, a far parte di un
segmento particolare della tribù. Dipende dall'assimetria delle
relazioni stabilite, in base alla quale è tutto interesse del gruppo
egemone mantenere l'asimmetria e di quello dei subordinati scioglierla,
che il gruppo statale e pubblico preferisce il gruppo egemone la cui
sopravvivenza significa la sua stessa sopravvivenza.
Gli antagonismi tribali, l'antagonismo tra il contadino e il guerriero,
si sviluppano su un terreno di obblighi che il primo ha verso il
secondo. Obblighi che si connotano come rapporti di dipendenza personale
e giustificano con il ruolo stesso del guerriero, di colui che porta le
armi. Il guerriero è colui che combatte, che difende la comunità e ne è
il rappresentante militare. Lo Stato, in questa sua prima fase, non fa
altro che assumere in sé i caratteri di questa classe militare; la
classe militare e lo Stato si identificano per molti aspetti, hanno
quasi lo stesso compito. Il guerriero, però, può in gran parte liberarsi
del lavoro della terra, mentre in quanto componente dello Stato non
esercita questa liberazione, in quanto funzionario dello Stato è solo un
portatore di armi. Alla fine, il guerriero, dissociando sempre più
l'esercizio delle armi dall'origine autentica della sua preminenza
economica, diviene nobile, diviene un lignaggio e lo Stato, come nobile,
lo assume alle sue dipendenze, quando esercita la professione delle
armi. Lo Stato è adesso il conciliatore perfetto: la produzione agricola
è controllata dal proprietario - guerriero ereditario eccedente di terra
rispetto al suo bisogno, il nobile, ma la sua eccedenza torna alla
comunità sotto forma di protezione militare e di assistenza pubblica,
cioè, appunto, sotto forma di Stato.
4.3.3. Lo Stato, oltre l'antagonismo di
classe. Qualche idea da Guattarì.
La comunità tribale vive su una terra che è
segnata dalla vita dei padri e degli antenati, che è segnata dai
lignaggi che la compongono e che si presenta come una federazione di
quelli. La terra dei padri è sfruttata proprio per il fatto di essere la
terra delle famiglie che compongono la comunità, e la sua produttività è
legata alle famiglie. Anche le terre sottoposte alle famiglie preminenti
rimangono alle famiglie originarie, sotto una certa forma e proprio in
ragione del legame d'obbligo personale tra componenti dei lignaggi e
dunque delle famiglie. Tutte le terre sono per un certo grado sottoposte
a una non - proprietà, a uno spazio comune, sono un valore collettivo.
Quando, però, l'intensificazione della produzione agricola impose
l'espropriazione dei contadini e la distruzione della comunità, della
terra intesa come sede della comunità, si sostituì a questa forma di
proprietà, che manteneva una componente, un valore, collettivi, una
nuova forma di proprietà. In questa nuova forma, il dominio sulla terra
era esclusivo del proprietario e la proprietà intesa in senso
assolutamente esclusivo. Il proprietario preferisce utilizzare per la
conduzione del suo fondo manodopera non remunerata ed estranea, spesso,
alla comunità che possedeva la terra, manodopera servile. Si preferisce
ridurre in schiavitù il lavoro, piuttosto che retribuirlo. Questo
avviene in quanto si intendeva cancellare definitivamente il rapporto
con la comunità originaria, ma, paradossalmente, per mantenerlo. La
proprietà esclusiva, la proprietà magnatizia e gentilizia romana, si
appropriava, in qualche misura, della terra e della comunità, finiva per
rappresentarla; il passaggio a forme di lavoro salariato
nell'asservimento del lavoro avrebbe, invece, determinato la fine della
comunità, la costituzione di una nuova comunità, di una comunità di
eguali nell'asservimento. Lo Stato classico non prevede il sovvertimento
delle norme della comunità che un rapporto di dominio sociale basato sul
lavoro salariato avrebbe determinato; non prevedeva, in poche parole, la
sudditanza sociale stabilita col danaro e regolata con il mercato, ma
una sudditanza che riprendeva, come in un ombra, il valore collettivo
della società tribale. Questa fu la base della grande intelligenza della
politica sociale dello Stato romano.
Gli antagonismi inconciliabili che lo Stato della classicità amministrò
furono, quindi, tenuti in una specie di semi incoscienza oggettiva,
non si cercò, anche se la situazione sociale ed economica lo avrebbe
permesso, di farli maturare, di portarli alle conseguenze che
presupponevano.
Lo Stato classico, come, dopo di quello, lo Stato medioevale ha cercato
di ancorare gli antagonismi a un tessuto di obblighi sociali che
trovavano la loro giustificazione sull'uso di una terra comune, che
producevano una intelaiatura di legami indiretti, diretti e trasversali
con il padrone e sfruttatore effettivo. Quando lo sfruttamento della
comunità rischiava di diventare diretto ed egualitario, svincolato da
obblighi personalizzati, allora si introduceva lo schiavo, il
prigioniero di guerra, lo sradicato e il rovinato dai debiti. Non
esisteva un sostrato adeguato a ribaltare questa situazione: non
esisteva in sostrato economico basato sul danaro e sul mercato del
danaro.
4.3.4. Il capitalismo e lo Stato
Nel periodo caratterizzato dal dominio del
capitale e della sua produzione, lo Stato è prodotto anch'esso di
antagonismi inconciliabili, ma mentre prima si davano inconciliabili
nella sostanza, senza però presentarsi come tali e senza che
l'antagonismo divenisse il fondamento stesso dell'economia e il suo
motore, ora si propongono come tali anche nell'apparenza, anche in ciò
che appare alla superficie della comunità, nell'economia. La comunità
perde un valore collettivo e si trasforma in una sommatoria di
individualità e, nei fatti, muore; a relazioni di sfruttamento indirette
e trasversali subentrano forme dirette, basate sul tempo e non sullo
spazio, sul tempo di lavoro e non sullo spazio lavorato, sulla vita
degli individui e non su quello che la circonda. Lo strumento di lavoro
diventa forma diretta dello sfruttamento espresso, lo strumento di
lavoro diventa immediatamente denaro e il denaro misura l'uso dello
strumento di lavoro: lo sfruttamento non è estensivo, ma intensivo, La
relazione di dominio è diretta, immediata e implacabile: non possono
essere mediazioni e non possono esistere elasticità.
Non è un caso che solo adesso si elabori il concetto di classe, proprio
in risposta e in consonanza con questo tipo di sfruttamento omogeneo
attraverso orario, strumento e fine del lavoro; non è ancora un caso
che, proprio adesso, la classe operaia scopra di essere una classe
subalterna fondamentale, dopo che da secoli o forse millenni lo era
nella sostanza senza poterlo essere anche nell'apparenza, nel fenomeno.
La classe operaia, dopo secoli o millenni, si compone,
acquisisce una composizione, si raccoglie: si è costituita, insomma,
quella che il mondo romano aveva evitato di costituire, una comunità di
eguali nell'asservimento. La nuova comunità, che non ha nulla a che fare
con le comunità del passato e con i loro valori collettivi, tende
autonomamente da qualsiasi valore a organizzarsi in funzione
antagonistica. Non c'è mediazione e non c'è elasticità anche da parte
delle classi subalterne. Non è più la poetica, comunistica
e comunitaria società tribale a sancire e a consolidare lo
Stato, confondendo facilmente i suoi elementi tra le sue schiere, non
c'è nessuna comunità naturale a generare il collettivo, ma la
cinica, scientifica e implacabile legge dell'economia, come legge
oggettivizzata del capitale.
Gli antagonismi ora sono inconciliabili anche all'interno del
collettivo, dell'economia e della politica, saltano fuori come tali
nell'immaginario collettivo, nel progetto economico e nel pensiero
politico.
4.3.5. Lo Stato assoluto del capitale
Quale diviene il ruolo dello Stato?
In primo luogo lo Stato non nasce con il capitalismo, non nasce
capitalistico, ma è un'eredità storica e questa eredità storica, come
scritto in altre parti, ha avuto peso, grande peso. Lo Stato
capitalistico o borghese del XIX secolo ha affrontato un problema
centrale, quello di accelerare i tempi della sua formazione e
maturazione. Si trattò di assestarsi ai livelli dello scontro sociale
che il nuovo scenario proponeva. Non è stato un processo facile,
naturale e uniforme.
Lo Stato borghese è, però, ovunque riuscito a tenere conto della natura
dello scontro in atto che era uno scontro di antagonismi puri. Come tali
richiedevano l'insorgenza di uno Stato a carattere puro, di una quintessenza
dello Stato. Lo Stato borghese lo è. Esso riassume in sé tutte le
caratteristiche delle forme statuali che lo hanno preceduto nella stessa
misura in cui gli antagonismi di classe che pretende di mediare
riassumono, in forma nuova e chimicamente pura, gli antagonismi di
classe che hanno percorso le epoche passate.
L'antagonismo attuale è la quintessenza della ribellione a millenni di
sfruttamento. Lo Stato borghese è costretto a scendere su un terreno
vivo, spesso in prima persona e in quanto Stato, quello della produzione
e dell'accumulazione di ricchezza sociale. È questa una strada
obbligata, se vuole esprimere un dominio che sia un dominio di classe
adeguato alle classi che si affrontano. Lo Stato borghese entra
direttamente nel contrasto, ma non come presenza burocratica e militare,
come fatto esterno al conflitto che interviene per risolverlo (come
avveniva nel passato), ma come momento dell'antagonismo, parte
integrante di quello, interviene sul mercato e sulla produzione e
interviene come parte della classe egemone, come parte della classe
dei capitalisti. Lo Stato capitalistico è anche un capitalista e
l'apparato dello Stato un'impresa produttiva.
Questo significa che lo Stato borghese, se vuole veramente diventare uno
Stato borghese, deve, paradossalmente, perdere la caratteristica
borghese, per diventare lo Stato del capitale, di una classe sociale
data in forma astratta, nella sua astrazione economica. Lo Stato diviene
protagonista diretto della produzione e riproduzione del capitale, crea
e sanziona direttamente le condizioni dell'accumulazione del capitale e
fa in modo che essa possa verificarsi. Lo Stato borghese crea le
condizioni e gli scenari adeguati alla formazione, conservazione e
riproduzione del capitale, entra, dunque, nel mondo economico ed entra
anche in quello sociale, nel controllo della vita, delle passioni e
delle emozioni degli individui: lo Stato borghese entra in politica.
La contestazione proletaria, a causa dell'uniformità dei meccanismi di
sfruttamento, dell'astrattezza della produzione, tende, fin dal suo
nascere, a farsi generale, a divenire politica a mettere in
discussione i meccanismi uniformi di generazione del reddito e di
strutturazione del mercato; lo Stato del capitale percorre la stessa
strada, in senso inverso.
Al contrario delle formazioni statali del passato lo Stato borghese
tende a intervenire su ogni settore della società per sancire,
sanzionare e permettere la riproduzione del capitale.
Questa articolazione dello Stato borghese nel capitalismo, questo suo
farsi astratto e sociale, non si verificò fin da subito ma
l'esperienza dello Stato assoluto aristocratico forniva alla borghesia
un'intelaiatura burocratica e un'ideologia statalista che era facile
sviluppare nel senso e nella direzione di un nuovo assolutismo e di una
nuova astrazione, un'astrazione sociale ed economica.
Questo processo rivela la necessità, per certi aspetti drammatica, che
la borghesia sente di dominare la società tout court, come una
totalità, e senza mediazioni.
Il pensiero politico borghese intorno allo Stato e al suo ruolo fu
sviluppato solo negli anni venti, cioè dopo un secolo abbondante
dall'effettiva conquista borghese del potere politico, ma già nelle
esperienze americane di fine '800 e, più in generale, nell'esperienza di
trust e holding, in quella sorta di corporazioni e
sindacati di difesa e valorizzazione capitalistiche, si era sviluppata
una pratica, ancora embrionale, di dominio assoluto sulla società. Il
dominio assoluto è implicito nel capitale come forma economica, come
rapporto di produzione, lo richiede e fin da subito, è, insomma, un
tratto genetico del capitalismo e della sua società. Solo, però, lo
Stato capitalista maturo, lo Stato capitalista attuale, trasforma sé
stesso in uno strumento di dominio dell'economia in forme politiche.
4.4. Il contratto di lavoro e le illusioni di fine '800
Lo stato capitalistico fonda la sua origine
su antagonismi che sono manifestamente alla storia inconciliabili e nei
quali lo spazio delle norme, degli obblighi e i codici
del dominio dei comportamenti sociali sono ridotti all'osso, sono
scarnificati. L'assiomatica sostituisce la normatività.
In questo contesto l'apparato repressivo si sviluppa e raggiunge
ampiezze, valori e diffusione mai raggiunti nelle epoche precedenti.
L'apparato poliziesco sorpassa di gran lunga per complessità e
articolazione quello militare e parimenti l'apparato giudiziario si
estende, in maniera abnorme, divenendo quasi uno Stato nello Stato di
decine di migliaia di funzionari, e il potere giuridico si dota di una
normativa immensa, capace di contemplare tutti i casi nei quali la
proprietà possa essere colpita e questi casi, per il movimento che sta
sotto il capitalismo, sono infiniti.
Proprio perché il denaro non è un valore concreto, ancorabile a un
codice e a norme, ma è un valore astratto, spiegabile con un assioma,
esso scorre rapido in tutte le direzioni; il denaro è esso stesso un
flusso, ma per essere un flusso deve istituirsi una normativa sociale e
storica che ne difenda la proprietà e gli assiomi della sua
circolazione. Il danaro, che lavora per assioma, deve essere difeso,
perché questo suo lavoro si realizzi, da norme e codici; il denaro, per
certi versi, entra in contraddizione con sé, perché di per sé sarebbe
libero e non comporterebbe in quanto tale l'istituzione di un potere
sociale. Il denaro è più una potenza sociale che un potere sociale.
La genesi di un apparato repressivo e giudiziario articolato e omogeneo,
cioè socialmente diffuso, però, risponde proprio alle caratteristiche
sociali del denaro e alla sua vulnerabilità sociale; non è affatto un
caso che omogeneità e articolatezza del diritto siano essenziali fin da
subito nei rapporti di dominio capitalistici.
Abbiamo, però, veduto che già nell'800 la repressione non basta
e di fronte all'antagonismo inconciliabile di parte operaia rischia di
divenire un'ambivalenza, un'arma a doppio taglio; alla lunga porta alla
cronicizzazione del conflitto sociale in forme acute e pericolose, alla
separazione sociale e produttiva, alla forma di uno strisciante contro -
stato e contro - potere. Il capitalismo stesso, allora, ha sondato il
terreno della regolazione sociale e politica del conflitto. Le Holding
e i trusts, pur non rappresentando un salto decisivo verso
l'innalzamento della composizione di capitale, sono un primo
esperimento, posto ancora al di fuori dello Stato e limitato alla sfera
produttiva, per regolare la produzione capitalistica e razionalizzarla.
All'interno di questo nuovo contesto di capitale concentrato, dietro
questa organizzazione sindacale degli imprenditori e della produzione,
si affrontano in maniera nuova i conflitti di classe, o meglio si cerca
di raggiungere questo risultato. L'enorme aumento dello spazio di
contrattazione nelle fabbriche ottenuto dalle organizzazioni operaie
nella seconda metà del XIX secolo è in buona parte il prodotto di questo
nuovo contesto.
Negli Stati Uniti si giunse addirittura all'istituzione di un comitato
congiunto di organizzazioni operaie e padronali che aveva lo scopo di
pianificare il conflitto di classe, di prevederlo per evitarlo. Ovunque,
in ogni caso, di qua e di là dell'oceano Atlantico inizia a farsi strada
un concetto nuovo, il 'contratto di lavoro'. Contrariamente alle
apparenze e contrariamente a molte illusioni nel movimento operaio in
proposito, il contratto di lavoro, nonostante le resistenze inevitabili
che incontrò nell'ideologia degli imprenditori secondo le quali era un
vera anticipazione del socialismo, è una grande conquista del
capitalismo: il contratto di lavoro fissava e determinava le condizioni
del conflitto e se non riusciva ad eliminarle, le annullava per alcuni
periodi di tempo. Nel contratto di lavoro erano cristallizzati i bisogni
operai secondo una certa data, mentre lo sviluppo del capitale
continuava indipendente.
Il contratto di lavoro ha le sue ambivalenze e quindi anche
l'opposizione ideologica di molti settori della borghesia ottocentesca a
quelli ha le sue giustificazioni: dietro l'idea del contratto c'era un
elemento strategico anche per il pensiero e la soggettività operaia,
c'era il riconoscimento del fatto che le condizioni della produzione, le
condizioni della crescita del capitale, erano vincolate a qualcosa di
esterno a quelle, a un limite tangibile e preciso, la classe operaia.
Tatticamente e strategicamente il contratto di lavoro può essere
considerato una vittoria del capitale, una costrizione dell'antagonismo
operaio dentro le esigenze generali della produzione di fabbrica; questa
costrizione, però, richiede il pagamento di un dazio pesante: il
riconoscimento ufficiale e legale dell'esistenza di un conflitto sociale
permanente, la necessità di affrontarlo come elemento strutturale,
costante e fondativo. Insomma comparve chiaro, anche se disegnato con la
matita delle esigenze padronali, il limite dello sviluppo.
Questo limite non è analogo ai limiti sociali affrontati dalle società
anteriori, perché per la prima volta la produzione della ricchezza
sociale si rivela come fatto di massa e nella quale è tendenzialmente
coinvolta, in forme omogenee, la maggioranza della popolazione. Le
ricette antiche e classiche sono insufficienti, perché non basta più la
battaglia sul terreno della produzione, la battaglia nel luogo di
lavoro, nella fabbrica, per dire risolto il conflitto. La lotta
economica, il controllo attraverso l'economia del conflitto, appaiono
più espedienti che non soluzioni durature. Nel contratto di lavoro, i
capitalisti si manifestano consapevoli del fatto che per loro è
necessario fare cartello, darsi un'omogeneità comportamentale sul
terreno economico, e in questa maniera riconoscono il fatto che
l'economia non può risolvere da sola il problema in quanto, per rimanere
economia capitalistica, l'economia deve farsi politica, deve produrre
composizione ed unione tra i capitalisti. Si riconosce, implicitamente
e, per così dire, storicamente (davanti alla storia) che il problema
economico è politico e che il limite del capitale non è un limite
economico, come era stato, invece, il borghese per il feudale, ma
politico e cioè che l'antagonismo operaio è un limite politico allo
sviluppo del capitalismo.
Il capitalismo, che è il trionfo dell'economia intesa come
scienza, deve ammettere che l'economia non basta a spiegare e
giustificare il suo stesso sviluppo e la sua stessa genesi; la borghesia
aveva abbattuto i regimi feudali in nome del mercato, della libera
circolazione delle merci e della manodopera e della libera produzione
dei beni, aveva suscitato le rivoluzioni del XVII e XVIII secolo in nome
di una economia naturale e connaturata all'uomo; di questa economia
'naturale' aveva fatto il suo manifesto politico, pensando
ottimisticamente e in probabile assoluta buona fede, che la sua
rivoluzione sarebbe stata la rivoluzione definitiva e la sua politica
l'ultima politica. Alle fine dell'800 la borghesia visse profondamente
la contraddizione della contingenza evidente della sua politica e della
sua ideologia e si rese consapevole del fatto che la politica non era
affatto finita, anzi, per certi versi diventava fondante i rapporti
sociali.
Ma esisteva una seconda contraddizione, una contraddizione nella
contraddizione, lo Stato dei monopoli non era attrezzato per istituire
una mediazione politica generale al conflitto, era incapace di andare
oltre al cartello, all'unione su basi economiche, delle forze
produttive.
La composizione del capitale era bassa e il ruolo del lavoro operaio,
della professionalità della manodopera nel processo produttivo, alto e
determinante: i modi di produzione dipendevano dalla qualità del lavoro
operaio, dal suo mestiere. La produzione industriale era
dunque vulnerabile poiché vincolata nel suo svolgersi e operare a una
componente esterna, la professionalità dell'operaio di mestiere. La
borghesia europea è incapace di avviare processi di ristrutturazione,
negli Stati Uniti si è riluttanti nel farlo; questi processi dovrebbero
puntare a una dequalificazione del lavoro operaio e a una qualificazione
della componente meccanica nel lavoro produttivo. Sarebbe necessario un
salto di qualità nella composizione di capitale che avrebbe come
presupposto un nuovo livello di collaborazione tra le forze produttive e
tra le imprese, non più cartelli o comitati, ma un coordinamento nuovo,
inevitabilmente politico, inevitabilmente disteso sul corpo della
società e non solo su quello produttivo.
Il pensiero dell'epoca, comunque, nutriva la convinzione che fosse
maturata una sorta di regolazione autonoma e naturale, di carattere
esclusivamente economico, del mercato e del capitalismo; il capitalismo
di fine '800 diede l'impressione, a sè medesimo e agli altri, di essere
giunto a completa maturità e perfezione. Alcune frazioni socialiste
condivisero questa illusione: la creazione di cartelli finanziari, la
centralità del sistema creditizio, la possibilità di amministrare
strategie di medio periodo e di grande ampiezza geografica sugli
investimenti testimoniavano la possibilità di regolazione autonoma del
capitalismo, la capacità del sistema di riformarsi e di governare il
ciclo storico di crisi economiche e sviluppo economico.
La concentrazione dei capitali era cresciuta in maniera esponenziale e
il sistema statale, sebbene tra contraddizioni laceranti e spesso
violente, era giunto al sistema parlamentare e al suffragio universale
maschile in quasi tutta Europa e negli Stati Uniti. Il mercato, inoltre,
si espandeva senza incontrare limiti concreti e infinite comparivano le
risorse da rapinare dai paesi esclusi dallo sviluppo, infiniti i
capitali da far fruttare e riprodurre e infinita la manodopera da
sfruttare in Africa e in Asia. Il capitalismo si sentiva giovane e
adulto.
Il capitalismo, in effetti, era giovane e adulto; per quelli che erano
stati i suoi presupposti ottocenteschi, il capitalismo era davvero
giunto a maturità e sotto un certo punto di vista aveva autenticamente
raggiunto la capacità di regolarsi autonomamente, di autodeterminarsi.
Nella dimensione della contingenza ottocentesca questa armonia era vera,
ma nella dimensione generale la regolazione e il controllo dell'economia
erano, invece, una concretissima illusione: il capitalismo non era
affatto pronto per il suo futuro.
5. I primi del '900
5.1. Cannoniere e investimenti pubblici.
5.1.1. Apparato militare e capitalismo
monopolistico
Mentre il capitale monopolistico, i trust
e le holding, marciava alla conquista del mondo e si aprivano
nuove frontiere alla penetrazione dei nuovi rapporti di produzione, e
mentre questa penetrazione si prefigura capace addirittura di eliminare
le frontiere e di colonizzare il mondo intero, la crisi si presentava
ciclica e acuta. La crisi economica andò avanti dal 1873 al 1895, quasi
senza soluzione di continuità, e in quella crisi, meglio dire grazie a
quella crisi, si forgiarono e presero corpo i monopoli economici e
produttivi; nel primo decennio del XX secolo si verificarono altre due
crisi economiche, di breve durata ma di forte intensità.
La perfetta struttura capitalistica, di fronte alla crisi, si
angoscia e viene dominata dall'ansia. Il capitalismo, sistema del
dominio assoluto dell'economia e dell'autonomia dell'economia dalla
politica, non può fare a meno di voltarsi indietro verso le esperienze
del vicino passato, verso lo Stato assoluto aristocratico, verso il suo
personalissimo interventismo sulla società e l'economia. È una
dichiarazione di debolezza, è la denuncia di un'illusione mal riposta.
Il capitalismo aveva creduto di poter usare lo Stato solo per la sua
strumentazione poliziesca, militare e giudiziaria, solo in quanto
istituzione armata legalmente, ci si accorge che non è possibile
limitare in quella maniera il ruolo del potere pubblico. La richiesta
dei primi del novecento rimane sui binari della strumentalità ma esce
dal passo della strumentalità stretta: il capitalismo chiede allo Stato
di difendere il suo sviluppo non come si difende l'involucro, ma come si
difende il contenuto, l'essenza. La richiesta agli Stati si giocò su due
fronti: quello estero e quello interno.
All'estero si pretende che lo Stato sancisca, anche militarmente, gli
interessi delle grandi concentrazioni monopolistiche a carattere
nazionale: fu la politica delle cannoniere. Gli interventi francesi in
Marocco, quelli tedeschi in Africa orientale, gli Italiani in Libia e
gli Stati Uniti a Cuba fecero parte integrante di questa politica. I
grandi colossi delle industrie nazionali, scoprendo il doppio interesse
dell'apparato militare (da un punto di vista economico e produttivo e
dal punto di vista degli scopi politici), decisero di recintare aree
geografiche dove esprimere la loro influenza, ove collocare investimenti
e dove far prevalere la propria organizzazione finanziaria.
Il settore carbonifero e quello siderurgico hanno rappresentato la
pietra angolare dello sviluppo del capitale monopolistico e, insieme con
quello, anche il comparto della produzione bellica diviene, quasi per
gemellaggio, un settore dove le tendenze ad organizzare la produzione, a
organizzarla in filiera e a concentrare la proprietà diventano egemoni.
I grandi monopoli avevano bisogno anche dei cannoni per affermarsi e
l'alleanza e sinergia con la produzione di bocche da fuoco fu naturale,
oltre che redditizia. Nel caso dell'Italia di Giolitti, per esempio ed
emblematicamente, lo Stato interviene a favore della creazione di una holding
siderurgica, la ILVA, che ha innegabilmente ricadute sulla
produzione bellica. Non è affatto casuale che l'Italia giolittiana
mentre favorisce alcune grandi concentrazioni produttive, occupi la
Libia, intervenga nell'Egeo e si interessi ai Balcani.
5.1.2. L'embrione dell'intervento statale in
economia
Lo Stato ottocentesco aveva subito
l'attrazione e le direttive del capitale in maniera indiretta; lo Stato
si era limitato a difendere gli interessi della borghesia nella
produzione ovunque venissero messi in discussione, ovunque si
sviluppassero comportamenti criminali contro la proprietà dei mezzi di
produzione e contro l'accumulazione del denaro e della ricchezza
sociale, contro la privatizzazione delle risorse collettive; lo Stato si
prodigava a porre in esecuzione normative sociali che permettessero il
consolidamento e l'espansione della nuova economia e del nuovo mercato
del lavoro. Ora, ai primi del novecento, il quadro non muta nella
qualità, ma per la quantità: l'intervento statale sulla produzione
rimane indiretto e si limita a incentivarla con alcuni investimenti e
prestiti, ed è il singolo capitalista che domina il quadro, che chiede
ed ottiene dallo Stato, è il capitalista monopolista, quello più forte e
influente, che impone allo Stato l'intervento.
Sono necessarie due precisazioni: la sfera di intervento dello Stato
rimane ancorata e limitata al mondo della produzione e la forma di
intervento resta quella indiretta. Il problema del quadro globale dei
rapporti di produzione non viene affatto percepito; il dominio
del sistema complessivo, delle condizioni della sua riproduzione e del
suo sviluppo, non viene considerato un problema generale della società,
e neppure un compito del potere pubblico, poichè, secondo l'illusione
ottocentesca, si risolve da sé e non è un problema: sarà l'economia,
nella sua autosufficienza, naturalità ed autonomia, a
risolverlo. Il problema dello sviluppo non è un problema politico perché
la politica ha già risolto il problema scegliendo l'economia.
Le iniziative dello Stato sull'economia, quindi, sono svolte in maniera
non unitaria, non organica, e a diversi livelli, per espedienti
contingenti; ci sono iniziative finanziarie, manovre bancarie, prestiti,
sconti monetari e ci sono anche iniziative di carattere politico, come
la emanazioni di legislazioni e di leggi, oppure l'istituzione di lodi
arbitrali per la soluzione dei conflitti sociali o per la gestione dei
contratti di lavoro, ma non esiste un intervento sociale dello Stato. Lo
Stato non affronta i problemi sociali secondo i loro caratteri politici
profondi, secondo la loro multiforme esposizione, secondo quanto lo
stesso capitalismo propone con l'omogeneità della produzione e del
mercato del lavoro e delle merci. Lo Stato si ritrae dall'astrattezza e
socialità dei rapporti sociali e abdica alla loro amministrazione,
mentre il capitalista ritiene assolutamente dovuta questa abdicazione e
necessaria alla conservazione della sua libertà e, politicamente, alle
libertà generali e diritti individuali. Lo Stato, in definitiva, non
scende al livello concreto dei problemi della società.
Non che il capitalismo non patisse l'angoscia del limite esterno al suo
sviluppo, anzi la concentrazione monopolistica, oltre che una risposta
alla lunga crisi di fine ottocento, è anche una replica all'aggressività
organizzata della classe operaia e alla centralità del lavoro vivo nella
produzione di fabbrica. Il capitale, però, si trovava in una fase
espansiva e giovanile e in generale ottimistica: la posta in gioco erano
le risorse potenziali (in manodopera e materie inanimate) dell'intero
pianeta e gran parte del pianeta non era ancora capitalistico.
Se esiste un limite interno, una frontiera interna, abbattiamo le
frontiere esterne e allarghiamo i limiti esterni.
Gli Stati imperialisti, che si sviluppano adesso, hanno interiorizzato
questa secca contraddizione. La foga della conquista e del saccheggio
dei mercati vergini, dei nuovi mercati, nasce anche dalle difficoltà
incontrate nel governare il lavoro operaio in patria, nel restringere il
salario relativo nelle fabbriche e nella difficoltà nell'arrestare il
declino del saggio di profitto da produzione. Lo Stato imperialista
trasferisce all'esterno i problemi economici interni alle sue frontiere;
lo Stato imperialista costitutivamente non li affronta.
La costituzione imperialista dello Stato dei primi del novecento non
richiede l'intervento sulla società e l'organizzazione di un relativo e
conseguente progetto politico. L'incredibile successo e proliferazione
tra gli anni novanta del secolo scorso e i primi vent'anni di questo
secolo del pensiero e delle ideologie nazionaliste è sintomatico del transfert
imperialistico.
5.1.3. Verso una nuova composizione di capitale e del
lavoro
Anche negli Stati Uniti si verificano gli
stessi processi europei ed emergono le medesime aporie e difficoltà
nello sviluppo capitalistico, ma in forme diverse. In America, grazie
alla grande disponibilità di manodopera, fu possibile avviare una
parziale ristrutturazione dell'apparato di produzione e alcuni elementi
della composizione di capitale mutarono. In alcuni settori industriale
(soprattutto i settori orientati verso la produzione di beni di consumo,
tessile e manifatturiero) il lavoro dequalificato, privo di componenti
specifiche di mestiere, tendeva a divenire centrale, mentre quello
specializzato veniva allontanato dal centro della produzione, andando ad
assumere un ruolo di controllo sul lavoro dei dequalificati.
Inoltre, proprio i settori dove si introduceva questa novità nei modi di
produzione acquisivano, molto gradualmente, una posizione centrale
rispetto agli altri settori produttivi: la produzione di beni di
consumo, in America, principiava a essere prevalente sulla produzione di
materie prime, materiali grezzi, lavorati e mezzi di produzione. Al
contrario, in Europa, la produzione rivolta alla produzione e non al
consumo di beni rimaneva centrale nella composizione organica del
capitale.
Non che negli Stati Uniti, tra gli anni novanta e i dieci, si sia
determinata già una nuova costituzione di capitale e una nuova
composizione nella classe operaia, ma la tendenza era ben individuata:
la dequalificazione ulteriore del lavoro e la perdita del valore del
mestiere operaio, della sua professionalità, si faceva strada. Questa
nuova via, però, non si associava con un salto di qualità nel
macchinismo, con una aumento del peso del lavoro morto su quello vivo,
del lavoro delle macchine su quello operaio. È il valore della
produzione a bassa qualifica, la sua importanza, a crescere e non il
sistema delle macchine: all'interno del sistema economico statunitense i
prodotti delle fabbriche che richiedono un minor contenuto professionale
assumono maggior peso quantitativo, anche se non impongono un salto
qualitativo nei modi di produzione e nelle relazione tra lavoro e
macchine.
Questo determina in USA un ibrido produttivo, una situazione di stallo
tra lavoro operaio professionale e dequalificato, che se all'inizio
divide la classe operaia, semplificando il controllo padronale, alla
lunga provoca una pericolosa combine: i nuovi operai, che svolgono
mansioni umili, basse e prive di mestiere, uniscono il loro disinteresse
verso quel genere di lavoro con il tradizionale antagonismo e
opposizione dell'operaio tradizionale e professionalizzato e
con l'eredità organizzativa di quello.
Parimenti gli Stati Uniti, nonostante i comitati federali per la
contrattazione sindacale (N.C.F.) e l'indebolimento oggettivo e
soggettivo delle posizioni dell'operaio di mestiere, furono percorsi,
tra 1895 e 1920, da un ciclo impressionante e quasi ininterrotto di
lotte operaie che assunsero, in alcuni casi (Seattle), carattere
insurrezionale. La borghesia americana toccò il limite al suo sviluppo
con più fisicità e immediatezza che non la coeva compagna di classe
europea.
Lo Stato imperialista statunitense, però, poteva guardare al mondo con
occhi diversi rispetto a quelli europei, perché gli Stati Uniti erano in
gran parte un territorio da colonizzare, vergine capitalisticamente e
ricco di manodopera immigrata. Gli Stati Uniti possedevano un retroterra
per il loro imperialismo che era sconosciuto all'Europa.
5.2. Stato imperialista e antagonismo
5.2.1. Lo Stato assoluto della borghesia e la
dialettica
Abbiamo scritto dello Stato, ma è necessario
ora aprire una parentesi sulle lotte operaie che si svilupparono in
quegli anni.
Perché necessario? Perché la storia dello Stato imperialista,
dell'espressione epocale del capitalismo monopolistico, e lo Stato
imperialista stesso furono segnati e determinati dall'antagonismo
operaio, dai conflitti di classe e dai bisogni che la fase e quella
composizione di classe espressero.
Non è certo vero che lo Stato si modella sull'antagonismo, che è un
semplice negativo del contro - potere proletario, poiché, se questo
fosse vero, non si potrebbe parlare di Stato borghese ma di un semplice
'sindacato', di un'organizzazione 'sociale' della borghesia. Lo Stato,
invece, è l'organizzazione di tutta la società, che ai tempi del dominio
economico e politico della borghesia ha il compito di organizzare e
controllare la società in maniera funzionale alla realizzazione ed
esecuzione degli interessi della borghesia.
Lo Stato, dunque, agisce come organizzazione della classe borghese solo
a un determinato livello della politica, dell'economia e della società,
a quel livello che è interessante e investe l'intera società e tutte le
altre classi sociali. Sono abbastanza critico verso una parte del
marxismo contemporaneo che tende a semplificare, in modo sostanzialmente
rozzo sebbene stilisticamente ineccepibile, gli antagonismo in antitesi
secche e implacabile, metafisiche e trascendentali. L'evoluzione della
forma dello Stato è, invece, leggibile e comprensibile solo in termini
dialettici, di compenetrazione e contaminazione reciproca.
Lo Stato borghese, in quanto organizza gli interessi della borghesia
sulla società, lancia e veicola messaggi concreti e precisi che
provocano concrete e precise risposte e reazioni da parte della società
intera. Vediamo dunque questi meccanismi, vediamo le lotte operaie, dopo
tanto parlare di Stato.
Potrebbe sembrare un controsenso e una virata di boa, concentrare
l'attenzione sulle agitazioni proletarie di quegli anni. Come in buona
misura, però, le jacquerie contadine determinarono, con la
loro ricchezza, complessità ed estensione, contromisure ideologiche,
ecclesiastiche e strutturali nella forma Stato del XIV - XVII secolo,
cioè nello Stato assoluto aristocratico, così le lotte operaie e gli
antagonismi espressi in Europa e negli Stati Uniti negli anni precedenti
e contemporanei alla Grande guerra esercitarono un ruolo fondamentale in
tal senso.
Quelle lotte e quegli antagonismi aiutano a capire lo Stato assoluto
borghese che generò quella guerra e le dinamiche sociali che lo
portarono a quella scelta.
5.2.2. L'anticipazione proletaria e le cause
della guerra imperialista
Non è, però, un facile compito quello di
comprendere e inquadrare lo sviluppo dello Stato assoluto borghese a
partire da un sostanziale esterno all'organizzazione economica
capitalistica. L'antagonismo, quando il capitale si è pienamente
sviluppato, si esprime con grandi molteplicità di forme, mai in maniera
univoca, e spesso si intreccia con lo sviluppo produttivo, come
risposta, e altrettanto spesso lo determina; si creano delle relazioni
indistricabili tra i due poli, fino al punto che, sotto un certo punto
di vista, è difficile riconoscerli come poli.
Lo sviluppo capitalistico, come quello di ogni altro formazione sociale
precedente, è stato diseguale, disarmonico e spesso squilibrato; le
condizioni storiche che lo hanno accolto sono state diverse da nazione a
nazione. Analogamente, l'organizzazione del lavoro, gli strumenti
ideologici usati per la mediazione dello scontro sociale e i rapporti
sociali in genere cambiano da luogo a luogo.
Se non è individuabile un piano armonico nello sviluppo e una legge
generale per quello che preveda velocità e tempi calcolabili e strutture
e istituzioni predeterminabili, esiste, però, un nesso preciso, una
ciclicità tra sviluppo delle forze produttive capitalistiche e
lotte operaie. Questa ciclicità si è sempre rivelata, in forme per
l'appunto diverse, in ogni paese, luogo o nazione interessati dalla
sviluppo del capitale e della borghesia. Questa ciclicità rivela,
quindi, il carattere internazionale del sistema economico e produttivo
capitalistico, carattere genetico e primordiale, presente fin dall'epoca
della manifattura settecentesca. Proprio la differenziazione
nazionale dei rapporti sociali di capitale, in presenza di un
sistema che corre naturalmente e per genetica verso
l'internazionalizzazione, fu una delle principali cause strutturali
della prima guerra mondiale e su queste diversità e squilibri
intervenne con prepotenza il ciclo delle lotte proletarie e in parte
determinò l'approfondimento di differenze e disarmonie.
Precisamente come il capitale manteneva una struttura localizzata, ma
tendeva ad assumerne una internazionale, così, nonostante esistessero
particolari composizioni materiali e politiche proletarie, tutte quelle
possono essere riassunte, in maniera sintetica e a posteriori, in una
composizione politica internazionale capace di mettere all'opera cicli
di lotta internazionali che interessavano il sistema del capitale nel
suo complesso. Capitalismo e antagonismo operaio, ancora di più, se
messi a confronto generavano un paradosso pericolosissimo per il
capitalismo: la struttura del capitale era internazionale ma non
riusciva ad esprimersi che in forme nazionali, parimenti i cicli delle
lotte operaie erano di carattere internazionale e spesso riuscivano a
divenire programmi di lotta internazionale o addirittura lotte
internazionali. In questi anni (grossomodo il periodo 1890 - 1920) i
proletari, a livello mondiale, dimostrarono una capacità di
anticipazione rispetto alla costituzione di capitale e per converso
rispetto alla loro stessa composizione materiale di classe.
La guerra imperialista si può spiegare anche a partire dalla globalità
geografica con la quale si esprimeva: i movimenti proletari erano giunti
prima a immaginare un sistema economico mondiale, prima del capitalismo
stesso che lo aveva, invece, concretamente costruito. La psicosi della
Rivoluzione d'ottobre mise in carne, a livello dei media di allora,
questo sorpasso e cioè il fatto che il movimento del valore d'uso era in
grado di costruire una società di massa proiettata a livello mondiale,
contrariamente al movimento del valore di scambio, contrariamente
all'organizzazione sociale capitalistica.
5.2.3. Cicli internazionali di lotta e la grande
paura del capitalismo mondiale
Due cicli internazionali di agitazioni
operaie, una specie di migrazione transnazionale delle lotte, si
verificarono nel 1905 e poi negli anni 1911 - 1912. Al centro di quelli
era sia l'operaio appena immigrato e a basso contenuto professione (semi
dequalificato) statunitense, sia gli operai specializzati del settore
metallurgico europeo, sia i minatori tedeschi (che quanto a
specializzazione ne conoscevano ben poca), sia i braccianti agricoli
italiani e sia, infine, i giornalieri impiegati nell'agricoltura
americana. L'ondata di lotte interessò ogni settori del lavoro
salariato, mettendo in luce una globalità dello sfruttamento rispetto
alla quale lo stesso padronato era impreparato tanto in termini politici
quanto sociali.
Da una parte gli scioperi italiani del 1904 - 1905, insieme con
l'insurrezione di Pietroburgo del 1905, manifestarono una grande
capacità di ricomporre politicamente la classe operaia, al di là delle
divisioni e diversità nella composizione materiale e delle mansioni. Da
un'altra parte, la lotta dei proletari tedeschi, che prende avvio dal
settore dell'estrazione del carbone nel 1903, si estende e nel 1905
coinvolge il settore metallurgico, il settore, cioè, trainante
dell'economia, dimostra l'esistenza di un motore, di un volano, nelle
lotte, di una circolazione spontanea (o anche mediata dalle
organizzazioni socialiste della seconda internazionale) ma strategica,
capace di una strategia generale.
Questi processi di ricomposizione e solidarietà impattarono fortemente
sul capitale europeo che non era preparato ad affrontare lo sviluppo
internazionale delle agitazioni.
Uno degli elementi nuovi, anticipatori e disorientanti. di questi cicli
di lotta, elemento comune a tutte, e che ebbe maggiore dirompenza sugli
assetti del dominio economico e politico furono la socialità e
politicità immediata delle lotte. Questo elemento, soprattutto in
Europa, contribuì a costruire uno scenario prerivoluzionario.
Segno potentissimo venne offerto dall'esperienza russa del 1905, dallo
sciopero generale politico di Pietroburgo di operai, soldati della
marina zarista e dalle agitazioni radicali nelle campagne dei contadini
senza terra. Queste vie diversissime, bisogni in iniziale e apparente
indipendenza, questi mondi proletari paralleli, trovarono congiunzione
nell'istituzione del Soviet che si presentava come una vera istituzione
di potere antagonista, dopo quella comunarda del 1871. L'Italia non fu
da meno e nel 1904 si giunse anche qui a uno sciopero generale politico,
contemporaneo e parallelo ai movimenti degli edili, dei metallurgici e
dei braccianti agricoli. Infine i grandi scioperi cittadini in Francia.
Al di là delle singole rivendicazioni (quasi tutte incentrate sulla
riduzione della giornata lavorativa, sui diritti di organizzazione e
aumento delle retribuzioni), quello che lega queste lotte,
determinandone il ciclo, è l'immediata politicità; le agitazioni,
indipendentemente dalla partecipazione e promozione delle organizzazioni
politiche ufficiali del proletariato, si traducevano in e disegnavano,
nel loro stesso svolgersi e nel loro stesso muoversi, un antagonismo
radicale, articolato e una solidarietà che prefigurava, oltre
all'interpretazione ideologica dei partiti socialisti, una nuova
società. Le unioni di intenti, le simpatie tra lavoratori di diversi
comparti industriali e dell'agricoltura, tra muratori e minatori, tra
soldati e operai metalmeccanici erano semplicemente impensabili qualche
decennio prima; ora al contrario emergevano come carattere fondante,
costituivo, delle agitazioni.
5.2.4. Globalità proletaria e localismo
borghese
5.3. Antagonismo e seconda internazionale
5.3.1. Il declino della centralità operaia e
dell'internazionalismo
Il ruolo che svolsero e l'atteggiamento che
tennero le organizzazioni socialdemocratiche nei confronti delle lotte
d'inizio secolo furono ambigui ed equivoci. In primo luogo, sempre alla
lotta operaia seguì l'iniziativa politica che mai la precedette e
neanche la prefigurò. Questo elemento, del venir in sequenza e del
tenersi in retroguardia, constantemente indietro da parte dei
socialisti, è facilmente riconducibile alla linea politica assunta dalle
organizzazioni appartenenti alla seconda internazionale; questa linea
politica è il prodotto, essa stessa, di un marcato distacco dai bisogni
delle masse e dell'incapacità a leggerne la composizione. Anzi l'analisi
dei partiti della seconda internazionale ignorava del tutto la
problematica della composizione di classe e parallelamente sviluppava un
distacco politico dalle concrete espressioni delle masse proletarie e
popolari in genere. Dopo le esperienze iniziali, dopo il fallimento
della prima internazionale, si nota una svolta netta, una virata, nelle
forme organizzative dei partiti socialisti europei. All'idea iniziale di
una contrapposizione antitetica, antagonistica, al capitale, ne segue
un'altra che trasforma la tattica in strategia. In Europa, giustamente,
la lotta e l'iniziativa politica a fianco delle componenti di capitale
più avanzate parevano fondamentali per la crescita politica del
movimento operaio e degli spazi per la sua azione; in Europa, infatti,
la costituzione di capitale determinava difficoltà all'emergere di uno
Stato borghese capace di comprendere in sé gli antagonismi che lo
sviluppo economico provocava e buona parte degli Stati rimanevano
ancorati a istituzioni precapitalistiche, anche se, ormai,
capitalisticamente determinate.
La lotta al fianco di radicali e repubblicani per l'eliminazione del
residuo ruolo istituzionale della monarchia e per il suffragio
universale caratterizzò la strategia politica dei partiti delle seconda
internazionale. Nella sostanza avvenne che quella che avrebbe dovuto
essere un'alleanza tattica si trasformò in un fine strategico. Quelle
importantissime rivendicazioni di diritti civili e politici furono
slegate dalla concretezza dell'antagonismo che si sviluppava
potentissimo in quei primi decenni del secolo. Invece che gruppi di
operai combattivi, che avevano caratterizzato il capitale umano della
prima internazionale, penetrò nelle organizzazioni della seconda
internazionale uno strato di democratici, umanitari e illuminati
professori e accademici socialisti che furono i protagonisti e i
corifei, oltre ché i migliori interpreti, di questa alleanza storica tra
democrazia e socialismo, tra diritti civili e lotte operaie. Questo
ambiente e questi nuovi orizzonti si cementarono in un unico edificio
organizzativo e politico. Si trattò, allora, sempre di più, quando si
faceva 'politica generale', quando si faceva strategia, non di
teorizzare una lotta politica anticapitalistica coniugata a
rivendicazioni tattiche democratiche che giocassero sulle contraddizioni
interne al capitale europeo per farle esplosive, ma di dividere i due
aspetti: prima quello e poi, dopo e disgiuntamente, l'altro.
Se, da una parte, si perdeva di vista la centralità dell'espressione
sociale della classe operaia nell'elaborazione politica e strategica,
per affidare posizione stellare alle rivendicazioni delle componenti
borghesi più avanzate, dall'altra parte e inevitabilmente si lasciava
dietro di sé, senza dirlo né dichiararlo ma percorrendolo nei fatti, il
secondo elemento forte che aveva caratterizzato l'esperienza della prima
internazionale, l'internazionalismo operaio, poiché la borghesia si
caratterizzava come forza sociale eminentemente nazionale e
nazionalizzata.
Questo modo di costruire la linea politica non avvantaggiò l'analisi
dello sviluppo dei rapporti di produzione in ogni signolo paese, come
avrebbe in linea teorica potuto essere, proprio perché il capitalismo
non è analizzato nella sua concretezza mondiale e quando lo si pensa in
quanto tale lo si appiattisce, paradossalmente, su un'amalgama di
fenomenologie uniformi, secondo le quali si dà uno sviluppo equilibrato
del capitale attraverso una serie di tappe fisse e inamovilibili, su una
teleologia. In base a questa teleologia è possibile valutare il grado di
sviluppo di ogni singolo paese e conseguentemente le possibilità della
rivoluzione proletaria. Suffragio universale e parlamentarismo uniti
all'emergere nell'economia di grandi concentrazioni produttive diventano
i parametri per valutare lo sviluppo del capitalismo in ogni singolo
paese. Il conseguimento del suffragio universale e della democrazia
parlamentare diventano gli obiettivi rivoluzionari e prioritari. In tal
modo la componente borghese progressista assume un ruolo centrale nella
seconda internazionale, proprio in nome del perseguimento degli
obiettivi specifici del movimento socialista.
Questo complesso analitico e organizzativo sfociò, nella seconda fase
della vita dei partiti della seconda internazionale, nella teoria di un
passaggio graduale, meccanico, necessario e automatico dal capitalismo
ormai maturo al socialismo. Questo atteggiamento, in realtà, divenne
effettivamente interclassista: i partiti socialdemocratici realizzarono
nel seno della loro organizzazione un'alleanza tra proletari e borghesi
nazionali. Un'alleanza illusoria e impossibile che favoriva i secondi e
relegava i primitivi obiettivi dei primi nel terreno dell'utopia.
I partiti socialdemocratici si trasformarono in grandi partiti di massa
nazionali, sposando abbastanza velocemente le motivazioni del capitale
nazionale che avrebbero dovuto affrontare e aggirare.
5.3.2. I partiti socialisti e la classe
operaia
I partiti socialisti della seconda
internazionale dimenticarono, nella concretezza dell'agire politico
anche se non nella fraseologia, il concetto semplice e sconvolgente di
internazionalismo proletario. Non si sarebbe trattato di un richiamo
ideologico ma di un riferimento alle lotte, alla materialità dei
comportamenti operai che tra gli anni novanta dell'800 e il 1920 si
espressero. La seconda internazionale finì per riconoscere centralità,
maturità, ruolo positivo alle singole borghesie nazionali.
I partiti socialisti divisero il campo capitalistico in diversi settori,
costruiti a partire dal loro livello di sviluppo, senza però
ricostituirlo nell'unico campo del capitalismo mondiale. In tal maniera
frenavano le iniziative operaie in più casi, in nome dell'arretratezza
dei paesi e della precocità dei movimenti; chiarissimi l'atteggiamento
verso il movimento russo del 1905, o in tutt'altro luogo verso i Fasci
siciliani nel 1893 e in forma quasi chimicamente pura l'assoluta
incomprensione dei cicli di lotta negli Stati Uniti, bollati, in
perfetta linea con le teorizzazioni del Partito Socialista americano che
accusava i movimenti di avventurismo, provocazione e assoluta
impoliticità. Proprio l'atteggiamento intellettuale del partito
americano e delle federazioni sindacali di mestiere (AFL) potrebbe
essere usato per descrivere, in una sola soluzione, quello generale; fu,
per certi versi, emblematico. Dal momento che le lotte erano
organizzate, trainate e riempite di contenuti soprattutto da operai
dequalificati, da operai agricoli e, per di più, di recentissima
immigrazione (italiani, irlandesi, slavi) non furono considerate con la
dovuta serietà analitica: la strategia seria, la serietà, sarebbero
dovute giungere dall'operaio qualificato, inserito nelle tradizionali
organizzazioni di categoria e anglicizzato: si trattava, quindi, secondo
questa visione profondamente nazionalista dello scontro sociale, di
lotte e movimenti 'minori'.
Tutti i partiti socialisti dell'epoca, in loro ogni frazione, furono
subordinati a questa logica: centralità della nazione
nell'organizzazione e nell'interpretazione delle lotte, meccanicismo, e
automatismo. Spesso la frazione massimalista, seppur critica verso la
politica dei vertici e orientata verso una direzione rivoluzionaria e
spiccatamente anticapitalistica, non riuscì a superare i limiti di
questa impostazione e anzi, spesso, ne diede una rappresentazione
estremistica, nella quale la classe operaia professionalizzata e
nazionale, e solo quella, conquistata ideologicamente dal pensiero
massimalista e dalle ipotesi politiche di quello, avrebbe accelerato il
corso della storia e l'attuazione della teleologia. Si trattava di una
versione 'più veloce' del progetto riformista.
5.3.3. Massimalisti, riformisti e classe
operaia
Ci furono dei tentativi di uscire da questa
impostazione, spesso generosi, ma piuttosto goffi. Il caso migliore e
meglio costruito fu quella di Rosa Luxenbourg, che denunciò questo stato
di cose e ne individuò la causa nella prevalenza degli intellettuali
dentro il partito, teorizzando, di contro, una centralità 'fisica' e
materiale dei quadri operai nelle organizzazioni politiche del
proletariato.
Rosa non sbagliava del tutto, ma si limitava a proporre una risposta
sociologica a un problema politico, quasi che gli intellettuali non
avrebbero avuto la capacità di calibrare, o meglio ri-calibrare, gli
indirizzi teorici del partito per condizionare nuovamente i quadri di
estrazione operaia. Il problema non era la presenza operaia nel partito,
ma il concetto che il partito aveva della classe operaia: una grande
risorsa, riformista o rivoluzionaria, indipendente dallo sviluppo
storico del capitale, spettatrice delle grandi trasformazioni
capitalistiche e non parte in causa, poiché era il fine determinato, la
teleologia a governare i processi, indipendentemente dagli elementi del
processo. Riformisti e massimalisti furono coinvolti in una visione
della classe operaia che ne faceva un'entità impenetrabile, immota e
immobile, sotto il profilo delle energie storiche, alla contaminazione
dell'ideologia borghese.
Su tutto un altro versante, quasi un altro mondo, l'organizzazione
sindacale americana degli Industrial Workers of the World (I.W.W.),
rifiutando la tattica e la strategia politica, o meglio la politica
organizzata secondo una tattica e una strategia nel confronto con il
nemico di classe, pare subordinarso inconsapevolmente a questa
impostazione, sembra declinare ad altri quello che, invece, doveva
essere il risultato naturale dell'antagonismo, che correttamente
amministrava e organizzava.
Seppur in forme diverse, gli spartachisti in Germania, i massimalisti
italiani e i sindacalisti di base americani caddero nel medesimo
equivoco: a un'organizzazione proletaria egemonizzata da uno strato
piccolo - borghese e progressista risposero con l'affermazione di una
centralità fisica dell'operaio. L'equivoco fu nel credere che l'operaio
potesse racchiudere tutte le contraddizioni del capitale e dunque
avesse, in quanto tale, la capacità di riorganizzare la società e
realizzare la rivoluzione: l'operaio era immediatamente rivoluzionario,
secondo queste visioni, e come tale destinato, senza mediazioni, a
imporre un nuovo e complessivo punto di vista. Paradossalmente questa
concezione della classe operaia non era molto distante da quella dei
riformisti: la classe operaia era una incredibile massa di risorse per
la realizzazione del cambiamento. Il pensiero politico socialista, in
ogni sua versione, si era, in realtà, reso indipendente dallo sviluppo
della classe operaia, dalla classe operaia concreta, per costruire
un'altra concretezza operaia, indistruttibile e metafisica.
Questo assunto è comprensibile nell' I.W.W. che fu il prodotto di un
antagonismo che tendeva immediatamente a trabordare il settore
produttivo, lo scontro tra capitale e lavoro in senso stretto, per farsi
sociale, per ricollocare ed estendere la antitesi capitale - lavoro
anche nella società (lotta al carovita, calmieri sui prezzi di trasporti
e affitti), molto meno comprensibile per le frazioni rivoluzionarie
dentro i partiti socialisti aderenti alla seconda internazionale.
Il fatto è che fu messo al centro dell'analisi un unico soggetto, un
prodotto dell'epoca, senza cercare di travalicarne le caratteristiche
con un progetto politico generale. Negli Stati Uniti lavorava un
soggetto più moderno rispetto a quello europeo, che ha reso ricca e
attuale l'esperienza degli I.W.W., in Europa lavorava ancora l'operaio
tradizionale, professionalizzato, che ha contribuito a evidenziare
maggiormente i limiti teorici di questa impostazione, fino al punto che
una volta assunta dal partito socialista americano lo ha condotto a
schierarsi apertamente contro i movimenti operai organizzati dagli
Industrial Workers of the World.
5.3.4. Proletari europei e proletari
americani
Gli I.W.W. non avevano necessità di gran
parte del bagaglio teorico che accompagnava la socialdemocrazia europea,
non era necessaria una battaglia sulla democrazia elettorale o contro le
sopravvivenze feudali né contro l'istituto monarchico. Conseguentemente
la necessità di mettere in piedi un'organizzazione gerarchizzata e
burocratica, sul modello dello Stato, quale era quella dei partiti
socialisti, era meno sentita.
Per gli Wobblies il problema era spostato più in avanti
(tenendo dietro ai meccanicismi della socialdemocrazia), si delineava
all'orizzonte, dal basso e magmaticamente, la possibilità di un nuovo
assetto sociale che investiva ogni settore del vivere associato; gli Wobblies,
però, finirono per commettere lo stesso errore dei massimalisti europei,
rifiutando di concepire un piano e modulo organizzativo alternativo a
quella della socialdemocrazia.
Tutti quanti, grosso modo, si limitarono a percorrere, in senso
contrario, il tragitto dei partiti socialdemocratici, ancorandosi, come
quelli, a una specifica composizione di classe.
In Europa, sotto questo particolare aspetto, il compito della
socialdemocrazia fu facilitato, poichè il proletariato europeo, tanto
quello operaio, quanto quello agricolo, per ragioni strutturali legate
alla forma produttiva, manifestava un fortissimo attaccamento al lavoro,
alla produzione e al suo ruolo in quella. Il lavoro operaio era
l'orgoglio operaio nella produzione e sulla produzione: l'operaio era
insostituibile e prezioso, e solo per questo il vero nemico del
capitalista. E, quindi, se usava spesso la sua alta professionalità
contro il padrone e per determinare il successo delle lotte e degli
scioperi, alla stessa maniera manifestava nei suoi confronti e nei
confronti del sistema di fabbrica una sorta di simpatia, di accettazione
e di glorificazione. L'etica del lavoro era un terreno comune e
indiscutibile che basava le relazioni contrattuali tra capitalisti e
operai, un terreno comune dove era possibile intendersi e comprendersi
reciprocamente. Negli Stati Uniti l'operaio di mestiere perdeva terreno
nella produzione, perdeva centralità e ruolo e l'etica del lavoro
diminuiva la sua sfera di azione e di riconoscimento sociale.
La socialdemocrazia mise, per parte a sua e a suo modo, al centro questo
soggetto. enfatizzando a livello politico queste tendenze verso la
mediazione che gli erano proprie. I partiti socialisti costituirono
sulle caratteristiche di questo soggetto operaio, che poneva il lavoro
al centro della sua contrattualità, non solo una linea politica e una
strategia che ne prevedeva l'uso come massa e risorsa per la lotta
democratica e la graduale elevazione al socialismo della società, ma una
filosofia e quasi un'antropologia, ampiamente condivisa da ampi settori
del pensiero borghese.
Le lotte sociali, che avevano contraddistinto il movimento operaio
americano, passarono in secondo piano e il momento politico
qualificante, il discorso sulla società, rimaneva riservato al partito e
alla sua elaborazione.
Negli Stati Uniti gli I.W.W. non seppero cogliere la possibilità di
arricchimento del materiale politico che proveniva dal basso e dalle
lotte che essi stessi organizzavano: le forme di lotta che il nuovo
soggetto embrionale proponeva parevano garantire da sole la costituzione
di una nuova società.
Ci troviamo di fronte, in realtà, a due mistificazioni ideologiche
costruite sul soggetto operaio, una in senso anticapitalistico e l'altra
riformista, che usano la stessa tecnica di fermentazione sulla
composizione operaia. Non deve stupire se entrambe queste posizioni di
fronte alla grande guerra, al pieno dispiegamento del capitalismo
mondializzato, mostreranno una notevole inadeguatezza.
5.4. Stato, ristrutturazione e guerra
5.4.1. Declino e decadenza del sindacalismo wobbly
negli anni dieci
Le lotte operaie americane si fecero motore
di sviluppo dell'organizzazione di fabbrica; la tendenza divenne quella,
da parte del comando di impresa, di separare il lavoro dalla
qualificazione e professionalità che aveva posseduto: all'operaio
specializzato, skilled, veniva affidato un ruolo di controllo
sia sul ciclo produttivo e la sua professionalità (rispettando, in
maniera stravolta, la sua caratteristica professionale) sia sugli operai
dequalificati, unskilled, che intervenivano concretamente nel
lavoro. Furono i prologhi di un sistema scientifico di produzione che
prese a dispiegarsi negli anni '10, basato sul controllo cronometrico
dei tempi di produzione, sulla fluidificazione e spezzettamento del
processo produttivo, che comportava, appunto, una rigida stratificazione
della manodopera operaia, divisa in categorie fondate sul ruolo
dirigente nei confronti dell'organizzazione del lavoro di fabbrica e
non, come era prima, sul tipo di lavoro autenticamente svolto sul ciclo,
sulla qualità dell'intervento immediato nel lavoro da parte
dell'operaio. Contemporaneamente si sviluppano gli embrioni
dell'assistenza sociale offerta al di fuori della fabbrica: dopo lavori,
posti di ristoro, mense, centri culturali che spessissimo puntano
all'americanizzazione della manodopera appena emigrata dall'Europa. La
manodopera, negli Stati Uniti, non cessa di essere tale anche al di
fuori dei cancelli della fabbrica; viene curata culturalmente e inserita
nella vita sociale. Queste iniziative provengono tutte dal NCF, un
organo congiunto dei sindacati di mestiere e di buona parte degli
imprenditori.
Il basso contenuto professionale del nuovo soggetto sociale, la sua
naturale distanza dal lavoro uniti all'analfabetismo linguistico di
buona parte degli operai immigrati costringe ad estendere, al di fuori
dello stesso controllo esercitato attraverso la fabbrica, la sfera di
intervento del comando produttivo, che tende a farsi sociale e a entrare
a far parte dell'organizzazione sociale. Il controllo di fabbrica si
allarga. Fu solo un espediente, nato dalla concertazione di
organizzazioni private, che indica tendenza che diverranno, in qualche
lustro, generali.
Non casualmente, inizia ad entrare in crisi il sindacalismo degli Industrial
Workers of the World, quando il padronato inizia ad appropriarsi
e a colonizzare gli spazi della vita operaia fuori dalla fabbrica,
offrendo, seppur in forma disorganica e incompiuta, la sua assistenza
sociale e un progetto di integrazione.
Il cuore e il nerbo degli I.W.W. erano stati gli operai immigrati,
italiani, polacchi, slavi balcanici, greci che erano entrati tra 1890 e
1910 in massa negli Stati Uniti e nella fabbriche e sui quali si
fortificava una doppia estraneità, quella verso il lavoro, in quanto
operaio dequalificato e privo di mansione specifica, e quella culturale
e linguistica, in quanto proveniente da un altro mondo sociale. Le
campagne di americanizzazione minarono il secondo termine
dell'estraneità e del rifiuto.
La figura operaia dell'immigrato entrò in crisi anche quando il tipo di
lavoro che gli era proprio, il lavoro unskilled, iniziò a
massificarsi, divenendo la forma normale dello sfruttamento, il modo del
sistema di fabbrica e non un'eccezione, divenne un modo americano, e nel
momento in cui l'estendersi e normalizzarsi di questo modello produttivo
si associò a una forma minima ma pesante ideologicamente e culturalmente
di controllo dei comportamenti nel quartiere e fuori dalla fabbrica. La
specificità degli wobblies venne messa in discussione
concretamente.
5.4.2. Il modello capitalistico europeo
Il capitalismo americano ebbe la capacità di
ristrutturare, di riorganizzare e di rivedere il piano di controllo
sulla classe operaia. Non fu affatto così in Europa.
La difficoltà a realizzare una ristrutturazione delle forze produ ttive
verso una riduzione del contenuto professionale del lavoro è
interpretabile come risultato di una dipendenza dalla centralità
dell'industria pesante (siderurgia ed elettromeccanica) sia come il
prodotto di un mercato dei beni e dei servizi assolutamente stagnante e
fermo. Le due cause sono interagenti e interdipendenti. Da una parte,
infatti, l'egemonia dell'industria pesante non permette un egemonia sul
mercato del commercio dei beni di consumo, mentre l'assenza di un
mercato generalizzato e strutturato dei beni di consumo non incentivava
la riproduzione qualitativamente allargata del capitale.
Inoltre, la presenza di un mondo agricolo nel quale la circolazione
delle merci era ridotta e ancora, nella maggior parte dei casi,
ristretta all'ambito locale deprimeva a sua volta i consumi, mentre la
politica dei bassi salari praticata nell'industria fermava la domanda
dei beni e i consumi. Nonostante il suo apparato produttivo
capitalistico, il modello mercantile europeo era in gran parte fermo al
XVIII secolo.
L'operaio professionalizzato rimaneva, malgrado sè stesso e senza nessun
particolare merito nella sopravvivenza, al centro dei rapporti di
produzione capitalistici europei e il capitalismo si trovava in un
paradosso, in prospettiva molto grave: aveva bisogno dell'operaio di
mestiere perchè il modello sviluppo non poteva farne a meno e al
contempo, pur percependo la classe operaia professionalizzata come un
limite, un pericolo e un potenziale altro da sè, aveva difficoltà ad
attaccarlo perché faceva parte della sua storia, faceva parte della
costituzione insostituibile di capitale. Per completezza, proprio le
caratteristiche professionali dell'operaio europeo lo rendevano
invulnerabile agli attacchi e sufficientemente forte nelle
contrattazioni. Il capitalismo europeo viveva con ansia, anche
ideologica e filosofica, questa aporia e questa incapacità di
amministrare lo sviluppo, anzi la crisi dello sviluppo era uno stato, un
dato costante, un modello di sviluppo.
5.4.3. La socialità europea
C'è un elemento più generale, che travalica
le questioni di stretta composizione di classe e di costituzione di
capitale, a dividere il capitalismo americano da quello europeo.
Al contrario che negli Stati Uniti, in Europa il territorio geografico
sul quale si sviluppava il capitalismo e il suo sistema produttivo, la territorialità
capitalistica europea, doveva confrontarsi in primo luogo con la
proprietà fondiaria che, prigioniera di una mentalità mercantile e di
una logica bottegaia, accettava solo parzialmente e con malcelato
malumore i portati dell'economia di mercato e, insieme con quella,
doveva affrontare una territorialità di origine pre -
capitalistica, innervata da un tessuto comunicativo particolare, che
coniugava gli individui e le solidarietà tra gli individui, in forme
indipendenti e precedenti il capitalismo. Questa
territorialità tradizionale e abitudinaria resisteva anche nelle città,
nel mondo e nei quartieri che circondavano le fabbriche, seppur
ricodificata e rivista dalle nuove esigenze operaie e proletarie. La
ricodificazione è innegabile: si generavano nel tessuto sociale,
attraverso strumenti sociali, culturali, emotivi e urbanistici vecchi e
tradizionali, risposte nuove, adeguate, in maniera quasi pittoresca e
folclorica, al nuovo antagonismo tra le classi. La vecchiezza, la
tradizione e l'abitudinarietà, inoltre, erano favorite dal carattere
polimorfo del lavoro operaio nelle fabbriche europee che richiamava
ancora la storia dell'artigianato e il lavoro artigianale.
Proprio perchè l'organizzazione del lavoro non aveva eliminato molti
degli elementi formali del lavoro artigianale, nei quartieri operai (che
spesso non erano nuovi quartieri ma anche fisicamente vecchi quartieri
artigiani di epoca tardo medioevale e moderna) si riproducevano reti di
solidarietà, di complicità culturale e di stili di vita analoghe a
quelle pre - capitalistiche ma, inevitabilmente, riempite di nuova
sostanza.
Queste codificazioni territoriali, che fanno parte delle tradizioni
europee, dureranno molto tempo poiché il capitale, in Europa,
dovette riprogettare il territorio, ricodificare e obliterare stili di
vita, sentimenti, emotività, legami vicinali e di gruppo e sistemi
urbanistici e viari, negli Stati Uniti, invece, il progetto era
immediato e lo stile di vita quello del capitale.
Tutto, ma davvero tutto, in Europa complottava a rafforzare la figura
dell'operaio professionale, di mestiere e specializzato che fu il mostro
sacro e la bestia nera dello sviluppo, spesso all'interno del medesimo
punto di vista.
Il mantenimento di un basso livello di tecnica e di capitalizzazione nel
mondo agricolo, dove il lavoro salariato non è forma generalizzata di
sfruttamento del tempo di lavoro, chiude il cerchio. I rapporti di
produzione capitalistici hanno, in Europa, fondamenta poco profonde,
nonostante siano inevitabilmente egemoni ma egemoni secondo un'egemonia
che dà senso ancora ai vecchi rapporti, all'eredità sociali.
5.4.4. La guerra planetaria
Le lotte operaie inducono crisi, ma non
sviluppo, inducono ansie e paure e un terreno antinomico, ma non ricerca
e innovazione, inducono spesso, troppo spesso, a nostalgie, a tentazioni
di restaurazioni politiche impossibili, oppure conducono verso disegni
di mediazione svolte sul piano ideologico e politico, ed esclusivamente
su quello, con la nuova emergenza sociale. Il pensiero utopico governa
la progettazione politica europea, in moltissimi ambiti.
Alle lotte operaie e alla crisi che ne deriva gli stati europei
risposero scaricando sul terzo mondo la necessità di ripresa e sviluppo.
Fu il colonialismo spurio della fine del secolo, crocevia di spinte
verso l'esportazione militare di manodopera e popolazione europea e il
nuovo istinto imperialista dominato dalla volontà di investire capitali,
di utilizzare, sottopagata, la manodopera locale e, spesso, di
importarla. Era una politica, nella sostanza, mercantilistica, ma ora
asservita alle esigenze di imporre e poi preservare nei paesi soggetti i
rapporti di produzione nazionali. Si trattava di un imperialismo
colonialista, di un tardo colonialismo, incapace di vedere il mercato
come potenziale mondiale, ma come recinto internazionalizzato del
mercato nazionale. Si manifesta tutta l'arretratezza del capitalismo
europeo anche sul piano internazionale, si rende visibile
internazionalmente.
Espressione istituzionale di questa arretratezza è nel fatto che la
monarchia, come elemento di peso sull'esecutivo e le sue scelte, si
conservò in molti paesi e che la sua caduta potè essere ottenuta solo in
conseguenza di situazioni a carattere insurrezionale (Russia, Germania e
Austria). Interessante notare come la caduta delle monarchie, la
proclamazione dello stato repubblicano corrisposero con l'affermazione
definitiva di rapporti di produzione capitalistici nella campagne (in
Russia sotto altre forme e in Italia attraverso la 'rivoluzione
fascista' sotto altre ancora), cioè corrisposero con l'eliminazione di
gran parte del retroterra feudale che regolava i rapporti tra capitale e
lavoro nelle campagne, con l'abbandono di parte della socialità
europea.
In questa situazione le contraddizioni tra Stati capitalistici si
acuiscono, proprio perché insistono su un'eredità mercantilista,
coloniale e 'dinastica'. Quindi crisi marocchina, Libia italiana,
dodecaneso e Balcani, le provocazioni austriache in Serbia, la iattanza
russa nei Balcani orientali, la tensione franco - tedesca e la
diffidenza inglese verso un'egemonia sull'Europa continentale. La guerra
non fu il prodotto dell'aggressività di una particolare borghesia contro
le altre (come al contrario sostenne tanto interventismo democratico e i
socialisti che si schierarono quasi tutti sotto le reciproche bandiere
nazionali) e neppure di tutte le borghesie dell'epoca; la tendenza alla
soluzione bellica non era, cioè, il prodotto degli squilibri del
capitalismo europeo che esarcebava i contrasti tra le borghesie
nazionali (sarebbe difficile, se si pensa così, spiegare l'entrata in
guerra degli Stati Uniti nel 1917) ma era il prodotto dei rapporti
generali e 'mondiali' di capitale. La particolarità europea fu solo una
delle occasioni belliche. I rapporti di capitale generarono la guerra.
I rapporti di capitale particolari ci spiegano perché la guerra generò
in Europa e nel 1914, ma i rapporti di capitale generali sono
all'origine della tendenza a un conflitto generale e mondiale. La guerra
mondiale e priva di confini è l'ultima conquista dell'umanità
capitalisticamente determinata.
6. La grande guerra
6.1. Il prodotto dell'imperialismo
Inutile dire che nella grande guerra il
termine di paese aggressore e di paese aggredito è vuoto, formale e
privo di qualunque riferimento sostanziale. La tendenza alla guerra era
implicita all'evoluzione del sistema capitalistico su scala mondiale,
all'allargarsi dei rapporti di dominazione capitalistici a nuove aree e
continenti. Non è affatto un caso che dalla prima guerra mondiale
vengano fuori gli Stati Uniti d'America in qualità di potenza di prima
fattura e tendenzialmente egemone, perchè la guerra registrava i
mutamenti in tendenza negli equilibri e li rendeva attuali, li
attualizzava. La storia, però, si alimenta di paradossi e la guerra
imperialista ebbe come causa immediata l'arretratezza dei rapporti di
dominazione capitalistica in Europa, ma quello che accadde nel corso del
conflitto ne rende manifeste le caratteristiche imperialistiche. Durante
la guerra si evidenziò che i rapporti capitalistici erano divenuti
mondiali e proprio grazie al conflitto essi divennero integralmente
mondiali, il capitalismo divenne un fenomeno economico e politico
mondiale; nessun paese, nessun popolo e nessuna tribù umana potevano
sottrarsi alla loro influenza diretta e indiretta e considerarsi,
concretamente, estranei al mondo capitalistico.
Il macello della grande guerra gettò nella mischia, però, soprattutto
l'uomo che aveva già valutato e pesato, sotto il profilo delle
potenzialità economiche e dei comportamenti sociali, quello che aveva
già conosciuto abbastanza bene il lavoro salariato e la proprietà
privata dei mezzi massificati della produzione, che si era già ribellato
a queste cose ma che aveva anche imparato a convivere con quelle: il
proletario europeo.
Non sto qui a prendere in considerazione le mistificanti ma unanimi
ideologie con le quali le borghesie nazionali, e quasi ovunque anche i
partiti socialisti, giustificarono la guerra e l'imperialismo. Va
veduto, piuttosto, quello che accadde dal punto di vista
dell'antagonismo proletario e della trasformazione capitalistica;
antagonismo e organizzazione del dominio, durante la guerra mondiale,
cambiarono notevolmente e profondamente. La guerra mondiale fu un
catalizzatore di processi storici e sociali.
La guerra generò anche dalla necessità di definire, in Europa, una nuova
costituzione di capitale, che superasse le difficoltà dello sviluppo
capitalistico nel vecchio continente; poichè, però, il sistema
capitalistico era già un sistema, virtualmente, mondializzato, la
ridefinizione dell'organizzazione del dominio capitalistico europeo
comportava una sua riscrittura a livello mondiale. La guerra non fu
certo decisa a tavolino, la guerra si presentò alla storia,
all'immaginario collettivo e all'armamento ideologico, come il prodotto
di interessi contrapposti, come una agone tra borghesie nazionali; ed è
vero fu così. Ma sui fronti contrapposti era, comunque, una comune
coscienza: solo una globale riscrittura delle relazioni tra le borghesie
europee avrebbe permesso lo sviluppo delle forze produttive, altrimenti
rallentato. Esisteva una strategia generale, una filosofia, che
oltrepassava i singoli interessi delle borghesie nazionali.
Questa strategia generale, pur esistente, non fu presa in carico, però,
del tutto.
La trasformazione nelle relazioni tra le borghesie europee, uscita da
Versailles, fu un aborto, dal punto di vista della strategia generale,
dell'impianto complessivo del capitale, della filosofia
capitalistica. La pace fu gestita politicamente da forme - stato
ibride, incapaci di esprimere la ricchezza e la dinamicità del
capitalismo che, alla fine, erano state le vere cause del conflitto;
forme - stato orrendamente legate alla nazionalità e alla
riproposizione, abbastanza cieca, del mito della nazione dentro un
contesto mondializzato.
Fascismo, Nazismo, Franchismo e secondo vie molto originali lo
Stalinismo furono i prodotti della prima grande guerra mondiale, di un
capitalismo mondializzato che non riesce a perdere la dimensione
nazionale e ad ottemperare alla sua vera filosofia. L'Europa
rimaneva terreno debole per lo sviluppo pieno del processo di capitale,
mentre gli Stati Uniti ingranavano la marcia della piena velocità e
della mondializzazione dell'economia.
Eppure, secondo un'anomala applicazione in politica della 'legge dello
sviluppo diseguale', l'Europa, proprio in ragione di questo suo
limite, preconizzò una forma di dominio totalizzante sulla
società che con modalità mature, cioè capitalistiche in forma
chimicamente pura, si affermerà quaranta anni dopo, in seguito alla
seconda geurra mondiale. Decisamente la 'legge dello sviluppo diseguale'
va applicata anche alle forme del dominio politico,
La società del capitale, al contrario delle
società precedenti, ha caratteri intrinsecamente totalizzanti perché è
incapace di recepire diversità nell'organizzazzione della proprietà e
del mercato, nella concezione stessa di proprietà e di mercato; il
capitalismo è totalizzante e totalitario in quanto si propone, per sua
stessa natura, di cancellare ogni forma sociale diversa dalla sua.
Il capitalismo fa questo perchè, al contrario della società feudale o
servile della classicità, ha una base di dominio estremamente debole
sotto il profilo etico ma forte sotto il profilo economico ed è
costretto a traslare l'economia nell'etica e nella morale per fondarsi
idealmente e ideologicamente; è per questo che l'economia capitalistica,
al contrario di quella feudale o classica, è incapace di svilupparsi in
un ambiente che non sia esclusivamente il suo, è incapace di convivere
con altre forme economiche e sociali: il capitalismo ha bisogno della
sua forma economica e la sua forma economica non ammette compresenze.
L'economia capitalistica non giustifica questo, l'economia capitalistica
potrebbe, presa come economia, analizzata sotto il profilo economico,
convivere anche con altre forme economiche, però, il capitalismo è anche
e nasce come discorso di potere sull'uomo, come nuova forma etica e
morale e quindi, per alcuni aspetti, il dominio, nel capitalismo, viene
prima dell'economia, il che è un paradosso notevole per una struttura
sociale che ama dirsi fondata sulle leggi naturali dell'economia, anzi
che ha inventato il concetto di economia naturale per l'uomo.
Il capitalismo, così, costruisce immediatamente, il feticcio di sè
medesimo, nella sua pietra angolare che è la proprietà privata,
che da fatto comune a molte parti della storia umana, diventa la storia
umana. La proprietà privata diventa il valore umano par excellence,
e l'uomo è uomo, nel capitalismo e nella socialità conscia e inconscia
del capitalismo, se è capace di intendere i valori della proprietà e le
assiomatiche e normative che le sono connesse.
La proprietà privata nel capitalismo, al contrario di quella classica e
feudale, non è regolata e strutturata su relazioni personali che
comprendono una personalizzazione della proprietà; è invece
un'istituzione esclusiva, autofondata, fondata al di là delle relazioni
umane, in un contesto astratto. Poichè rende qualcosa che è estraneo
all'uomo il valore umano assoluto e su quello appiattisce
l'organizzazione sociale, la società del capitale è la prima società che
riesce a farsi immaginare dall'uomo come se fosse una cosa o una
materia; come per ogni ente materiale, oggetto di studio della
scienza, le sue norme non sono istituzioni soggettivamente determinate
ma rigidi limiti materiali, l'organizzazzione sociale si presenta
come qualcosa che esiste indipendentemente dall'uomo.
6.3. Il socialismo bellico
Vediamo, ora, le posizioni che assunsero le
organizzazioni ufficiali del proletariato, le sole che avevano la
possibilità di cogliere il problema che stava dietro alla guerra. È
proprio in tali casi che sarebbe dovuto emergere limpida e chiara la
funzione del partito proletario, quella che competeva l'analisi
dell'esistente e che, per forza di cose, non poteva appartenere
all'analisi spontanea dei proletari. La socialdemocrazia si dimostrò del
tutto impreparata all'evento e apparve inatteso quello che maturava in
forme evidente da un decennio e in maniera sotterranea da molto tempo in
più.
L'atteggiamento della socialdemocrazia è il corrispettivo negativo di
quello delle singole borghesie nazionali europee. Nella contingenza,
facendosi cogliere impreparata all'evento bellico, la socialdemocrazia
finì per farsi trascinare dalla marea nazionalista e votò, quasi in ogni
paese, i crediti di guerra al governo; in generale, avendo rinunciato a
un'analisi di classe riguardo allo sviluppo capitalitico europeo,
declinò ogni capacità di previsione e di anticipazione. Fu il naturale
risultato storico di un modo di fare politica che aveva posto
l'antagonismo proletario, l'analisi rivoluzionaria della società, in
secondo piano, mettendo nel cassetto la componente rivoluzionaria del
movimento di classe. L'ipotesi di uno sviluppo graduale verso il
socialismo determinò una sempre maggiore attenzione verso gli aspetti
istituzionali della vita politica, verso la composizione tecnica dei
governi, piuttosto che al loro ruolo.
La socialdemocrazia aveva sviluppato un attitudine al controllo,
attraverso gli strumenti sempre più raffinati dell'ideologia socialista
e del pensiero di Marx, divenuto scuola e scolastico, delle lotte
proletarie. Quello che inizialmente era stato un elemento tattico, la
necessità di confrontarsi con le istituzioni politiche della borghesia,
e quindi darsi una dimensione e un'organizzazione politica, divenne,
negli ultimi due decenni del secolo scorso, una idea strategica, divenne
strategia. Alla fine di questo processo, la mediazione fu il supremo
valore del movimento socialista organizzato, rispetto alle aspirazioni
che il movimento operaio, organizzato e non, esprimeva.
La socialdemocrazia, nel nome di uno sviluppo equilibrato e razionale
della società verso il socialismo, diventò un'istituzione finalizzata
alla mediazione tra gli interessi del capitalista e quelli dell'operaio.
Durante la grande guerra, analogamente al capitale, i partiti socialisti
nazionali rinforzarono i loro processi formativi e prefigurarono un
ruolo più stabile per epoche più stabili; anzi la grande guerra fu un
processo di immensa stabilizzazione del pensiero socialista egemone, che
produsse, inevitabilmente, una fuga di sette ereticali, ma, proprio per
questo, chiuse, in realtà, con la parte più importante del suo passato.
La frantumazione della seconda internazionale fu il segno della fine del
pensiero socialista come pensiero rivoluzionario e dell'impossibilità di
rinnovarlo dall'interno.
Fu un segno molto concreto, niente affatto ideologico, ci fu, insomma,
partecipazione concreta, reale e fattiva alla guerra e alla produzione
della guerra. I socialisti accettarrono la leva, aborrirono l'obiezione
di coscienza, condannandola, accettarono, attraverso una tregua
sindacale ferrea, la sottomissione a regime militare della manodopera
operaia impegnata nella produzione bellica e in genere alla produzione
vitale per la nazione.
L'operaio tradizionale della composizione di classe europea, l'operaio
di mestiere e professionalizzato, fu ovunque militarizzato, divenne un
soldato della produzione e la produzione posta sotto la legislazione
bellica.
I partiti socialisti e i sindacati a quelli legati non si opposero a
questa militarizzazione della classe operaia.
La visione della classe operaia cessò di essere definitivamente una
visione internazionale e divenne nazionale: l'operaio francese, tedesco,
austriaco, italiano, inglese e via discorrendo.
Fu il prodotto di una contingenza estrema, che, però, rivelava una
debolezza generale, costitutiva della seconda internazionale e della
socialdemocrazia europea. Il definitivo affermarsi di uno spirito
nazionale dentro il movimento operaio ufficiale fu, inoltre, gravido di
importantissime conseguenze, per certi versi epocali, nello sviluppo
stesso del capitalismo: si gettarono i prodromi di un nazionalismo
sociale.
6.4. Il taylorimo bellico
Lo Stato dal 1914 entra nella sfera della
produzione. Oltre le normative di carattere repressivo e militare
imposte alla manodopera industriale, si istituirono strutture pubbliche
che prevedevano un diretto intervento dello Stato nel mondo della
produzione. Lo Stato si faceva direttamente imprenditore o più
frequentemente coordinava e guidava gli investimenti privati.
Quest'ultima è la capacità più interessante che gli Stati bellici del 14
- 18 scoprirono in sè stessi: lo Stato della borghesia poteva
influenzare potententemente o guidare addirittura l'economia.
Non si trattava più, come nell'ottocento, di uno Stato - polizia che
difendeva l'istituto della proprietà privata, ma di uno Stato - regola
che definiva i caratteri della proprietà privata.
L'istituzione di commissioni o comitati ministeriali (sia in Europa che
negli Stati Uniti) incaricati di controllare la produzione bellica, di
determinare investimenti e di decidere normative di assunzione e impiego
della manodopera fu provocata dall'emergenza bellica, in maniera
indubitabile, dal protezionismo imposto dal conflitto, ma anche dalla
formazione, seppur ancora occasionale, di una nuova composizione di
classe nel capitale e nella classe operaia.
Si anticipano i due decenni a venire nei termini di una nuova
composizione di classe per una nuova costituzione di capitale. Negli
anni venti e trenta, questi nuovi termini nello sviluppo delle forze
produttive faranno parte di un fenomeno organico e complessivo, capace
di disegnare e strutturare una nuova intelaiatura dei rapporti politici
e sociali tra le classi, mentre negli anni bellici sono quasi un
elemento isolato, un escomatage transitorio, ma rispondente in
maniera perfetta alle esigenze belliche. Le esigenze belliche rivelavano
al capitalismo i suoi nuovi orizzonti e funzionarono da catalizzatrici
dei processi e come autentici laboratori, scenari di laboratorio
politico - sociale.
Tanto negli Stati Uniti, quanto in Europa, le necessità della produzione
bellica posero il problema, non del tutto nuovo, di massificare i
processi produttivi. Per realizzare questa prima produzione di
massa nelle merci, si pianificò una semplificazione del processo
di produzione. La produzione doveva essere semplificata per due motivi,
uno interno alle sue logiche e uno esterno. Da una parte andava
costruito un flusso produttivo uniforme, fatto di operazioni semplici
messe in linea, capaci di valorizzare il tempo di lavoro operaio;
dall'altra parte, proprio per l'assorbimento di materiale umano da parte
degli eserciti, era necessario far entrare nei posti di lavoro giovani e
donne e quindi uno strato operaio a bassa qualifica o totalmente
dequalificato. Gran parte degli operai qualificati e di mestiere sono al
fronte, esclusion fatta per alcuni settori vitali e nei quali la
professionalità del lavoro è indispensabile, mentre le esigenze
produttive crescono vorticosamente. L'introduzione di metodi di lavoro
già sperimentati negli ultimi decenni negli Stati Uniti è, quindi,
inevitabile, almeno nell'industria bellica. Questo settore, che lavora
su commesse statali o sotto il diretto finanziamento dello Stato,
sviluppa rapidamente nuove forme nell'organizzazione del lavoro: il
lavoro diviene semplice, ripetitivo, di rapido apprendimento.
Negli Stati Uniti si confermò definitivamente l'egemonia
dell'organizzazione del lavoro scientifica, come veniva detta
dagli economisti americani; il lavoro si oggettivava in una
misurabilità precisa e cronometrica, diventava un oggetto scientifico
tra gli altri, una realtà fisica e materiale, un fenomeno
scientificamente ponderabile. La produzione diventava una scienza. In
Europa l'oggettivazione del lavoro non riuscì in molte nazioni ad
affermarsi con altrettanta chiarezza.
In Germania, ad esempio, il sistema di comando aziendale continuò a
svolgersi intorno al tradizionale paternalismo che usava gli operai con
qualifica, gli operai di mestiere, come elemento fondamentale per
tradurre a tutto il resto della classe le logiche e le ideologie dello
sfruttamento, anche all'operaio dequalificato e a mansione semplificata.
In quel contesto l'operaio professionalizzato, pur avendo perduto la
centralità nella produzione, manteneva centralità nella retribuzione,
nella valorizzazione del lavoro operaio.
In Italia, invece, i meccanismi di costruzione del salario e della
retribuzione operaia iniziano a calibrarsi sul nuovo strato di operai
dequalificati, con la valorizzazione del cottimo, degli straordinari,
fino al punto che, esattamente come negli Stati Uniti, nel nostro paese
durante la guerra l'operaio dequalificato dell'industria bellica
guadagnerà di più del vecchio operaio di mestiere.
Ovunque, comunque, nel mondo capitalistico declina una figura storica
del capitale di metà ottocento, del capitalismo della seconda
rivoluzione industriale, l'operaio di mestiere. E ovunque, le
organizzazioni politiche ufficiali del movimento operaio, che avevano
organizzato questo strato operaio, avevano costituito la loro base
sociale su di quello e avevano costruito la loro identità sulle
aspirazioni, i desideri e la visione del lavoro di questo strato
proletario, persero la loro fonte organizzativa, ideologica e la base
della loro forza e contrattualità: la classe operaia era cambiata e
sfuggiva alle organizzazioni tradizionali del proletariato. Non
casualmente, in tutti i paesi europei, dal 1916 si apre una fase
estremamente delicata, confusa e contraddittoria del conflitto di
classe. Le componenti storiche e tradizionali del movimento socialista e
sindacale denunciano una fortissima crisi di controllo e di comprensione
delle lotte.
In quasi tutti i paesi la nuova fenomenologia delle lotte dei
dequalificati mette in crisi l'egemonia delle frazioni riformiste tra i
socialisti (in Italia, in Germania e soprattutto in Russia) e premia la
frazione massimalista che, spesso ma non sempre, aveva avuto il coraggio
di non votare i crediti di guerra; fu facile politica per massimalisti e
anarco - sindacalisti italiani, per i futuri spartachisti tedeschi e per
i bolscevichi russi denunciare i patteggiamenti e i cedimenti dei
vertici della socialdemocrazia sulla guerra imperialista e cavalcare la
nuova e inedita ondata di lotte operaie.
Ma la critica della nuova 'estrema sinistra' offriva solo una sponda al
nuovo antagonismo, dava a quello una rappresentazione ideologica, ma non
lo interpretava, non interpretava la nuova estraneità che
l'organizzazione scientifica del lavoro produceva negli operai. Si
trattava, alla fine, di far riferimento alla ideologia dell'operaio di
mestiere, rivificandola con riferimenti esclusivamente ideologici a una
politica rivoluzionaria che, per forza di cose, coinvolgeva anche i
dequalificati, i protagonisti delle nuove lotte e delle nuove forme di
lotta.
Questo ha fatto l'inadeguatezza di tutte, nessuna esclusa, le
organizzazioni politiche del proletariato del primo dopoguerra e questa
inadeguatezza ha lasciato un grande spazio alle manovre politiche del
capitale, che generava produzione di massa e consumo di massa e che
aveva in mano quel nuovo modello sociale dove il lavoro perdeva la sua
professione e il suo mestiere e si valorizzava solo ed esclusivamente
attraverso il tempo di lavoro. Dove il tempo di vita iniziava ad essere
il vero campo di battaglia tra le classi.
Fascismo e Nazismo saranno una risposta di parte capitalista al nuovo
problema del tempo di lavoro come materialità, come parte del tempo di
vita e del tempo della vita come nuovo orizzonte della lotta tra le
classi.
6.5. Produzione, Stato e mercato tra 1914 e
1929
6.5.1. Produzione
La nuova figura operaia, l'operaio senza
qualifica e sottoposto a operazioni semplificate, non assunse un ruolo
centrale in maniera omogenea. In Europa si unisce, aggiungendosi, a
quella dell'operaio di mestiere, negli Stati Uniti, invece, determina
una nuova configurazione nella composizione della classe. Si tratta,
però, in entrambi i casi di un processo che potrebbe essere detto additivo:
se il ruolo nella produzione dell'operaio professionalizzato era
diminuito, non emergeva una nuova centralità operaia.
Gli investimenti industriali che puntano a una massificazione della
produzione non contengono ancora un'intensità tecnologica tale da
introdurre mutamenti sostanziali, una chimica nuova, nell'organizzazione
del lavoro. In parte essi sono la prefigurazione dell'organizzazione
scientifica del lavoro, del taylorimo o del fordismo, come
l'interventismo statale diretto o indiretto sul mercato del lavoro,
sugli investimenti e sul mercato in genere è anticipazione di un assetto
nuovo dei rapporti sociali complessivi. È, comunque, in quest'epoca che
si fanno strada progetti pubblici volti a disciplinare e selezionare il
mercato del lavoro, a preparare il lavoro di fabbrica al di fuori della
fabbrica, a curare l'aspetto scientifico del lavoro e farne una
disciplina di studio, come si sviluppano disegni volti a subordinare al
controllo dello Stato l'attività creditizia e a porre in atto un
controllo sui prezzi dei generi di prima necessità attraverso politiche
di calmiere. Sia, però, nella produzione che nella riproduzione di
capitale si tratta di interventi aggiuntivi, di azioni collaterali, su
una realtà preesistente che non è quella della produzione di massa e del
consumo di massa; la nuova forma di produzione emerge e in alcuni casi
diventa egemone tra i fattori dell'accumulazione capitalistica, ma non
riesce ancora a donarle una nuova qualità, a qualificarla.
L'introduzione della produzione di serie, della parcellizzazione delle
operazione lavorative, del lavoro cottimizzabile al singolo pezzo, sono
ancora espedienti per un'economia di guerra o, quantomeno, vengono
sentiti come tali. La mentalità generale intorno al lavoro, la mentalità
produttiva, ha ancora in mente il lavoro complesso dell'operaio
qualificato e anche le forme retributive fanno spesso riferimento a
quello.
6.5.2. L'economia di guerra
La guerra del 1914 fu qualcosa di
completamente nuovo, non tanto perché coinvolgeva un gran numero di
nazioni, perchè questo in verità era già avvenuto nel XVII e XVIII
secolo europeo, non tanto perché i suoi obiettivi interessavano più
continenti, anche questo era già accaduto nella storia europea, ma
perché le sue dinamiche riguardavano e interessavao l'intera economia
mondiale, anzi creavano il concetto stesso di sistema economico
mondiale. Contemporaneamente, questa mondializzazione dello
scenario di fondo della guerra comportava un impatto del fatto bellico
sconosciuto in precedenza: era infatti in gioco il ruolo mondiale, il
successo planetario, di ogni singolo Stato nazionale coinvolto nel
conflitto, erano, secondo retorica diffusa, in gioco i destini
della nazione.
La mobilitazione e militarizzazione della classe operaia fu, in gran
parte dell'Europa, la componente fondamentale della nuova organizzazione
del lavoro: la fabbrica veniva percepita come una caserma, gli operai
come soldati, i capi squadra come sottufficiali e ufficiali, la linea di
produzione come trincea e le operazioni di lavoro come il fuoco continuo
sul nemico. La mobilitazione e militarizzazione del lavoro facevano
riferimento a un fenomeno ideologico ancora più vasto: la fidelizzazione
dell'intero corpo sociale verso gli obiettivi e lo sforzo bellico.
Per la prima volta la società venne percorsa integralmente da un'energia
ideologica e propagandistica capillare e diffusa capillarmente: la
vittoria era un obiettivo di massa, la vittoria un obiettivo popolare.
Si istituì una nuova rete comunicativa attraverso i giornali di
propaganda diffusi al fronte e le testate tradizionali che furono
sottoposte a un regime censorio e cooptate nelle operazioni di
propaganda bellica, prima sconosciuto.
Durante la guerra si sperimentò la possibilità di fortificare i rapporti
di produzione esistente attraverso un'azione propagandistica che
seguisse tutte le componenti della società e annullasse le
contraddizioni e gli antagonismi che quelli portavano con sé.
La prima guerra mondiale fu un nuovo tipo di guerra, una guerra
integralmente moderna, dove la vittoria non la danno solo gli
eserciti e le risorse belliche strictu sensu ma le
potenzialità dello sforzo produttivo volto alla guerra nella nazione. La
guerra si vince anche e soprattutto all'interno, sul fronte interno.
Il fronte interno è, nella prima guerra mondiale, ancora più importante
di quello esterno. È la solidità dell'apparato produttivo a fare di una
nazione il vincitore del conflitto. L'apparato produttivo va valutato in
tutte le sue caratteristiche, che entrano anche nelle ragioni stesse
della guerra, come quelle che ineriscono alla collocazione
internazionale dell'economia di un paese, cioè i rapporti con i paesi
produttori di materie prime, la presenza di materie prime sul proprio
territorio e il controllo dei punti - chiave geografici; ma la
valutazione passa, durante e dopo la grande guerra, attraverso i
caratteri interni dell'apparato di produzione, quali la capacità di
esercitare una presa propagandistica sulle classi subalterne e sul mondo
dei produttori, come anche e soprattutto la solidità della classe dei
capitalisti, che diventa una classe collettiva cioè una classe
capace di esprimere una coscienza e intelligenza collettive, una potenza
unitaria e univoca da esercitare sul resto del corpo sociale.
Certamente gli strumenti utilizzati per controllare il fronte interno
furono, nella prima guerra mondiale, frammentari, sperimentali e spesso
inadeguati ma si configura la tendenza a inventare un immaginario, una
coscienza e una propaganda di massa, che caratterizzerà in forme
scientifiche la seconda guerra mondiale.
6.5.3. Lo Stato produttore
La scoperta del ruolo attivo dello Stato nel
mercato è del 1914, così come quello di una connotazione politica degli
interessi capitalistici privati, anzi del fatto che il vero capitalismo
è una potenza collettiva e pubblica, non privata. Si delinea, quindi, la
figura del capitalista collettivo che lo Stato riassume e interpreta;
non solo il capitalismo ha bisogno dello Stato, ma lo Stato diventa
interprete dell'economia capitalistica. È una sperimentazione magmatica
che sarà confermata e riscritta in seguito a un secondo evento
traumatico della storia moderna, la crisi del '29.
Lo Stato scopre che l'economia di mercato non gli è indifferente, non è
indifferente ed estranea ai suoi scopi e motivi, scopre, quindi,
l'essenza della sua coabitazione con il capitalismo, che non si riduce
affatto a fornire polizia, prigioni ed esercito, ma è una
collaborazione, programmazione e coordinamento dello sviluppo delle
forze produttive e della riproduzione del capitale.
Facendo ciò, lo Stato non diventa produttore, non diventa
capitalista e il capitalismo pubblico e statale non è l'elemento
decisivo di questa nuova maturità; lo Stato rimane Stato, cioè una
struttura parassitaria che nasce al di fuori del campo della produzione,
ma la produzione, senza questo sistema improduttivo, non può darsi. È la
novità delle prima guerra mondiale: il capitalismo non ha bisogno dello
Stato per la sua polizia e magistratura, per le sue leggi e per la
protezione della proprietà e della privatizzazione della ricchezza
sociale, ma il capitalismo ha bisogno dello Stato per creare la
ricchezza sociale.
Le istituzioni belliche segnano un nuovo sviluppo dello Stato, lo
indicano e lo prefigurano, quando non lo hanno tracciato concretamente.
Va sgombrato il campo da una affermata interpretazione relativa al nuovo
ruolo dello Stato dopo il 1914 e segnatamente dopo il 1929: lo Stato
della borghesia non divenne uno Stato produttore, uno Stato capitalista,
un creatore di profitto, ma rimane un istituto parassitario, sotto il
profilo economico, come in tutta la tradizione economica dello Stato,
come in tutta la sua storia economica. Lo Stato rimane una struttura in
perdita, sotto il profilo economico e finanziario, che però garantisce
la produzione generale di valore, della ricchezza sociale e interviene a
mediare e conciliare gli antagonismi sociali non in quanto istituzione
militare e giudiziaria, ma in quanto meccanismo economico e finanziario:
il potere pubblico prende le parti del capitalismo e della borghesia,
prendendo parte al sistema economico del capitalismo e della borghesia.
Lo Stato, quindi, esce dalla politica militare e di polizia, entra nella
politica economica, investe, facendo ciò, con la sua azione tutta la
sfera della socialità e diventa tout cour, nel suo complesso,
uno strumento, un meccanismo del capitale, non semplicemente uno
strumento in mano al capitale.
6.5.4. Lo Stato collettivo e il capitalismo
'maturo'
Lo Stato capitalistico negli anni dieci e
venti, quindi, si trasformò in maniera radicale e divenne qualcosa di
diverso dallo Stato ereditato dall'ottocento e dalla fase
protocapitalistica europea. Questa trasformazione pare seguire da vicino
ed essere omologa a quella avvenuta all'interno dell'organizzazione del
lavoro, che diviene scientifica e astratta, e pose anche culturalmente
(oltre che materialmente) il lavoro in una nuova tipologia dei rapporti
sociali. Il lavoro diventava astratto e le relazioni sociali basati
sull'astrattezza.
Questo legame, indubitale, tra organizzazione del lavoro e Stato non va
letto in maniera automatica e meccanicistica. Proprio perchè
l'organizzazione del lavoro si fonda su principi astratti e
'scientifici' e si realizza astrattamente, cessa di essere una
specificità, di determinare professionalità, mestieri e specificità
produttive e diventa una forma sociale in senso proprio. Lo Stato,
parimenti, tende ad assumere caratteri astratti e generali, a essere assoluto
in quanto sciolto da una specificità, a essere un'istituzione che
opera sulla generalità della società, esattamente come l'organizzazione
del lavoro tende ad assumere una generalità che travalica il lavoro
concreto. Il cammino accoppiato di Stato e organizzazione del lavoro li
separa, paradossalmente.
Lo Stato, allora, nel capitalismo degli anni dieci e venti, nel
capitalismo che inizia a essere 'maturo', è maggiormente influenzato
dall'organizzazione sociale nel suo complesso che non
dall'organizzazione del lavoro, e cessa di essere l'immagine speculare
degli antagonismi che l'organizzazione del lavoro provoca; non si limita
più a essere l'espressione politica, in senso deterministico, della
classe al potere, ma pretende, in forma cosciente e ideologicamente
giustificata, di presentarsi alla società come se non fosse percorsa da
antagonismi, di introiettare le contraddizioni sociali, farle sue e
rielaborarle, di essere la sintesi degli antagonismi e di riassumere in
sè l'intera organizzazione sociale.
Lo Stato del capitalismo maturo, quindi, può per certi versi recuperare
meglio la tradizione storica degli istituti pubblici, una sua
tradizione, una sua tempistica, suoi presupposti. Cerca di riassumere e
rappresentare la storia di una 'nazione' e di un 'popolo'. Gli Stati
nazionali, così, trovano fattori di autoctonia, di differenza e
originalità. Non è elemento secondario, per esempio, il plurilinguismo
austriaco, la forza della corona sull'esecutivo nel differenziare lo
Stato austriaco da quello di altre monarchie nazionali e monolingue o di
repubbliche.
Non si tratta, neppure, di dati sovrastrutturali privi di fondamento
reale, ma si tratta di strutture che istituiscono il carattere del
dominio e del potere in ogni singolo Stato nazionale. Lo Stato
capitalista, proprio perchè cerca di riassumere l'organizzazione
sociale, è costretto a riassumere e fare i conti anche con la storia di
quell'organizzazione sociale.
In realtà, e con vero paradosso, proprio lo Stato borghese della
maturità, dell'epoca industriale pienamente sviluppata, cioè quello che
si accosta al dominio secondo astrattezza e lo rappresenta come un
dominio e potere astratto e naturale e che quindi dovrebbe presentarsi
alla storia come un fatto omogeneo è, forse, più differenziato che in
altre epoche storiche. Questo iato tra omogeneità e specificità, genera
un contrasto che è tipico di quello che esiste tra due strutture che
presentano diversa elasticità e un diverso modo di vivere gli elementi
che li compongono; gli elementi che li compongono sono, comunque, va
sottolinerato, gli stessi.
6.6. Il laboratorio sociale ed economico
6.6.1. Monarchia e repubblica: verità
effettive
Le varie borghesie manifestarono, comunque,
un elemento comune nella forma espressiva del loro dominio, singolo e
particolare dominio, come, corrispettivamente, nell'organizzazione del
lavoro e nell'impostazione, ancora più in generale, del dominio sociale
e culturale. Questo illustra un altro aspetto del carattere
internazionale del conflitto e la causa stessa della sua estensione
planetaria.
Certamente il conflitto può essere letto come il risultato degli
squilibri determinati dai diversi livelli di sviluppo che nei singoli
paesi aveva raggiunto lo Stato capitalistico: gli Imperi centrali
potevano venir considerati come paese arretrati e il fronte dell'intesa
come rappresentativo della componente più evoluta e sviluppata del
capitale. Fu un'ideologia molto forte che percorse il fronte bellico e
che venne usata da entrambe le parti in conflitto, confortata,
rafforzata, quando addirittura non direttamente generata dalle
socialdemocrazie nazionali. In verità arretratezza e sviluppo furono
assolutamente trasversali al fronte e forse furono intrinseche a quello,
riguardando alla fine tutto il capitale europeo e le sue diverse
espressioni di dominio. L'Europa non garantisce condizione lineari alla
riproduzione e circolazione del capitale e ovunque persistono, in forma
residuale ma importante, rapporti di produzione tardo - feudale o neo
feudali nell'agricoltura e nell'artigianato rurale e spesso ancora in
quello urbano e, soprattutto è diffusa una vasta resistenza culturale,
esistenziale all'affermazione della nuova mentalità economica e politica
che il capitale comportava e richiedeva. Questo si concretizza,
istituzionalmente, nella permanenza (in Germania, Austria, Italia,
Russia, ma anche nella evolutissima Inghilterra) della Corona alla
sommità del potere simbolico e legislativo.
La grande guerra fu, anche, la risposta a questo tipo di problemi, al
problema di una resistenza interna al capitale e alla trasformazione in
senso integralmente capitalistico della società.
Le resistenze, le zone d'ombra, i relitti sociali delle epoche
precedenti catalizzarono, negli stati - nazione europei, la tendenza a
trasporre all'esterno le contraddizioni inerenti allo sviluppo, proprio
perchè i relitti sociali ed economici non erano affatto estranei ormai
all'attualità del capitalismo: esemplare il caso del latifondo proto
capitalistico che sopravvive nel mezzogiorno europeo donando il volto ai
rapporti di produzione agrari del capitalismo. Non è affatto casuale che l'Europa, entrata in guerra con una
monarchia e due imperi, ne uscirà con e tramite la loro rovina:
la fine della monarchia imperiale asburgica, multinazionale e
multiculturale, di quella russa e di quella tedesca non vanno solo
analizzate per quello che sono, le reazioni fisiologiche alla
sconfitta militare, ma per quello che possono essere, il trionfo del
potere repubblicano, il potere distribuito in simbologie anonime.
Il capitalismo diventa anche quello che lo ha preceduto e in
parte la prima grande guerra globale, il prodotto bellico coerente con
il nuovo sistema economico astratto e internazionalizzato, si presentò
come una riedizione del conflitto dinastico della prima modernità e del
tutto estraneo all'assetto del capitale. Gli elementi culturali, sociali
ed economici che precedono la storia del capitalismo e costituiscono una
sorta di archeologia, tornano vitali e attuali ed egemonizzano
l'ideologia bellica e il nazionalismo in Europa. Il capitalismo usa la
storia come una miniera di simboli ed elementi ideali, anche perché non
ha interrotto affatto l'esplorazione di alcune vene e correnti
sotterranee e, per certi aspetti, gli appartengono.
Le incrostrazioni di origine feudale, senza essere determinanti nei
rapporti di produzione, mantengono la loro vitalità nella
rappresentazione sociale che il capitalismo dà di sè stesso e nella
genesi della sua idea di popolo e nazione. Il rapporto tra capitale e
lavoro, l'economia, è alla base del sistema, ma in Europa esso non si
manifesta direttamente, non si offre come chiave di lettura univoca, ma
consente la sopravvivenza di altri rapporti sociali nella misura in cui
essi ruotano intorno al rapporto principale e costitutivo. I vecchi
rapporti sociali arricchiscono quello nuovo e non lo negano, anzi lo
confortano e rafforzano.
Gli squilibri di sviluppo e i ritardi ci furono, ma non sono alla base
del conflitto mondiale, sono solo elementi di catalizzazione, occasioni
per accelerazioni, e non la causa. Le contraddizioni costituzionali tra
repubblica e monarchia non spiegano la guerra, e solo in parte la
composizione dei fronti bellici, spiegano, invece, ideologie e
precipitazioni contingenti. Sicuro è e va ribadito che sotto il
profilo della regostrazione squisitamente storica scomparvero tre
istituzioni provenienti dal medioevo europeo, un vero pezzo
costituzionale del medioevo dentro il mondo moderno.
6.6.2. Monarchia e repubblica: verità simboliche e
ideologiche
Va ribadito questo carattere pienamente
capitalistico del conflitto, poiché ci fu allora e esiste ancora oggi
una lettura della prima guerra che pone al centro della sua origine gli
squilibri nello sviluppo del sistema politico e istituzionale dei paesi
europei. È una teoria che ha due volti; il volto disegnato dai vincitori
che tende, perché tale, a essere assolutizzato e identificato con la
verità storica e quello disegnato dai perdenti che, ovviamente, è caduto
subito dopo la fine del conflitto. Da una parte si enfatizzava la
modernità delle istituzioni politiche e democratiche dell'intesa,
contrapposta all'arretratezza semi feudale e autoritaria degli Imperi
centrali; la guerra allora era ed è ancora vista come lo strumento di
soluzione dei ritardi e di emancipazione dell'Europa dal suo 'polo
arretrato'; la guerra viene inquadrata come mezzo per la riforma
politica e democratica dell'Europa, come il prodotto di una grande
mobilitazione ideale.
Sul fronte opposto si metteva l'accento e si sottolineava il livello
avanzato delle forze produttive, la modernità dell'apparato industriale
e la cooperazione politica e sociale realizzata tra le classi e il fatto
che una vittoria degli Imperi centrali sarebbe stata anche la vittoria
della classe operaia tedesca ed austriaca ma non solo. Poichè il
"modello produttivo e sociale tedesco" sarebbe diventato egemone in
Europa e nelle colonie europee, quella sarebbe stata non solo la
vittoria dell'operaio tedesco ma anche quella di tutti gli operai. La
dimensione planetaria della guerra trovava addirittura una
giustificazione non nella concretezza delle contraddizioni
capitalistiche ma nell'emancipazione dal capitalismo stesso. L'ideologia
della grande guerra fu un'ideologia che pensava, in termini storici,
all'intero pianeta. Forse già nell'illuminismo era accaduto, ma era la
prima volta che un'ideologia mondializzata diventava fatto di massa e
giustificazione ideale per la mobilitazione di decine di milioni di
uomini.
Mentre, dunque, lato Intesa, la guerra era inquadrata come strumento per
la riforma politica, sul lato degli Imperi centrali lo era come mezzo
per la riforma sociale. Incredibilmente al centro di queste
teorizzazioni, al di qua e al di là del Reno, era la socialdemocrazia.
Su entrambi i fronti dalla consapevolezza della vera natura della guerra
non esisteva.
Anche l'entrata degli Stati Uniti in guerra offrì l'esca a letture
opposte. Era l'intervento di una grande forza democratica a favore delle
democrazie sorelle, oppure era l'intervento di un capitalismo cinico e
privo di valori.
L'ottica era chiara: giustificare la suddivisione in blocchi
contrapposti dell'intero pianeta, partendo da motivazioni ideali.
È sicuramente, comunque, stato corretto tenere ben presenti le divisioni
e differenze tra i vari Stati che parteciparono al conflitto, differenze
e divisioni che spiegano in parte i caratteri e la composizione dei
fronti avversi, e sarà inevitabile tornarci sopra in futuro perché tali
separazionie squilibri produrranno ancora effetti, manterranno una
radiazione di fondo storica, ma è fondamentale individuare la tendenza
omogenea verso la guerra che è l'autentica spiegazione del fenomeno.
6.6.3. Lo sviluppo del capitale nella grande guerra
La tendenza omogenea e come tale essenziale
verso la guerra mondiale implica alcune cause di fondo: 1) la necessità
di definire un nuovo ruolo dello Stato nella vita politica; 2) la
statuizione di un rapporto più stretto tra capitale sociale (banche),
grandi imprese monopolistiche e Stato; 3) un nuovo inquadramento del
ruolo politico e sociale delle organizzazioni storiche del movimento
operaio. Ovunque, le strutture di coordinamento economico funzionali
alla produzione bellica determinarono una nuova centralità dello Stato
nella definizione di tattiche e strategie.
Lo Stato si trasforma in un pianificatore dello sviluppo, seppur in un
settore di mercato particolare, perché vincolato dalle stringenti
esigenze belliche e nel quale il committente e il cliente si
identificano. Questo è, però, il primo caso di pianificazione collettiva
e approfondita. In secondo luogo, sempre ovunque, lo Stato interviene
con strumenti legislativi al fine di stabilire i rapporti sociali
direttamente e controllare l'andamento del reddito da lavoro; nelle
industrie belliche, infatti, il legislatore stabilisce le voci del
salario operaio e la stratificazione salariale. In terzo luogo lo Stato
svolge una funzione sociale generale con il controllo sui prezzi delle
merci al dettaglio e sui generi di prima necessità.
Non si tratta, anche qui, di assolute novità, un ruolo attivo sui prezzi
è una sperimentazione dello Stato giacobino, il coordinamento sulle
attività produttive era già stato provato in U.S.A. e un
intervento diretto del potere pubblico sulla produzione nell'Italia
giolittiana, ma ora emerge una volontà di azione globale. Il conflitto
richiede uno sviluppo produttivo calibrato e misurato sul suo obiettivo,
che è un obiettivo generale, che riguarda l'intera nazione e tutto il
corpo sociale, che impone soluzioni nuove e generali di controllo
economico e sociale.
Sebbene limitatamente a un mercato chiuso e protetto come quello
bellico, le esigenze storiche richiedono una capacità sintetica maggiore
che in passato. La massificazione della produzione bellica non riesce a
determinare un nuovo soggetto operaio e neanche una nuova costituzione
di capitale, ma rafforza quantitativamente uno strato operaio e un
sistema produttivo che da marginale diventa pesante e percepibile socialmente.
Il lavoro si trasforma, il concetto di lavoro si trasforma; l'esperienza
professionale serve sempre meno, l'operaio professionalizzato perde
centralità nel ciclo produttivo, anche se sepesso gli viene resituita
sotto forma di partecipazione al controllo del lavoro altrui e della
manutenzione dei macchinari. Qua e là, addirittura, vede indebolito il
suo privilegio salariale. Di contro, entrano nella produzione giovani e
donne, contadini, che svolgono le nuove mansioni che non richiedono
particolare preparazione ma che sono il cuore del ciclo produttivo. Il
vecchio operaio professionale, ridotto a quadro dequalificato dentro una
massa di lavoranti dequalificati, vive malamente questa intromissione,
la sente, e con ragione, come un attacco al suo ruolo, come un
potenziale ricatto alle sue posizioni e alla sua contrattualità, tanto
che spesso, per non dire sempre, si rifiuta di considerare operaia
questa nuova figura.
6.7. L'operaio qualificato e dequalificato
6.7.1. Una nuova stratificazione operaia
Si era aperto un dualismo nella classe
operaia, provocato dalla compresenza all'interno dell'apparato
produttivo di diversi soggetti produttori di plusvalore. Il lavoro
dequalificato aveva caratterizzato anche le composizioni operaie
precedenti, non era affatto uno sconociuto, anzi l'abbattimento del
contenuto professionale del lavoro nella manifattura era stato il
carattere centrale del passaggio dal modo di produzione artigianale a
quello industriale. Nel corso dello sviluppo del capitale, però, la
componente professionale del lavoro operaio era stata recuperata, per
certi versi l'artigiano rientrava in fabbrica, spogliato degli abiti
della sua bottega, ma non privato della sua attenzione e precisione
nell'esecuzione del lavoro. Per le tecnologie ottocentesche il pezzo, il
prodotto industriale, era il risultato del lavoro del singolo che, con
l'aiuto della macchina, lo costruiva in serie. La serialità riguardava
il prodotto e la merce, mentre il lavoro operaio si misurava con la
complessità del pezzo da produrre; il tornio è il paradigma di questo
agire industriale: si produce con serialità e precisione industriale
utilizzando una mentalità artigianale. L'operaio professionale è
responsabile individuale del suo lavoro e della qualità del suo lavoro.
La produzione non si era serializzata, solo il mercato e le merci lo
erano. In questa fase il lavoro dequalificato in fabbrica o era
riservato ad alcuni comparti produttivi (il tessile) particolarmente
votati alla meccanizzazione del processo di lavoro, oppure negli altri
comparti (metallurgico, meccanico, elettromeccanico e anche minerario)
aveva un ruolo marginale, era un servizio e un'assistenza offerta
all'operaio produttore di valore, all'operaio di mestiere.
Ora, negli anni dieci del secolo, emerge il lavoro a basso contenuto
specialistico come elemento di creazione di plusvalore. La produzione
serializzata, il lavoro in serie, viene esportato in comparti fino ad
allora immuni.
Questo dualismo di un doppio produttore di plusvalore non si scioglierà
tanto facilmente in Europa; la compresenza significò un limite, una
incapacità. La produzione in serie era possibile, ma l'assetto economico
generale necessario alla produzione in serie, un'ulteriore astrattezza
delle merci e del prodotto e alla fine del plusvalore, non era ancora
amministrabile a livello economico e sociale generale e, probabilmente,
anche a livello politico.
La produzione in serie, in Europa, si afferma durante il conflitto e
nella metallurgia e metalmeccanica allo scopo di far fronte a
un'esigenza precisa, la produzione di armi, di mezzi e di strumenti per
l'esercito. Negli Stati Uniti, dove le esperieze di semplificazione e
fluidificazione del processo produttivo erano avanzate già nell'ultimo
decennio del secolo precedente, la guerra incontra un apparato
industriale con un bagaglio tecnologico più ricco, adatto ad
automatizzare alcune mansioni operaie, e maggiormente pronto anche dal
punto di vista del controllo dei comportamenti sociali.
La stratificazione del lavoro operaio determina una stratificazione
sociale dentro la classe operaia. Una nuova categoria emerge, quella dei
tecnici che sostituiscono parzialmente la manodopera qualificata,
necessaria a dotare la fabbrica di nuovi servizi interni e alla
produzione. Figure che controllano il lavoro della linea e i suoi tempi,
computano cottimi e la necessità del lavoro straordinario. Il lavoro,
precisamente come la merce che si oggettiva sul mercato, si oggettiva
nella linea di produzione della serie ed è computabile attraverso
un'idea resa ora assolutamente astratta: il tempo di lavoro. Il tempo di
lavoro si oggettiva con scientificità nel prodotto di lavoro, secondo
proporzioni matematiche e geometriche, secondo legami astratti che
assumono una vera concretezza. A garantire l'astrattezza del lavoro
operaio non è più la realtà del mestiere operaio, ma il tempo astratto,
privo di contenuti differenziabili, della linea di montaggio.
Si viene così a creare uno strato di lavoratori salariati e una nuova
maniera di concepire il lavoro; i tecnici e il lavoro intellettuale
dentro il processo produttivo formano un apparato di controllo non più
funzionale, che non nasce più dalla professionalità del lavoratore, dal
suo essere esempio per tutti compagni, ma che genera da una realtà che
nulla ha a che vedere con la produttività iintesa in senso stretto. Si
forma una gerarchia di fabbrica che ricorda e richiama quella militare.
La nuova gerarchia non ha più nessuna funzione dentro la produzione
delle cose, nella creazione dell'essere, ma è un'astrazione che le
comanda.
6.7.2. La terza rivoluzione industriale
La nuova stratificazione sociale porta con sé
una nuova ideologia e mentalità sociale, anzi le richiede e negli Stati
Uniti iniziano a strutturarsi un terziario di tipo nuovo, volto a
offrire assistenza sanitaria e mutualistica, perché il lavoro non si
risolve più nel lavoro ma fuori dall'ambito lavorativo. Il lavoro
produttivo, divenuto astratto, e il suo tempo divenuto lineare,
matematico e geometrico hanno bisogno di ricreare una valorizzazione
altrimenti impossibile dentro il recinto della fabbrica. Allo squallore
di un tempo di lavoro svuotato di contenuti professionali, corrisponde
un'attenzione verso il tempo di vita speso al di fuori del lavoro.
La situazione degli anni dieci è contraddistinta da rapidi e radicali
mutamenti, ovunque, sia in USA che nella vecchia Europa; in Europa,
però, l'utilizzo di un'organizzazione del lavoro fluida, che semplifica
le mansioni operaie, è ancora episodica e limitata alla produzione
bellica. La nuova classe operaia appare così precaria, instabile e
contingente e quindi non se ne considera fino in fondo la natura
produttiva e il suo essere classe operaia. Gli operai di mestiere
dimostrano disprezzo e diffidenza non solo verso il nuovo modello
produttivo ma anche verso questi nuovi acquisti alla produzione. Le
organizzazioni sindacali europee non riconoscono come autenticamente
operaio questo nuovo soggetto e, indipendentemente dalla loro posizione
politica, continuarono a fare riferimento all'operaio di mestiere in
quanto soggetto maturo e affidabile, in quanto espressione della
autentica cultura operaia, che era quella che poneva la professione al
centro del lavoro e dell'affermazione del lavoro, tanto individuale
quanto collettiva.
Le organizzazioni legate alle componenti riformiste dei partiti
socialisti, inoltre, avendo accettato l'economia di guerra e la
conseguente pace sociale richiesta, lungi dal riconoscersi nel nuovo
soggetto che proprio lo sforzo bellico contribuiva a far emergere, e pur
accettando di partecipare alla pianificazione congiunta che gli Stati
richiedevano, continuarono a considerare l'operaio professionale il
riferimento organizzativo e a farne una sorta di guida politica e
ideologica di tutti i lavoratori di fabbrica. Il senso di
responsabilità, l'attaccamento al lavoro si traducevano in una dote
politica e strategica: saper comprendere le necessità del momento,
evitare rivendicazioni e accantonare i propri interessi in funzione di
quelli generali della nazione. Fu naturale usare la spontanea diffidenza
dei qualificati contro i dequalificati per ottenere dentro la classe
operaia una cinghia di trasmissione delle scelte strategiche del
partito.
L'insofferenza dei giovani, delle donne e dei contadini, impiegati in
massa nella produzione bellica, venne circondata, così, da un notevole
cordone sanitario ideologico e politico. Ancora di più che con la
fiducia ai crediti di guerra, i partiti socialisti europei parteciparono
alla mobilitazione bellica con il quotidiano controllo che l'operaio
qualificato esercitava su quello dequalificato, sul parvenu,
sull'analfabeta politico.
Anche negli Stati Uniti, il locale Partito Socialista fece propria
questa impostazione e qualificazione dei comportamenti operai.
I timori verso questo nuovo genere operaio non attraversavano solo il
campo del movimento operaio storico e tradizionale, ma anche il fronte
padronale. Sono suffcientemente chiari i rischi che possono generare da
questa nuova categoria operaia, che sono rischi intrinsechi alla stessa
organizzazione del lavoro, allo stesso concetto e rapporto di lavoro: il
tempo di lavoro diventa, privo di qualifiche e di punti e momenti
diversificati, un tempo anonimo, un tempo astratto che può produrre
alienazione e quindi soggezione passiva ma anche, al contrario,
estraneità. Il tempo di lavoro può diventare la materializzazione di un
furto di parte della vita che non ha altri scopi che il furto stesso,
che non si giustifica che nel furto stesso e non, come accadeva per il
lavoro operaio professionalizzato, con la realizzazione di quel tempo
nella generazione di qualcosa escluso da quel tempo stesso, di qualcosa
di individuale e di creativo. Il lavoro di fabbrica non esige più
contributi, ma solo attribuzioni di tempo. Il tempo, allora, diventa
nemico, diviene odioso.
Inoltre, la natura di quei nuovi soggetti, spesso di origine contadina e
di recentissima proletarizzazione, accentua le potenzialità di una
radicale estraneità al lavoro. Quello che era accaduto durante la prima
rivoluzione industriale e messo sa canto dalla seconda, viene richiamato
nella terza: l'operaio di linea è, per la seconda volta e in maniera
esponenziale, la negazione dell'artigiano. Il lavoro si presenta come
tempo puro, perfettamente misurabile, inserito in un rapporto di dominio
e non in un rapporto produttivo: il lavoro diventa, negli anni dieci,
strumenti di dominio prima ancora che essere mezzo di produzione e la
gerarchia e l'autoritarismo sostituiscono, nel comando di fabbrica, la
sapienza tecnica degli operai 'fatti' e il paternalismo del datore di
lavoro.
6.7.3. Il linguaggio comune tra capitalismo e
operaismo professionale: l'etica del lavoro
L'operaio qualificato rimane in fabbrica come
un simulacro vivente di un tempo di lavoro che non esiste più ma
che serve ancora, come un relitto di una mentalità che non ha più alcun
fondamento ma che è utile rifondare artificiosamente. Dentro la nuova
realtà produttiva, dove il comando è autoritario e politico, l'etica del
lavoro operaia non può fondarsi e non può che generarsi un anti-etica
del lavoro, un rifiuto del lavoro o una soggezione militare al comando
di fabbrica. Dietro questi due atteggiamenti, nascosto in questi, è una
separazione dicotomica tra lavoro e operaio, tra impresa e operaio.
L'etica del lavoro dell'operaio di mestiere era stata veicolo di ipotesi
di autogestione e autoorganizzazione della produzione, di
autodisciplinamento dei produttori e di ipotesi quando non apertamente
rivoluzionarie comunque radicali e sovversive. Questa prospettiva
progressiva si interrompe: l'oggetto del contendere non è più il lavoro
e la qualità del modo di produzione, ma il tempo di lavoro e la
produzione stessa. Chiunque faccia riferimento ai valori nel lavoro e
nella produzione rientra, automaticamente, nel quadro della
compatibilità con l'esistente e la rivoluzione dell'operaio di mestiere
cessa di essere una rivoluzione.
L'etica del lavoro e l'affermazione dell'autogestione operaia diventano
l'ideologia del comando di fabbrica, conformano le scale della gerarchia
produttiva, diventano l'ideologia 'operaia' sulla produzione:
disciplina, amore per la mansione, valorizzazione del tempo di lavoro
proprio in quanto tempo controllato. L'operaio di mestiere perde il suo
mestiere ma diventa il tecnico e il controllore, il responsabile, della
produzione astratta. La prospettiva rivoluzionaria del tecnico diventa
una prospettiva che non riguarda più la fabbrica, ma ciò che avviene
fuori della fabbrica, che riguarda il partito politico: dentro la
fabbrica l'antagonismo è riducibile a un maggior controllo operaio sulla
produzione contrapposto alla svalorizzazione immessa dal capitale. Per
il relitto dell'operaio di mestiere l'antagonismo era tra valorizzazione
operaia e svalorizzazione capitalistica del lavoro operaio. La
valorizzazione operaia intendeva recuperare il lavoro alla sua
dimensione professionale, qualificata e cosciente, mentre la
svalorizzazione capitalistica puntava alla sua definitiva alienazione.
In tal maniera, però, l'operaio di mestiere forniva, in forme critiche,
un puntello notevole all'ideologia del lavoro del capitale: il lavoro
rimane un valore operaio, nonostante ogni svalorizzazione. Insomma bisognava
pur sempre amare il lavoro.
La nuova gerarchia di fabbrica si armò e fu armata di questa ideologia
della valorizzazione del lavoro, alla quale corrispondeva perfettamente
sul terreno della strategia politica
il gradualismo riformista o l'evoluzionismo massimalista: l'attesa della
socialismo e dei tempi per quello maturi. E in perfetta corrispondenza
le organizzazioni socialiste e sindacali affidarono all'operaio
qualificato (l'unico soggetto che avesso il senso e la responsabilità
autentica del lavoro) il ruolo di stella polare nelle strutture
organizzate. Il nuovo comando del capitale e le organizzazioni
tradizionali del proletariato parlavano dunque lo stesso linguaggio.
L'etica del lavoro divenne così il vero terreno di reciproca
comprensione e il fondamento di ogni scambio contrattuale tra il
movimento operaio e l'organizzazione del lavoro capitalistica. La
dirompenza dello sviluppo capitalistico richiedeva proprio
l'occultamento del suo carattere dirompente, del fatto che il lavoro
diventava, in realtà, il termine di una relazione di subordinazione
assoluta e che, al di fuori di quella, non aveva alcun valore e
significato sociale. Lo spettro di una dittatura assoluta nella
produzione prendeva corpo, in quanto il governo sulla produzione non
poteva essere contrastato da ragionamenti sulla produzione ma semmai
dalle prime critiche alla produzione, dalle prime rivendicazioni
antiproduttive. Non casualmente l'acronimo della prima organizzazione
americana di operai unskilled, gli IWW, veniva sciolto, con disprezzo,
dalla stampa conservatrice come I wont work, io non voglio
lavorare.
6.7.4. Nuovi linguaggi
Il declino della vecchia composizione di
classe e l'emergere di una nuova non determinarono solo conflitto ma
anche contaminazione. A partire dal 1916 si sviluppò un ciclo di lotte
sul salario al cui centro erano gli operai di mestiere, gli skilled, e
le organizzazioni sindacali legate e affini alle componenti massimaliste
dei partiti socialisti; l'anno seguente, quel ciclo di lotte si allargò
anche ai dequalificati. Questo allargamento, però, determinò un
cambiamento nelle forme di lotta: si verificarono sabotaggi alle
macchine, capaci di fermare la produzione e favorire l'adesione agli
scioperi, come pure esplose il fenomeno dell'assenteismo pre e post
festivo. Tutte cose del tutto estranee alla tradizione sindacale
corrente.
Se poi l'operaio di mestiere affidava al partito e alla sua coscienza
organizzata la gestione dei fatti sociali e politici generali, gli
scioperi del 17 ruppero questa delega: spessissimo le agitazioni si
trasformarono in azioni dirette contro il carovita (più o meno ovunque),
dove la componente femminile era preponderante. Ci furono manifestazioni
di donne e operaie in Italia e in Germania e, addirittura,
l'inizio della rivoluzione di febbraio in Russia fu segnato da una
imponente manifestazione di operaie a Pietroburgo. Le rivolte per il
prezzo politico del pane furono scambiate dai partito socialisti, con
una certa sufficienza e una sicura malafede, con un arretramento alle
jacquerie medioevali, con un ritorno all'inconsapevolezza. In
realtà, come era già accaduto negli Stati Uniti nel 1910, gli operai
dequalificati, la categoria salariale più povera e meno coinvolta nel
valore del lavoro, pretendeva di esprimere un controllo diretto sulla
vita sociale, sul tempo libero dal lavoro. Il carattere diretto di
questa azione escludeva la mediazione politica offerta dalle
organizzazioni operaie esistenti, richiedeva il controllo diretto dei
quartieri, la contrattazione su affitti e pigioni, sul prezzo del pane e
della carne, la contrattazione sulla vita quotidiana.
Il terreno della riproduzione del capitale veniva investito direttamente
dalle nuove lotte operaie, proprio perché la produzione perdeva il
significato sociale che fino ad allora aveva avuto.
Le organizzazioni operaie, legate analiticamente alla precedente
costituzione di capitale, stentavano a capire o rifiutavano di capire
quale fosse il senso delle lotte operaie contro la 'razionalità
economica' e bellica del 1916 e 1917. Era, in realtà, la critica a
quella razionalità da loro stessi condivisa e tenuta presente anche
per il potenziale processo rivoiluzionario seconda la quale le
lotte non dovevano introdurre rottura nel meccanismo della produzione e
nella gestione del tempo di lavoro, ma continuità, in una ulteriore
razionalizzazione.
L'intelligenza del capitale, al contrario, non interpretò quei fatti
come una regressione alla fase 'anarchica' e pre-moderna della storia
del proletariato, ma intese subito i caratteri nuovi dell'antagonismo
che il suo stesso sviluppo contribuiva a delineare e che non era
riassumibile, come il precedente, sul terreno della dialettica
valorizzazione / svalorizzazione del lavoro, quanto su quello più
generale della valorizzazione / svalorizzazione della riproduzione di
capitale, della valorizzazione / svalorizzazione sociale. Lo Stato era
lo strumento per governare questa dialettica e l'interventismo pubblico
sperimentato durante la guerra era la base di partenza per questa nuova
avventura e la linea da percorrere verso il nuovo scenario.
7. Tra guerra e dopoguerra
7.1. Le strozzature europee
Lo Stato si era dotato della strumentazione
adeguata a intervenire sui rapporti sociali generali e non più come
forza esterna ma interna e implicita. L'antagonismo operaio degli anni
'16 e '17 aveva investito, per la prima volta, partendo dalla fabbrica
la società, aveva dimostrato e rivendicato la permeabilità tra fabbrica
e società, produzione e riproduzione del capitale. Questa nuova
emergenza imponeva alla Stato nuovi compiti e nuovi orizzonti operativi.
I cicli di lotte di questi anni di fine guerra sono fondamentali nel
provocare l'evoluzione dello Stato negli anni venti e trenta. Lo Stato
deve farsi sociale.
In alcuni paesi questa trasformazione statuale non potè realizzarsi;
questa corsa verso il sociale in forme implicite e interne, come
elemento interno ai rapporti di produzione e sociali, e non potè
realizzarsi per vischiosità endogene che dipendevano da una struttura di
potere arretrata, legata a concrezioni istituzionali pre borghesi e
protoborghesi, a forme monarchiche autoritarie e a una debolezza
politica del capitale nelle istituzioni o esogene che provenivano dai
rovesci militari, dalla perdita dell'influenza coloniale. L'inceppamento
di questo processo di socialità statuale comportò la crisi
rivoluzionaria, la Russia del 1917, la Germania e l'Austria del novembre
'18, l'Ungheria del 1919 e l'Italia del biennio '19 - '20. La sconfitta
degli imperi centrali può anche essere letta come il prodotto di questa
incapacità a determinare una socialità statuale e anche, in un effetto
che rincorre la causa e si confonde con quella, che interagisce con
quella, come il motivo per il quale Germania e Austria non poterono
evolvere lo Stato in una dimensione sociale.
L'esito della guerra e, in generale, le dinamiche belliche, la storia
della grande guerra, rendono palese che negli imperi centrali, ma anche
in Italia e Russia la necessità della pianificazione economica e sociale
era una necessità bellica, un episodio contingente, mentre, al
contrario, la classe operaia aveva scoperto proprio attraverso la socialità
della produzione bellica il suo ruolo decisivo nelle relazioni di potere
sociale. In quei paesi, il capitalismo ragionava per episodi, mentre la
classe operaia ragionava secondo strategie universali che la univa al
resto della classe operaia internazionale. In Germania, Austria,
Ungheria, Russia e Italia, il capitalismo scelse la socialità in ragione
della militarizzazione della produzione e della società, mentre la
classe operaia sceglieva la socialità per la demilitarizzazione e
denazionalizzazione dell'economia.
È un dato di fatto che la caduta di tre monarchie storiche europee al
termine della guerra fu conseguente a crisi rivoluzionarie. In Russia,
la crisi rivoluzionaria comportò il decadimento del capitalismo e la sua
sospensione, almeno nelle forme nelle qualo si era espresso fino ad
allora, e l'avvio di una fase politica ed economica tendenzialmente
comunistica che durò fino al '20; in Germania, la borghesia fu costretta
a sacrificare l'istituzione monarchica e a fare della repubblica
l'obiettivo del movimento operaio in ragione di un riequilibrio, a lei
favorevole, dei rapporti politici e sociali. Il movimento operaio
tedesco si spaccò di fronte alla trappola repubblicana e l'illusione di
una repubblica sociale. Gli eventi tedeschi, però, disegnano una
strozzatura della dialettica politica, uno spostamento della sua
focalizzazione dal terreno dello stato sociale a quello dello
stato democratico e partecipato; invece che un allargamento degli spazi
di intervento dello Stato, si fa avanti un allargamento delle
istituzioni politiche dello Stato.
L'impulso strategico proposto anche al capitale dall'operaio astratto e
comune, che era stato protagonista delle lotte di fine guerra e della
'rivoluzione repubblicana', venne sostituito e obliterato - rimarcato -
da un impulso verso una partecipazione democratica allargata.
Negli Stati Uniti si praticava la pianificazione della mediazione sui
conflitti sociali, invece, da almeno un ventennio. Questo non significa
affatto che la nuova ed emergente composizione di classe operaia,
l'operaio comune e dequalificato, trovasse una diretta rappresentanza
sindacale o che lo Stato sia andato sempre direttamente incontro ai
nuovi scenari di intervento che le lotte sociali implicavano, ma, pur
mantenendo l'intelaiatura professionale e la divisione per mestieri le
rappresentanze sindacali si danno una forma di categoria, una forma
industriale, cosicché, ancora sotto la guida della vecchia leadership
e sotto l'egemonia politica delle vecchie e nuove aristocrazie operaie,
la spinta del nuovo soggetto ottiene accesso alla contrattazione.
In Europa questa trasformazione inizia solo dopo il 1917, solo dietro
l'esempio o la grande paura della rivoluzione russa, e caricata da
urgenze e valenze politiche specifiche. Anche perchè in Europa i
comportamenti autonomi operai erano egemonizzati dalla classe operaia
qualificata e professionalizzata; qui l'ideologia ufficiale del
movimento operaio, il socialismo riformista, contribuì a recuperare la
spinta dal basso.
È certo che dopo il 1916 la socialdemocrazia entrò in crisi: in
primo luogo la ristrutturazione della produzione che l'economia di
guerra impone, indebolisce la sua base sociale, in secondo luogo la
politica di accettazione attiva della guerra, ma anche quella passiva,
secondo il modello pacifista uscito da Zimmerwald, determinarono una
grave crisi di credibilità e popolarità. Questa crisi tocca, in realtà,
tutto il fronte socialdemocratico, anche quello massimalista e
rivoluzionario che non ebbe la capacità e il coraggio di slegarsi dal
progetto, dal tessuto organizzativo e ideologico della socialdemocrazia
riformista. Le alternative che i massimalisti proposero erano tutte
fondate su un terreno ideologico e finivano per essere socialmente e
politicamente deboli.
Quel terreno ideologico, infatti, fondava gran parte delle sue
teorizzazioni sui comportamenti e atteggiamenti degli operai di mestiere
e qualificati, precisamente come nella fondazione riformista, e non
riprendeva la profonda critica all'organizzazione del lavoro che i nuovi
soggetti avanzavano: il lavoro rimaneva neutro, solo il governo del
lavoro aveva una parte sociale. Era naturale che i massimalisti
restassero all'interno delle organizzazioni della seconda
internazionale.
In entrambe le componenti del fronte socialista non si vedeva l'emergere
delle nuove esigenze operaie e della nuova critica operaia alla
produzione e si rispettava la dicotomia e la stratificazione che lo
sviluppo capitalistico aveva introdotto nella classe operaia. La nuova
fase del lavoro operaio sfuggiva alla comprensione delle istituzioni
storiche degli operai. Il fatto che la scissione tra socialdemocrazia
tedesca e comunisti tedeschi avvenga, in Germania, solo nel '19 e dopo
l'insurrezione di novembre 1918 e che in Italia la separazione avvenga
nel 1921 e dopo il biennio rosso descrive molto chiaramente questa
incapacità di comprendere il movimento reale degli operai. Fu uno
strappo ideologico solo indirettamente - e la cronologia
rispecchia questa mediazione - provocato dai nuovi e dirompenti
contenuti delle lotte del primissimo dopoguerra.
7.2. La rivoluzione russa e le lotte
internazionali
7.2.1. L'autocrazia e il capitalismo
Questa capacità di intendere la nuova fase
operaia non si realizzò neppure nelle organizzazioni del movimento
operaio russo, bolscevismo e menscevismo furono lontanissimi dal leggere
la nuova composizione di classe in maniera diretta, ma la nuova fase
operaia fu aiutata piùttosto che dalla progressione del pensiero
socialista e poi comunista russi , dall'arretratezza dello sviluppo
capitalistico in Russia, che generò nuove contraddizioni senza avere il
tempo di isolarle e separarle da tutte quelle ereditate da un passato e
presente ancora semifeudale. Si determinò una combine
disastrosa per la monarchia zarista e per il suo parlamento a base
ristrettissima, la duma di Stato. La Russia era certamente un
paese capitalistico, con una trentennale industrializzazione, ma un'area
di sottosviluppo capitalistico, cioè egemonizzata dagli investimenti
esteri nel settore industriale. In questo contesto le lotte operaie si
traducono, immediatamente, come motore e volani non solo dello sviluppo
economico ma anche di quello politico e istituzionale. Nella
moltiplicazione degli attori sociali, che affianca il conflitto tra
capitale e lavoro, aristocratici, redditieri agricoli, mezzadri,
fittavoli, proprietari agricoli comunitari e, infine, coltivatori
diretti, artigiani, la lotta tra capitale e lavoro assume spesso il
ruolo di avanguardia nella più generale lotta per una democratizzazione
dello Stato russo, avanguardia che si porta dietro il variegato mondo
della campagna russa. La proprietà privata, in Russia, ha così due
facce: è già dominio, nel settore della produzione industriale, ma è
ancora liberazione nelle campagne di fittavoli, mezzadri e coloni a
diverso titolo. In Russia la proprietà privata dei mezzi di produzione è
la forma egemone nei rapporti economici ma non è ancora una forma
generale compiutamente socializzata.
Mancò così allo sviluppo capitalistico un saldo retroterra sociale e
culturale e soprattutto, conseguentemente, uno Stato istituzionale
capace non solo di dare risposte dirette e lineari a questo sviluppo, ma
di comprendere veramente i nuovi orizzonti nei quali doveva imparare a
muoversi. La monarchia zarista, legata alla sua autocrazia e legata alle
ascendenze dell'aristocrazia, non era capace di vedere chiaramente il
borghese di campagna e non vedeva il borghese di città, se non come
avventuriero tecnologico e divertente episodio del costume.
7.2.2. Lo strano operaio, contadino e soldato
russo
7.2.2.1. Il contro - Stato
Dal punto di vista proletario, la Russia
combina due elementi diversi, un operaio qualificato e un soggetto
dequalificato, ma per la costituzione di capitale il soggetto
dequalificato pare assolutamente maggioritario, non tanto in ragione
della automazione, quanto in ragione della basso livello di quella.
Quello che tiene unita questa classe operaia è soprattutto la comune e
universale origine contadina. Gli operai russi sono quasi tutti classe
operaia di prima generazione.
Il lavoro salariato in genere, in Russia, era un fenomeno di prima
generazione. L'attivazione di sistemi di pagamento del lavoro tramite il
salario nella campagna era recente e conviveva con relazioni di
dipendenza extraeconomici. Il corrispettivo in campo militare della
disciplina industriale si applicava in Russia attraverso una gerarchia
militare che faceva perno sui lignaggi aristocratici. Alla produzione
industriale rispondeva una classe appena inurbata, alla
razionalizzazione agricola una massa sottoposta a prestazioni
tradizionali ed extraeconomiche, ad un esercito moderno un comando, una
disciplina e un'organizzazione gerarchica pre - moderna. La Russia era
l'incarnazione della legge dello sviluppo diseguale.
In una tale situazione il conflitto tra capitale e lavoro tende a
politicizzarsi subito, a diffondersi nella società per osmosi, perchè si
verifica uno spontaneo riconoscimento tra soggetti diversi sulla base
della loro comune condizione di subordinati. L'operaio di fabbrica si
immedesima nel contadino sottoposto ad alcune servitù, come il mezzadro
si riconosce nell'operaio ed entrambi nel soldato contadino - operaio
che combatte al fronte.
Il fronte proprietario, invece, non è così solidale: la nuova borghesia
fatica a riconoscersi nella vecchia rendita agraria, la rendita agraria
fatica a comprendere lo spirito imprenditoriale e lo censura ed entrambe
criticano la monarchia zarista. Lo Stato dello Zar non riesce a
istituire un blocco di potere.
Le risposte alle lotte operaie e contadine sono quasi sempre di tipo
militare e ricalcano, quindi, solo la funzione primigenia dello Stato
capitalistico, funzione dentro la quale l'autocrazia zarista si trova
perfettamente a suo agio, rimanendo una monarchia in larga parte
assoluta; innegabilmente si procede a qualche timida concessione verso
la democrazia rappresentativa e politica, quasi che fosse solo quello
l'oggetto dello scontro, concessioni del tutto insufficienti a seguire
la situazione e tanto meno ad anticiparla.
Lo Stato e l'organizzazione statuale dello Zar lasciava al contrario
vuoti di intelligenza e progettazione politica gran parte degli spazi
della società, che diventarono delle vere e proprie terre di
nessuno dove l'intelligenza o la semplice intraprendenza politica
dell'antagonismo proletario (operaio e contadino indifferentemente) si
insediava, riempendoli. In tal maniera, i partiti storici del movimento
operaio e contadino russo, la socialdemocrazia divisa nelle sue due
frazioni menscevica e bolscevica, e i socialrivoluzionari si trovarono
davvero a poter utilizzare un progetto configurato dal basso, un
progetto della spontaneità, operaia e contadina.
Il primo esempio di questa intraprendenza proletaria e genericamente
'popolare' fu lo sciopero generale del 1905, al quale seguì
l'insurrezione operaia e popolare a Pietroburgo e la formazione di
un'assemblea rivoluzionaria, eletta per mandato imperativo e secondo
procedimenti consiliari. Il soviet di Pietroburgo del 1905 riempì la
società di progettualità politica, dando ai settori sociali più
disparati rappresentanza diretta.
Il soviet di Pietroburgo rimase, anche per il riferimento
propagandistico costante di bolscevichi e menscevichi a quello, lo
spazio politico ideale per operai e contadini, l'istituzione capace di
dare un senso alla società: un nuovo e possibile Stato. Esisteva in
Russia, oltre, dietro e al di là dei partiti tradizionali di operai e
contadini, un'organizzazione spontanea, una rete di comunicazione
potente e orizzontale, il basamento concreto di un contro - Stato.
7.2.2.2. Socialrivoluzionari, menscevichi e
bolscevichi
I partiti tradizionali del movimento operaio
e contadini non avevano alle spalle, come nel resto dell'Europa, una
storia riformista; il riformismo era un'importazione dalla seconda
internazionale, ma non era nutrita da una elaborazione locale. Questo è
comprensibile anche per la natura del movimento operaio e proletario
della Russia.
La scissione di gran parte dei partiti socialisti russi dalla
socialdemocrazia e la loro effettiva indipendenza è un prodotto di un
accentuazione nazionalista e panslavista nei socialrivoluzionari e nei
bolscevichi e nei menscevichi della constatazione della inattualità, in
Russia, del riformismo europeo, ma alla base di entrambe le
opzioni è anche questo carattere diffuso e di massa dell'antagonismo
proletario che sogna un contro - Stato. La scissione dalla
socialdemocrazia fu naturale, un risultato spontaneo, paradossalmente là
dove gli elementi arretrati della società russa avrebbe potuto
collaborare a un rafforzamento della dialettica riformista.
Le ipotesi gradualiste della socialdemocrazia, se potevano essere
recepite sul terreno della lotta politica e istituzionale, non lo
potevano su quello della lotta sociale ed economica, in quanto tutte
legate a una teoria dello sviluppo lineare del capitalismo che in Russia
non era credibile. La rivoluzione, o meglio anche la riforma, in Russia
si può realizzare come affermazione di una nuova società, non come
un'azione che parta dall'alto, dal concerto tra élite e dal compromesso
tra quelle e i rappresentanti del proletariato. Per i bolscevichi e i menscevichi di sinistra, la
borghesia russa non ha la capacità di produrre il suo Stato e di
abbattere la monarchia, mentre i socialrivoluzionari non
pensano a un stato politico - sociale intermedio gestito dalla borghesia
ma immaginano una rivoluzione contadina che chiuda anche con l'occidente
e con il capitalismo in quanto fenomeno occidentale. Solo la frazione
della destra menscevica pensò a una fase intermedia di democrazia
parlamentare e suffragio universale, gestito dalla borghesia con
l'appoggio attivo del proletariato.
I bolscevichi, dopo il ritorno di Lenin nell'aprile 1917, teorizzarono
l'organizzazione politica comunista come il momento più alto della
consapevolezza sulla fase storica, proprio perchè coordina e organizza
le esigenze proletarie che stanno comunque avanti, che anticipano
l'organizzazione: il proletariato russo, secondo Lenin, sta davanti,
indica la strada, la consapevolezza comunista la segue.
7.2.3. L'Europa nel cortocircuito
L'impatto della rivoluzione russa sarà
fortissimo e profondo. Gli anni venti sono stati quelli che abbiamo
conosciuto, in gran parte per conseguenza di questo impatto che si giocò
su moltissimi livelli.
In primo luogo, la rivoluzione chiuse un ciclo di lotte operaie per
aprirne subito un altro. In secondo luogo, la rivoluzione determinò un
ripensamento sul progetto capitalistico e una crisi seria in quello. La
guerra internazionale finiva, si risolvevano le contraddizioni per le
quali era nata, ma i fatti russi ponevano una serissima incognita sulla
possibilità di realizzare compiutamente il nuovo assetto geo - politico.
In terzo luogo, la sconfitta degli Imperi centrali aveva, infatti,
comportato la scomparsa di uno dei protagonisti dell'intesa e dei paesi
in vista dei quali si era organizzata la pace e la riorganizzazione post
bellica. La vittoria dell'intesa finì per essere una mezza - vittoria,
una vittoria mutilata di un alleato. La prima guerra mondiale,
così, non riesce a sancire nuovi equilibri di capitale: vincitori e
sconfitti si assomigliano, non avendo saputo trasformare la composizione
di capitale se non in relazione e in proporzione delle necessità di
comandare la produzione bellica e la macchina militare. La guerra non
aveva risolto i problemi statuali interni a ciascun paese belligerante e
l'umiliazione della Germania a Versailles va spiegata in questo modo:
una compensazione a una incapacità interna, una compensazione alle
difficoltà di progettazione capitalistica in Francia e Gran Bretagna.
Questa situazione di economia politica ha un suo fondamento /
rappresentazione in un dato di volgare economia: Francia e
Inghilterra avevano usufruito di prestiti americani per finanziare il
loro sforzo bellico, erano, quindi, indebitate con il loro alleato. La
strozzatura nello sviluppo del capitalismo europeo si rappresentava
concretamente con un elemento contabile, con un debito contratto, e
contratto non casualmente con chi poteva garantire invece allo sviluppo
capitalistico un'autentica linearità.
Dall'alto del loro credito e dall'alto della superiore costituzione di
capitale - che sono quasi sinonimi - gli Stati Uniti potevano
presentarsi - ed essere veramente - come l'unico paese in gradi di
esercitare una mediazione internazionale, una mediazione post bellica, e
il paese - guida della pace. Poi Wilson, il presidente dell'epoca, non
poté, per svariate ragioni, raccogliere i frutti che naturalmente
cadevano da quest'albero.
Ad aggravare la situazione per i vincitori europei del conflitto
mondiale furono i tentativi insurrezionali in Germania nel novembre del
'18 e soprattutto la formazione di repubbliche autonome e socialiste,
per certi versi 'sovietiche', in Turingia e Baviera, oltre che la
rivoluzione socialista in Ungheria. Gli Imperi centrali, sconfitti, non
parevano capaci di sopportare la sconfitta all'interno delle
compatibilità e delle regole dell'economia capitalistica, ma sposare vie
di fuga bolsceviche da quella. Wilson, tutt'altro che filantropicamente,
denunciava la logica della vendetta e della rivalsa di francesi e
inglesi, in quanto incapace di far vincere la pace a questi e
soprattutto in quanto capace di rendere il debito contratto con gli
americani durante la guerra più facilmente ripagabile. In un tal
contesto gli Stati Uniti perdevano la possibilità di amministrare il
dopo guerra europea e quindi di vincere la loro parte di pace, che era
quella più cospicua.
Accadde comunque proprio così: tutti, USA compresi, persero la pace,
mentre gli imperi centrali continuarono a essere gli sconfitti di una
guerra che, alla fine, sotto il profilo dell'economia politica, non
aveva avuto vincitori.
Maynard Keynes criticò, considerandolo come un portato soggettivo,
l'atteggiamento dei paesi vincitori, ma in realtà questo atteggiamento
fu determinato da fatti oggettivi e forse ineluttabili.
La prima guerra mondiale, sotto molti punti vista e soprattutto dal
punto di vista dell'economia politica, fu un vero fallimento della
Storia; l'Europa si dibatté sotto il profilo della economia politica e
dell'organizzazione del potere statale nelle aporie lasciate aperte dal
conflitto per tutti gli anno venti, mentre le aporie generali, i
disequilibri internazionali, che la guerra aveva lasciato aperti,
arricchiti dall'effetto della rivoluzione russa, porteranno alla grande
crisi economica del '29 - '33.
L'arretratezza della costituzione di capitale in Europa che comportava
l'arretratezza dello Stato si inserì nell'economia mondiale come una
mina vagante: la rivoluzione russa rappresentava la pericolosità di
questa mina, la sua potenza deflagrante. Il mantenimento, nei paesi
europei, di un sistema di dominio del sottosviluppo di tipo coloniale,
che si accoppiava, con perfezione e naturalezza, alle vischiosità di
tipo protocapitalistico nella composizione dello Stato tendevano a
generare anziché sviluppo, cortocircuiti nello sviluppo.
La rendita fondiaria ed atteggiamenti redditieri erano prevalenti
nell'economia agricola, la piccola borghesia era in crisi di identità
dentro il nuovo sistema industriale, che puntava a una progressiva
dequalificazione del lavoro in generale, ad eliminare le componenti
artigianali e creative in quello, ma funzionava ancora come classe di
supporto alla produzione, senza aver un preciso ruolo nella riproduzione
del capitale. Paure e mentalità nuove assumono, in Europa, le vesti di
paure e angosce antiche. Nel complesso dell'ecologia mondiale del
sistema capitalistico, nonostante il fallimento del globalismo del
presidente Wilson, gli Stati Uniti fanno da contrappeso, per tutti gli
anni venti, all'arretratezza europea, funzionano come calamita, come
polo calamitante.
Ma, analizzando la situazione mondiale, si riproduce un meccanismo di
dominio sociale vecchia, che si basa su valori sorpassati concretamente
dalla costituzione di capitale, che affronta o cerca di affrontare
esigenze sociali nuove, una nuova composizione operaia che usa
non solo la fabbrica ma anche la società, ed esigenze politiche inedite,
la rivoluzione russa, una sorta di comune di Parigi su scala
internazionale.
La radice, o meglio una delle radici del fascismo e poi del nazismo, è
la necessità di affrontare questa novità facendo il verso di rinnovarsi,
fingendo il rinnovamento o meglio amministrando la necessaria socializzazione
dello Stato in maniera autoritaria.
7.3. Un grande ciclo di lotte
7.3.1. La riconversione post bellica
Non è un caso che, in tutti i paesi europei,
l'esperienza di pianificazione industriale venga liquidata subito dopo
la fine del conflitto e che l'amministrazione della riconversione
produttiva sia affidata a capitalisti privati. In Europa, gli schemi
della produzione massificata, ripetitiva e uniforme, fuori dal
conflitto, non valgono: l'economia capitalistica europea rimane ancorata
a un modello di sussistenza, di decorosa riproduzione della manodopera,
di domanda depressa: il salario rimane solo un costo, non una ricchezza,
non una fonte di domanda. Una certa porzione di lavoro dequalificato,
però, si mantiene centrale e in alcuni settori industriali (minerario e
metalmeccanico) si fa tesoro delle esperienze acquisite in guerra. Il
processo di riconversione generale restituisce all'operaio di mestiere e
qualificato centralità nella produzione industriale e spesso lascia a
quello la funzione del controllo operativo dei processi,
contemporaneamente il nuovo soggetto dequalificato rimane all'interno
della fabbrica.
Erano state proprio le lotte durante la guerra a ottenere una
sostanziale parità salariale tra qualificati e non qualificati e i
meccanismi stessi di costruzione del salario avvicinavano i due
soggetti. In realtà, nella percezione dei capitalisti e nella realtà
effettiva, il principale nemico, il soggetto contro il quale si
calibrano tattiche e strategie sociali, era ancora l'operaio
qualificato, in quanto capace di pesare sul flusso produttivo in maniera
determinante, se non ancora decisiva, a causa della struttura stessa del
flusso che non prevedeva segmentazione e semplificazione in ogni sua
linea.
Il problema che offriva il nuovo soggetto, l'operaio comune e non
professionalizzato, era sentito come secondario. Il fatto che il nuovo
operaio manifestasse, al contrario di quello di mestiere, un elevato
grado di estraneità agli scopi della produzione e un atteggiamento
critico nei confronti dell'organizzazione e delle gerarchie di fabbrica,
il fatto che fosse tendenzialmente assenteista e che spesso sabotasse la
produzione, cioè il fatto che adoperasse forme di protesta del tutto
nuove ed interne alla produzione (mentre l'operaio di mestiere lavorava
dall'esterno nella sua critica, si limitava a sospendere il lavoro) era
sentito come un episodio, anche interessante, della produzione bellica;
si spiegavano questi nuovi comportamenti con il fatto che si erano
introdotti nel meccanismo produttivo soggetti tradizionalmente estranei
alla fabbrica - adolescenti, donne e contadini - e quindi con una tesi
sociologica e non economica. Era chiaro che, però, se l'immissione di
questo soggetto fosse diventata prioritaria, allora le tecniche di
diretta strutturazione delle gerarchia in fabbrica e di altrettanto
diretto intervento dello Stato nella produzione, nella contrattazione
aziendale e nella gestione del tempo libero sarebbe stato inevitabile.
Parve tutto, in Europa, prematuro. Questa valutazione comporterà
direttamente il fascismo e il nazismo nei paesi sconfitti e in quelli
che maggiormente patirono la mutilazione della vittoria nel
conflitto. I tempi nuovi erano già in atto e non alle porte: si rispose,
risvegliati dal sogno, con l'affanno, quindi.
La liquidazione dell'esperienza dei comitati ministeriali per la
produzione bellica ebbe questo senso: ritornare alla normalità
economica.
7.3.2. Il sessantotto della prima metà del
nostro secolo
La permanenza, però, di un alta e
tradizionale politicizzazione nello strato operaio professionalizzato,
messa accanto alla comparsa di un nuovo operaio disposto ad antagonismi
impliciti alla produzione non fu priva di conseguenze sociali e
politiche.
Il ciclo di lotte che segue la rivoluzione russa e la fine della guerra,
un ciclo databile al periodo 1918 - 1922, è leggibile in questa
permanenza e apparizione. In Germania, i centri di propulsione del
movimento sono duali: l'industria meccanica e chimica del centro sud,
dove gli operai senza qualifica sono centrali e protagonisti, i centri
siderurgici e l'industria pesante del settentrione. I due fronti si
unificano dando vita a un fronte di lotta unitario. Dal 1919 anche
l'Italia vive un crescendo di agitazioni che sfociano nell'occupazione
delle fabbriche e delle terre. Così pure negli Stati Uniti dove il peso
del nuovo soggetto operaio è maggiore e dove lo Stato conserva la sua
azione in campo sociale, dal 1919 al 1922 si verifica un crescendo di
lotte sempre più radicali e generalizzate.
In gran parte di queste lotte si mette in discussione il potere nella
fabbrica, si formano consigli operai che gestiscono direttamente
la produzione, e l'esperienza degli operai qualificati, che si sentono
in grado di gestire autonomamente la fabbrica, si coniuga con il
radicalismo degli operai comuni, che rifiutano spesso il lavoro di
fabbrica. Spesso, tanto in Germania, quanto in Italia e negli Stati
Uniti, le agitazioni assumono caratteri insurrezionali, gli stabilimenti
vengono occupati dalle maestranze armate (spesso con le armi ereditate
dalla grande guerra).
Certamente il dualismo tra qualificati non qualificati è presente. I
primi praticano e propugnano l'autogestione della produzione, mentre i
secondi richiedono la fine del sistema di lavoro di fabbrica.
In Germania e negli Stati Uniti, il conflitto armato accompagnò il ciclo
di queste lotte: ci furono sparatorie tra operai, milizie assoldate dai
padroni e polizie municipali. Le fabbriche occupate divenivano la base
di un contro - Stato che se non era direttamente sovietico, si ispirava
all'esperienza dei Soviet. Ovunque, le organizzazioni tradizionali del
proletariato, i partiti socialisti e i sindacati, o furono investiti ed
egemonizzati dall'ondata spontanea, o furono scavalcati da nuove
formazioni che si ispiravano spesso al partito comunista russo.
Qual'era l'elemento unificante di quest'onda di lotte? Quello di
interessare l'intero tessuto sociale. Rivendicazioni salariali cospicue
nelle fabbriche e richiesta di una severa limitazione delle gerarchie e
autorità di fabbrica, rivendicazioni sugli alloggi e gli affitti, con
occupazioni di case e appartamenti (USA e Germania), ma ancora,
soprattutto nelle campagne, contestazione all'organizzazione
gerontocratica, patriarcale e maschile dei braccianti, in Italia il
sistema del capoccia, che pretendeva di controllare e
direzionare le lotte contadine: l'adesione alla lotta comportava anche
l'eliminazione di vecchi codici di potere ereditati dal passato. Il '18
- '22 mondiale fu una sorta di sessantotto dell'operaio di mestiere e
dei contadini: non solo il mondo della produzione ma anche quello della
riproduzione del capitale veniva messo in discussione.
L'antagonismo, e non solo quello operaio ma anche quello contadino, si
proiettava sul terreno della riproduzione del capitale e del lavoro
salariato e gli obiettivi, anche quelli maggiormente legati alla
fabbrica e a un particolare strato operaio come quello, diffusissimo,
del job control, dell'autogestione del lavoro e degli
impianti, o quelli legati a una pre - capitalistica fame di terra
contadina, assumevano, rispettando il contesto lavorista dello skilled,
il senso e manifestavano il desiderio e la volontà di organizzare in
maniera diversa l'intera società e dal basso, partendo dalla fabbrica e
dai campi.
7.3.3. Il sessantotto di inizio secolo e il
capitalismo
Le lotte di quegli anni, sicuramente
catalizzate ed entusiasmate dall'esperienza russa, gettarono
un'autentica tempesta sui tentativi di ristrutturazione del capitale,
che si volgeva in principale modo verso l'operaio di mestiere e la sua
posizione nella produzione di fabbrica. La ristrutturazione non riuscì a
darsi una forma organica e una dimensione strategica, proprio per questa
resistenza che coinvolgeva soggetti operai vecchi e tradizionali e nuovi
ed emergenti. La ristrutturazione non riuscì a far emergere un nuovo
codice sul lavoro salariato e frantumò, limitandolo, il suo sforzo, che
si direzionò così in una lotta contro l'operaio di mestiere. Anche negli
Stati Uniti questo disorientamento si fece sentire.
Il capitalismo aveva, dentro sé, interessi molto diversificati per
riconoscersi in una strategia dello sviluppo che fosse veramente
collettiva, per comportarsi come una potenza astratta anche dal punto di
vista dell'economia politica.
L'operaio qualificato e i settori produttivi o i segmenti produttivi nei
quali era impiegato erano ancora centrali nell'economia europea e anche
se si constatava l'enorme contrattualità che questa figura aveva
assunto, dall'altra si vedeva chiaramente il rischio connesso alla nuova
composizione di classe, a quell'operaio comune che più che essere
contagiato aveva esso stesso contagiato l'operaio di mestiere.
L'operaio di mestiere si identificava nel lavoro e nei suoi risultati,
perché collaborava al processo produttivo in maniera decisiva, la
macchina automatizzata era usata dall'operaio e spesso personalizzata;
questo costituiva la sua forza nei confronti del padrone, ma anche la
sua debolezza: sul terreno del lavoro e dei suoi significati, il
capitalismo e l'operaio di mestiere potevano trovarsi concordi. I
terreni per una possibile mediazione tra capitale e questo soggetto
operaio erano ampi e la radicalizzazione dell'operaio professionale, pur
nascendo in fabbrica e dalle contraddizioni presenti nella fabbrica, non
si spendeva nella sua parte fondamentale dentro la produzione ma fuori
di quella, nella lotta salariale, nella lotta per gli incentivi o per il
controllo e organizzazione della produzione e si spendeva, soprattutto,
sul terreno ideologico, su un progetto di una nuova società, di un nuovo
potere al quale avrebbe corrisposto un autogoverno della fabbrica
capitalistica, ereditata dal capitalismo. Questo era il socialismo
dell'operaio di mestiere. Il nuovo soggetto, al contrario, non era
affascinato da questa eredità: non si trattava, per quello, del potere
sulla produzione o del suo controllo, ma del potere in fabbrica, del
fatto che gerarchie e comandi di fabbrica sarebbero dovuti scomparire.
Se la ristrutturazione verso modi di produzione a più alta
concentrazione di capitale e a forme di lavoro segmentato,
parcellizzato, ripetitivo e dequalificato era necessaria e se, quindi,
era necessario sostituire la figura dell'operaio professionale, non era
possibile, sia per il capitale europeo che per quello USA, farlo in una
situazione come quella del '18 - '22, dove l'operaio professionale
attaccato e delegittimato, perdendo il controllo del processo
produttivo, finiva per richiamare quello dequalificato in un fronte
comune e alla fine per fare sua radicalità di quello. Era necessario
rendere l'operaio professionale paradigmatico del lavoro in generale
senza che a questo paradigma corrispondesse più la realtà
produttiva: era necessario fare in modo che la rappresentanza
istituzionale della classe operaia facesse riferimento a questo
paradigma, che divenuto ideologia, egemonizzò la rappresentanza
sindacale.
Andava, però, introdotta una ristrutturazione ben più generale per la
quale l'ideologia doveva adeguarsi e rappresentare la realtà delle cose,
una rifondazione dei rapporti generali alla stessa maniera nella quale
quella nuova classe operaia, emergente e collaterale a quella
professionalizzata, esprimeva in forme generali i suoi bisogni. Una
frase di Gramsci, scritta in quegli anni, apparentemente banale,
descrive gli effetti delle nuove forme produttive e quella che
sarebbe diventata la produzione in linea, la catena di montaggio sulla
natura e la mentalità dell'operaio; Gramsci afferma che la
parcellizzazione del lavoro e il fatto che sempre minore è il
coinvolgimento professionale e intellettuale degli operai nella
produzione è un fatto, per i comunisti, positivo perché, secondo lui, in
quella maniera l'operaio ha la possibilità di ragionare mentre lavora,
quando prima era costretto a ragionare sul suo lavoro, a impegnarsi.
Gramsci, senza saperlo, scriveva dell'estraneità - e dell'intelligenza
che questa estraneità produce - del nuovo operaio rispetto al lavoro.
Il nuovo operaio svolge, quindi, una critica implicita, intrinseca e
interna all'organizzazione del lavoro, mette in discussione il lavoro di
fabbrica in quanto prodotto del capitalismo e non - come il soggetto
precedente - in quanto comandato dal capitalismo: per il nuovo operaio
il lavoro ha le forme del potere e non libero ma reso, poi, schiavo e
comandato. Per il capitalismo si tratta, allora, di elaborare una
ideologia generale che renda la gerarchia, il comando, la disciplina e
la tecnologia implicitamente umani, naturali, il risultato
dell'autentica natura umana. Mai più senza macchine e automazione,
insomma.
7.3.4. La controrivoluzione
Automazione e estraniazione del lavoro vivo
dal lavoro era il binario che il capitalismo si apprestava a compiere,
ma le vischiosità storiche, le tradizioni, la compresenza di due
soggetti operai, i difficili rapporti tra quelli e di quelli con il
comando di fabbrica fecero sì che le contraddizioni rimasero, al livello
del lavoro e degli stili di vita che orbitavano intorno a quello,
sospese tra un'eccezionale premonizione del futuro del capitalismo e
dell'umanità come morte dell'intervento professionale e individualizzato
nel lavoro di fabbrica e produttivo e la difesa conservatrice della
forma del lavoro tradizionale e soprattutto della sua ideologia. Anche
qui Gramsci seppe con lucidità chiamare con il suo nome il rischio
quando scriveva che il fascismo era, tra le altre cose, il prodotto di
una nuova epoca che non sa manifestarsi, di nuovi rapporti di produzione
e di potere che non hanno il coraggio di manifestarsi per quello che
sono.
Il fascismo sarà, nel 1922, la risposta italiana, della borghesia
italiana che aveva solidarizzato intorno a sé il ceto medio urbano e la
piccola e media proprietà agricola, a questo genere di problemi, il modo
di risolverli per nasconderli ideologizzandoli. Lo Stato del capitale,
che liquidava la produzione bellica e l'ideologia bellica intorno alla
produzione, cercava un nuovo collante, un surrogato al bellicismo e
militarismo, che, però, parlasse già dell'epoca nuova, anzi che si
presentasse come nuovo e moderno senza però affrontare fino in
fondo la nuova sfida del lavoro che fa ragionare e dove non serve
ragionare.
Lo Stato, in primo luogo, delega il militarismo a gruppi privati: negli
Stati uniti e in Germania, ad esempio, le polizie private degli
imprenditori, le guardie armate di fabbrica si affermano e moltiplicano.
In Italia è un partito, quindi una funzione pubblica, a farsi carico
della militarizzazione dello scontro e di avanguardia della
controrivoluzione, il partito fascista. Questa funzione pubblica, però,
si comporta come forza privata: è una forza privata che acquisisce un
ruolo pubblico.
Si trattò di uno sforzo soprattutto repressivo, dell'uso della forza e
delle armi, ma anche di una nuova ideologia.
Di fronte al crollo del controllo espresso attraverso l'ideologia del
lavoro, cerca di nascere un controllo dall'esterno del rapporto di
produzione, che faccia riferimento ai valori passati della produzione,
al lavoro umano, anche in forme mitologiche: in alcune aree furono
sindacati e organizzazioni storiche del proletariato a farsi carico di
questo controllo dall'esterno, in altri casi nuove forme politiche o si
affiancarono o si sostituirono ai sindacati, ma il processo fu univoco:
controllare il lavoro da di fuori.
Fascismo e nazismo si fecero carico di questa sostituzione, per quei
casi, però, la novità inespressa si tradusse in un vero problema di
forme costituzionali, di sostituzione della democrazia di massa appena
nata - il suffragio universale maschile appena ottenuto - con una nuova
forma dittatoriale, una dittatura di massa o meglio in forme che
richiamavano la democrazia di massa appena sotterrata. Fascismo e
nazismo cercarono di dare una risposta squisitamente ideologica al vuoto
ideologico che la nuova forma produttivo provocava.