Impressioni sullo stato assoluto (1986)


1. Preambolo

1.1. Lo stato assoluto

In Europa abbiamo conosciuto lo stato assoluto dell'aristocrazia come espressione del dominio collettivo di quella classe. L'aristocrazia, cioè, assunse un'intelligenza collettiva di classe e la realizzò, esprimendola nella forma statale che conosciamo sotto il nome didascalico di monarchia nazionale. Questa è l'interessante tesi dell'Anderson, che mi sento di condividere.
Ciò non avvenne, però, ovunque. In molte regioni europee, la formazione di un siffatto apparato statale si fermò a un preciso stadio, poiché richiedeva la compresenza e stabilizzazione di alcuni requisiti indispensabili, di alcuni e ben determinati rapporti di dominio sociale che non sempre, per cause diverse, tanto intrinseche quanto estrinseche, si riuscirono a verificare. In alcuni casi la formazione dello stato assoluto aristocratico fu interrotta dall'insorgere di una rivoluzione borghese, come nel caso inglese e olandese. Questo dipese da un profondo ritardo che l'istituzione monarchica aveva accumulato nei confronti delle trasformazioni sociali ed economiche, cosicché la ovvia reazione nobiliare alla tendenza centralizzatrice messa in opera dalla corona si coniugò  con una forte e potente energia mercantile e, fattasi potenza e realtà politica, ribaltò ogni disegno monarchico. L'aristocrazia inglese, aristocrazia di forti e antiche tradizioni autonomiste, era contrariata dalla tendenza centralizzatrice, tanto più che la costituzione di un apparato amministrativo e militare centrale non trovava giustificazione in Inghilterra e in Olanda nel rischio di un'aggressione esterna, anzi, nel caso olandese, era essa stessa l'obiettivo di un'occupazione straniera. La Francia portò a compimento (e fu forse l'unica)  la costruzione assolutistica, una volta superata la crisi del '600. di modo che il crollo della monarchia significò davvero anche il contemporaneo e coessenziale crollo dell'aristocrazia, al contrario di quanto era avvenuto in Inghilterra, e per l'affermazione del diritto di  proprietà borghese fu necessaria l'eliminazione politica, sociale e addirittura fisica e materiale della proprietà e dei proprietari feudali.
In effetti, in Inghilterra i rapporti di dominio feudale erano in crisi già nel corso del 1500 e la nobiltà si era appropriata rapidamente di una logica imprenditoriale o proto imprenditoriale che caratterizzò, in parte, la feudalità dell'Italia settentrionale e centrale in quello stesso secolo. Soprattutto attraverso la monetizzazione degli oneri e dei diritti feudali e la utilizzazione del debito in danaro sui contadini, si ribadiva in forme del tutto nuove il vecchio comando fondiario. Inevitabilmente, però, i poteri signorili cadevano parzialmente in disuso o venivano esercitati in sedi e lodi arbitrali neutri, esterni alla località.
In Francia, al contrario, i rapporti di dominio, dopo il XVI secolo, si rinsaldarono, i poteri signorili furono ereditati in quanto tali dal monarca nella figura dei suoi intendenti e dei parlamenti locali e tutte le clonazioni e filiazioni dei poteri feudali vennero sussunti e organizzati all'interno dello Stato, rispettandone il più possibile l'intima gerarchia e più spesso la caotica disposizione circoscrizionale. In Francia il crollo dell'aristocrazia fu provocato dalla stessa ipostatizzazione dei rapporti di dominio feudale che lo stato monarchico creava e riproduceva. L'enorme contrattualità che la nobiltà possedeva nella società civile, l'ingabbiamento e la subordinazione dell'iniziativa privata, mercantile e finanziaria alle esigenze della corona (pensiamo alla compravendita delle cariche, ai prestiti pubblici, agli appalti del fisco, al controllo monarchico sui commerci con l'estero cioè a quello che si può definire mercantilismo di stato) determinarono alla lunga una grande sicurezza politica nell'aristocrazia, che sconfinava nella tracotanza, vissuta all'ombra delle baionette reali. La società francese appariva immediatamente scissa: nobiltà, diritti feudali e alto clero da una parte, artigianato, contadini, salariati dall'altra. Una funzione di effimera mediazione la esercitavano i grandi finanzieri e il clero minuto, una mediazione che poteva essere credibile solo sotto il ricatto di un esercito sempre più avvezzo a intervenire nelle questioni interne.
Questa grande sicurezza di sé e della legittimità del proprio potere portarono l'aristocrazia a conquistarsi margini di manovra politica e istituzionale anche contro la corona, a proibire la compravendita delle cariche, a cacciare a pedate dall'amministrazione pubblica la nobiltà di toga, i parvenù di quell'ordine sociale e politico. Sappiamo che fu la rovina. L'aristocrazia in Francia aveva detto tutto quello che aveva da dire e non poteva che ritornare, come infatti fece, a immaginare uno Stato federalista, localista e autonomista, a rievocare il desiderio politico e sociale più profondamente connaturato alla sua genesi come classe, a gettare a mare l'esperienza del suo Stato collettivo, rinunciando alla collettività dei suoi interessi.
Il localismo, l'autonomismo e il federalismo aristocratici, ben descritti e incarnati da Montesquieu, avevano già buttato a mare e condannato al fallimento i conati assolutistici polacchi e lasciato la Polonia priva di un esercito stabile e di una conduzione strategica e politica uniforme e unitaria in pieno '500, nel pieno, cioè, dell'aggressività delle grandi dinastie europee. La Polonia fece la fine di un vaso di argilla tra vasi di ferro. In maniera diversa, poiché l'autonomismo italiano fu un fenomeno autonomista, un modo di manifestarsi dell'assolutismo in maniera regionalizzata, questo accadde nel '500 anche in Italia.
Scrivere, come fa l'Anderson, di stato assoluto come di stato collettivo dell'aristocrazia non è del tutto giusto anche se è estremamente indicativo di quale tipo di forze sociali stessero dietro alle monarchie dinastiche dal '300 in poi, poiché lo Stato politico, o meglio l'espressione istituzionale in forma chimicamente pura del dominio feudale e signorile, può essere solo e unicamente una monarchia di tipo alto medioevale. L'aristocrazia non aveva in sé, in quanto tale, tentazioni stataliste o centralizzatrici come al contrario le aveva la borghesia, tutt'altro. Il vero dominio aristocratico è l'esercizio di un potere signorile derivato da un'investitura e il potere economico allodiale ereditato. Tutto qui. È di per sé stesso, quello aristocratico, un dominio particolare e mal delimitato geograficamente. Ma è pure vero che il dominio feudale ha sempre presupposto un principio di sé medesimo, un'investitura e ha sempre ricercato nella figura del re una sua legittimazione un coordinamento nei confronti di altri domini limitrofi o subordinati, solo nel senso, però, di difendere il proprio dominio privato. Ci troviamo di fronte un dominio autonomistico e particolaristico che però ha bisogno di un estraneo da sé per trovare legittimazione e questo deriva, diritto diritto, dal diritto barbarico. La componente barbarica del diritto feudale presuppone il re, ma non presuppone e richiede un potere monarchico. Non a caso le corone dell'altomedioevo potevano contare, in favore della loro contrattualità, solo delle terre che, feudalmente, controllavano direttamente. Il caso dei re di Francia, che per estendere la loro influenza fecero salti mortali per ingigantire i loro feudi fino a farli confondere con i domini reali (cioè le terre del demanio pubblico) è esemplare, così come lo è il caso di quei monarchi che si conquistarono contrattualità nei confronti dell'aristocrazia, presentandosi come indispensabili garanti della proprietà feudale di ogni nobile, preso nella sua singolarità, e trasposero questa loro indispensabilità sul piano politico introducendo un diritto di coordinamento tra i domini feudali che spettava al re.
Questo diritto di coordinazione e gerarchizzazione reale è la componente romana del diritto pubblico feudale; la volontà di costruire, rispettando i terreni di intervento feudale e autonomistici ed anzi sopra tali diritti, a partire da essi, una zona amministrativa sottratta alle singole esigenze feudali, quindi neutra, quindi pubblica. Il grande re feudale dell'altomedioevo si trasforma, va oltre la propria classe, ne interpreta le esigenze in una prospettiva generale e, naturalmente, rafforza l'autorità del suo casato (la feudalità reale è sempre tale e la lotta tra re e feudalità può essere letta anche, forse in maniera riduttiva ma efficace, come la lotta tra fazioni feudali, ognuna rivendicante un'egemonia - autonomia dall'altra).  
Un'amministrazione pubblica dunque è il cavallo di battaglia della corona, un esercito stabile, una regolamentazione dei rapporti feudali. L'amministrazione pubblica è la bestia nera della feudalità, non fa parte, infatti, delle prerogative che essa aveva immaginato per il re e in buona parte l'aristocrazia si ribella in più tempi e in più punti politici (dal XIII al XVII secolo).
Lo Stato collettivo aristocratico in realtà nasce da un compromesso, che non è quello visto da Marx tra corona e borghesia mercantile, ma tra monarchia e aristocrazia con l'utilizzo intermediario del ceto finanziario e mercantile. La corona fece capire alla nobiltà (non senza resistenze) che la formazione di grandi entità dinastiche era un dato di fatto, che era necessario un coordinamento amministrativo sotto una determinata casata feudale, che era necessario un esercito e che era anche necessaria una difesa del crescente patrimonio mercantile nazionale, cioè si richiamava all'intelligenza di classe dell'aristocrazia. Concedeva, come contropartita, un esercito stabile in grado di difendere i rapporti di dominio feudale da ogni contestazione sociale, la repressione di situazioni autonomistiche (comuni urbani e tessuti comunali di campagna) profondamente antifeudali e l'inserimento a pieno titolo nell'amministrazione pubblica della nobiltà. Non tutta la feudalità si offrì di collaborare, tanto che, spesso, la corona fu costretta ad utilizzare borghigiani e finanzieri nelle amministrazioni; ma è un dato di fatto che fece questo mentre li subordinava ferreamente a un sistema di potere feudale. L'intelaiatura di controllo assolutista compresse lo sviluppo economico delle città anziché incentivarlo. La borghesia si subordinò, per la sua vocazione ad avere uno stato unitario, protettore del mercato nazionale, ma soprattutto perché non intravedeva nessun valore politico generale che fosse esterno allo stato dinastico.
Quando si parla di crescente autonomia della borghesia in materia economica e politica all'interno dello stato assoluto, bisogna tenere conto del fatto che la acquisì proprio là dove lo stato assoluto non si sviluppò compiutamente come in Inghilterra e Olanda, ma nella monarchia francese, dove la borghesia fu oggetto di una feudalizzazione volontaria e di una sudditanza ideologica e sociale al potere nobiliare, non si sviluppò alcuna autonomia. Ancora più dura la politica dei reali di Spagna, con la distruzione manu militari di ogni velleità autonomistica urbana, che piegò gli interessi emergenti del ceto mercantile. In Francia e in Spagna, ad esempio, il commercio marittimo si svolse sotto l'egida di Compagnie Reali e dunque la borghesia mercantile si fece sfuggire un'immensa quota di ricchezza finanziaria a vantaggio della corona e dei suoi satelliti sociali.
In Italia la situazione è più intricata. Gli stati regionali 400eschi del nord e del centro sorgono direttamente dai Comuni mercantili e si manifestano come volontà da parte di quelli di esprimere un controllo allargato sul contado circostante. È il ceto mercantile il motore primo di questo processo di statalizzazione ma questo prende forma solo (è da notare questo) con l'emergere di una casata investita di poteri politici trasmissibili ereditariamente. È  probabile che questi gruppi di borghesia embrionale (banchieri, finanzieri e mercanti), realizzando nella società civile una stratificazione di casta neo - feudale al vertice della quale si trovavano loro, fossero rapidamente entrati in una logica dinastica e feudale.
Cercando di cristallizzare i rapporti sociali, questa casta borghese non trovava di meglio che nobilitare sé stessa, cioè fare ricorso a strumenti tipicamente feudali: il danaro si feudalizzava. Non solo dunque si cercava (con successo) di eliminare sul nascere ogni fenomeno di lotta di classe, ma si tendeva a ingabbiare lo sviluppo delle forze produttive, l'emergere di nuovi soggetti dominanti, cristallizzando un ceto politico ed economico e affidando a quello l'amministrazione del potere. La grande borghesia si voltava indietro, feudalizzava sè stessa e, incapace di esprimere un suo potere, era costretta a ricorrere a una dinastia regnante con tanto di investitura dell'imperatore. Questo vale soprattutto per Milano e Firenze, due città dove la concentrazione di ricchezza si era data in maniera eclatante, dove si erano sviluppate potentissime consorterie mercantili sul modello delle consorterie di lignaggio feudali e dove questo processo di accumulazione di reddito e di potere economico aveva incontrato una resistenza popolare fortissima e avviato processi di lotta di classe inediti per l'immaginario dell'epoca. Non è un caso che in entrambe le città la borghesia intimorita trovi nella soluzione di casta e nel potere militare di un principe la risposta adeguata alle nuove classi popolari e ritrovi un'identità di classe nella feudalizzazione, cioé nella negazione della sua genesi, della sua genuina identità. Questo processo poteva solo avvenire sotto le ali dello stato assoluto monarchico.

1.2. Tra aristocrazia e borghesia

E a questo punto si può aprire una seconda riflessione sulle ultime cose scritte. Lo stato assoluto aristocratico, come forma di dominio politico, si afferma in Milano e Firenze in quanto strumento di potere di una classe non feudale ma rifeudalizzata.
Al di la del fatto che va tenuto in massimo conto che questa borghesia nobilitata ha sviluppato un rapporto di collaborazione con la feudalità di campagna e ha rispettato alcune delle sue prerogative signorili, ponendosi in una sostanziale identità di interessi con quella, possiamo vedere nello stato assoluto una forma di dominio emergente in quanto tale, in quanto slegata da specifici interessi egemonici di classe. È chiaro che la borghesia mercantile lombarda e fiorentina non può essere paragonata, ma neanche avvicinata, alla contemporanea aristocrazia sabauda e piemontese che, però, stava anch'essa costituendo una forma stato analoga. Le costruzioni statali convergono, infatti, verso lo stesso obiettivo: uno stato accentrato e organizzato omogeneamente. Tutto questo può essere spiegato in questi termini: lo stato assoluto aristocratico è una forma di dominio che risponde ai bisogni emergenti nelle classi egemoni dell'epoca, all'esigenza di una rapida frustrazione delle aspirazioni delle classi subordinate (sempre più estese e sempre più allargabili su una dimensione nazionale) e soprattutto, in questo caso, al desiderio da parte degli stati di giungere a recintare l'identità nazionale e linguistica, anche attraverso il potere dinastico e le relative guerre (strumenti apparentemente vecchi e inadeguati rispetto all'obiettivo); risponde, quindi, anche al bisogno di creare una potenza militare ragguardevole e infine all'esigenza di preservare alcuni settori commerciali che per loro logica intrinseca si esprimevano nazionalmente, in termini di unità linguistica.
Lo stato assoluto aristocratico fu naturalmente adeguato alle esigenze dell'aristocrazia più progressiva e della borghesia più regressiva, quella parte del mondo mercantile che si feudalizzava, rinunciando alle sue caratteristiche di classe.
Lo stato assoluto era uno strumento inadeguato a gran parte degli scopi che si proponeva e sui quali si costituiva: soprattutto inadeguato sul terreno tipico e privilegiato dalla borghesia settecentesca, quello della coesione e unità linguistica e culturale. Sussunto, come altre istituzioni aristocratiche, alla logica dinastica, alle divisioni di lignaggio e alle terre feudali, in Italia non fu in grado di sviluppare unità politica, mentre in Francia non realizzò unità linguistica.
Nonostante questi limiti storici, lo stato assoluto aristocratico ha avuto un valore generale, posto al di sopra di mercanti e feudali e di ogni loro contingente incrocio di interessi.
Secondo forme di analisi sociologica, alla costituzione dello stato assoluto aristocratico corrispondeva il bisogno astratto e necessario delle classi dominanti e che si riconoscevano reciprocamente dominanti (aristocrazia e borghesia mercantile e artigianale) di comandare ogni parte, settore della società, con fluidità e uniformità e secondo un'ideologia unitaria, quella della nazione. Secondo forme di analisi storica, lo stato assoluto va interpretato come un'ipostatizzazione del dominio feudale tradizionale posto di fronte alle nuove problematiche sociali ed economiche emerse a partire dal '200. Queste nuove problematiche originavano soprattutto dall'estendersi sempre più ampio del potere del danaro, che si dava come un libero flusso di energia sociale ed economica che saltava ogni argine geografico e distrettuale feudale. Questo flusso, questa corrente, si articolava e scorreva usando gli strumenti di comunicazione delle classi subalterne, le lingue volgari, le parlate non burocratiche e amministrative; la lingua popolare era quasi il letto di questo fiume.
Questo è un primo fondamentale punto: lo stato assoluto tra XIV e XVI secolo cerca di riproporre l'ordine feudale e il suo diritto sul terreno nuovo della comunicazione linguistica innervata dal danaro.
In Italia più che in altre regioni europee, l'aristocrazia, soprattutto quella minuta, già nei secoli XII e XIII era stata sconfitta dall'emergere di nuove forze sociali; non esisteva, inoltre, la base materiale, almeno omogeneamente distribuita sul futuro territorio nazionale, per l'operazione di potere costitutiva dello stato assoluto. Per questi due motivi, lo stato assoluto italiano si fraziona regionalmente, fornendo espressione politica e istituzionale alla borghesia mercantile e finanziaria e alla parte più affermata dell'aristocrazia. Questo dimostra che, nonostante l'innegabile sviluppo delle forze sociali ed economiche italiane, senza pari in Europa, lo stato assoluto era un'esigenza imprescindibile, una necessità storica per quella fase, e una forma di dominio naturale. Era tanto forte, naturale e necessaria questa tendenza, che lo stato assoluto, in Italia, fece a meno di uno dei suoi caratteri, il carattere nazionale, sacrificandolo alla necessità del processo.
Anche nei tradizionali comuni e poi repubbliche mercantili, Genova e Venezia, si istituzionalizzano gruppi di famiglie (consorterie e alberghi) che acquisiscono l'esclusività dell'esercizio del dominio politico e del controllo dello stato.
Lo stato assoluto, inteso come forma di dominio, ha bisogno di una classe cristalizzata e al tempo stesso la richiede. Questa classe cristallizzata, inamovibile, riassunta più che rappresentata da alcune casate ancora più elette e scelte, ha avuto nell'aristocrazia e nei suoi diritti signorili un riferimento coerente e cosciente e poco più tardi ha esteso questo riferimento alla borghesia mercantile e finanziaria rifeudalizzata. Questa super classe cristallizzata è un involucro di lignaggi, dinastie, legami e cultura, che oltrepassa gli interessi immediati dei suoi diversi componenti.
La tendenza necessaria alla formazione dello stato assoluto è dimostrata anche dagli avvenimenti dell'Europa orientale, dove la grande proprietà allodiale fu investita dal monarca di poteri signorili, trasformandone la natura di classe, proprio in funzione della creazione dello stato monarchico. In Prussia, per esempio, la nobiltà tenutaria, la futura classe politico - sociale degli Junker, si legò, proprio per questa donazione e dotazione di poteri locali, indissolubilmente al potere monarchico, come, seppur secondo gradienze diverse, in Austria e Russia. Le strutture di potere orientali, pur fondandosi su una feudalità inventata dalla corona e quindi molto diversa dall'aristocrazia dell'occidente europeo, sono analoghe e isomorfe a quelle francesi.
Ovunque è il consiglio di guerra a funzionare come prima struttura, come cavallo di Troia, di questo stato, come embrione dello stato assoluto. Lo stato assoluto monarchico nasce come consiglio collettivo dei pari del regno in vista di operazioni belliche. Lo stato assoluto manterrà
questa natura militarista per tutta la sua storia; dopo una lunghissima epoca di universalismo medioevale e antico, nacque la politica estera come noi oggi la conosciamo. Un esercito regio, una guardia reale e una struttura militare stabile saranno tendenze che, espresse fin dal '200, giungeranno a maturazione nel XV secolo e troveranno nei grandi conflitti dinastici il loro emblema storiografico.
In secondo luogo, ma non subordinatamente alle esigenze del consiglio di guerra, si organizzò un struttura finanziaria, un'amministrazione delle spese militari che di per sé stessa presupponeva una pressione fiscale organizzata da parte della corona e quindi un'autonomia istituzionale della monarchia. Di qui, le esigenze di coordinare e sussumere il sistema esattivo signorile, locale e regionale a un disegno più ampio e nazionale. Proseguendo sorge molto presto la necessità da parte dello stato di creare un corpo di funzionari adibiti al controllo di questa macchina amministrativa e alla comprensione della sua complessità politica.
I funzionari non possono più identificarsi, come in epoca carolingia e fino al XII secolo, nei signori comitali, nei comites del monarca, che erano investiti da quello, dalle autonomie comunali o dalle repubbliche municipali, di una signoria su una determinata regione, di carattere ereditario e feudale; i nuovi funzionari o ministeri pubblici del XIII secolo intendono essere veri supervisori, arbitri, dell'attività fiscale signorile e della proprietà feudale, in ragione delle necessità e degli interessi autonomi della nuova forma di stato. La monarchia si propone come elemento di controllo superiore della macchina militare, fiscale e giuridica della feudalità. La giustizia reale avoca a sé i casi più importanti, esegue il diritto di appello, come si occupa dei problemi militari principali e non circoscritti a una particolare regione e tradizione conflittuale.
Questa grande macchina di controllo superiore, che nulla muta nei rapporti sociali e che sembra quasi lievitare da essi pur tra grandi convulsioni e contraddizioni, è una forma di stato nuova, aristocratica e paradossalmente antagonista alle esigenze politiche più genuine dell'aristocrazia. È una forma stato che percorre un'epoca con la capacità di prefigurarne un'altra, di prepararsi a un'epoca futura. Non è quindi un caso che a molti storici, Marx storico tra quelli, lo stato assoluto monarchico sia parso il frutto di un compromesso tra ceto mercantile e finanziario e corona, in funzione apertamente anti - aristocratica. In effetti, lo stato monarchico tardo medioevale e moderno si adatta meglio, con le sue caratteristiche di centralizzazione, stabilità istituzionale e il suo modo di essere pubblico, al concetto di potere connaturato con la borghesia che non all'idea di governo adeguata all'aristocrazia e al suo modo di essere privato. In parte è vero: dall'aristocrazia e dalle sue istituzioni storiche, la borghesia eredita solo la grande costruzione statale, tutto il resto verrà distrutto.
L'opzione borghese, pienamente espressa dopo il XVI secolo, a favore di uno stato accentrato e centralizzato ci dice moltissimo sugli istinti politici fondamentali della borghesia.

2. Le grandi rivoluzioni in Inghilterra e Francia

2.1. Difficoltà e arretratezza

2.1.1. La fase rivoluzionaria

Lo Stato accentrato, burocratico, costituito sul diritto pubblico è ereditato dalla borghesia, poiché risultava naturalmente funzionale ai suoi interessi, quasi connaturato con quella. Potrebbe sembrare una contraddizione ed è una grande contraddizione storica il fatto che fu la forma rivoluzionaria a farsi strumento di distruzione del potere aristocratico e feudale; sappiamo, però, che le rivoluzioni borghesi avevano due caratteri nuovi: furono rivoluzioni di massa e sociali, oltre che politiche.
In realtà lo stato assoluto era uno strumento interessante e affascinante per la borghesia, la borghesia non  sognava di abbatterlo perché non avrebbe saputo costa istituire al suo posto. La borghesia del XVII e XVIII secolo scelse la strada rivoluzionaria, o meglio inventò la rivoluzione e la politica rivoluzionaria, non per distruggere e disarticolare la forma stato assolutista ma, anzi, per portare a termine il processo di centralizzazione e razionalizzazione dei poteri che all'aristocrazia e alla monarchia non riusciva di completare. Interessante è il caso della rivoluzione francese che comportò una precisa divisione dipartimentale, distrettuale, amministrativa e giudiziaria insieme con la concentrazione, pienamente maturata in epoca giacobina, termidoriana e consolare, del potere politico, legislativo, esecutivo e militare sul governo centrale e sulla capitale della nazione francese. La società, almeno nella rappresentazione politica e ideologica, si concentra e centralizza sulla capitale dello stato e sul governo che in quella risiede.
Le tendenze localistiche, che ancora oggi si mantengono (sia pure a livello formale e quasi folclorico) in Inghilterra, sono, invece, un retaggio della cultura politica feudale. L'Inghilterra uccise lo sviluppo dello Stato assoluto feudale durante una fase intermedia del suo cammino, quando le tendenze particolaristiche e i localismi della nobiltà non erano ancora stati sconfitti dalla Corona. La nascente borghesia inglese, così, si trovò davanti un nemico ancora radicato, istituzionalmente rappresentato e motivato ideologicamente e quindi dovette affrontare un lungo patteggiamento e fare quello che il re non aveva ancora iniziato a fare. La potenza economica e politica della nobiltà, che aveva anche saputo riformarsi avvicinandosi all'economia di mercato e intervenendo in essa, produsse numerosi relitti istituzionali che sono eloquentissimi del confronto e della trattativa: primo fra tutti il mantenimento del bicameralismo. La tendenza di fondo del seicento inglese, però, è la medesima del settecento francese: la costruzione di uno Stato accentrato, burocratico e militarista, ben rappresentata dalla dittatura di Cromwell. Anche in Inghilterra, lo Stato assoluto degli Stuart, ancora acerbo, andava ampliato, articolato e rafforzato, senza gli Stuart.
Lo Stato assoluto aristocratico esprimeva, agli occhi della borghesia, delle qualità e delle potenzialità che andavano sviluppate e portate a definitiva maturazione storica. Le rivoluzioni borghesi, come al contrario ci si sarebbe potuto attendere dai loro esordi, tanto in Inghilterra quanto in Francia, non misero in discussione la necessità di una organizzazione statale centralizzata, gerarchica e burocratizzata, che era un obiettivo preciso delle monarchie e di gran parte dell'aristocrazia, ma anzi richiedevano una versione arricchita, potenziata, rafforzata e perfezionata dello Stato monarchico della prima modernità europea. Il perfezionamento passava per l'idea nazionale, l'idea di nazione che, al contrario, non faceva parte delle energie costituenti dello Stato monarchico moderno, ma era solo un elemento secondario e collaterale in quello. Tanto in Inghilterra quanto in Francia, nella fase critica del processo rivoluzionario, quando lo scontro tra borghesia e aristocrazia si fa acuto, il nuovo stato assoluto e centralizzato, lo stato rivoluzionario, trovò istanze e alleati alla sua stabilizzazione e strutturazione nelle richieste e nelle esigenze delle classi popolari, nei sanculotti e nei levellers e da esse trasse linfa vitale per la sua riproduzione, conservazione e soprattutto per l'accrescimento delle sue competenze sociali ed economiche.
La campagna di liberazione dai servaggi e dalle servitù feudali e signorili non fu solo un portato dei nuovi rapporti di produzione borghesi , ma anche il risultato di un'operazione di ingegneria sociale e politica: non potevano più esistere steccati, divisioni e separazioni in seno alla società che avessero natura ed origini extraeconomiche. Nella società le divisioni dovevano passare attraverso l'economia, la vita economica degli individui, ed essere, quindi, considerate e sentite come naturali e la comunanza che si elevava sopra queste divisioni naturali e spontanee, non coartate, era altrettanto naturale e spontanea, la comunanza di lingua e cultura. Questa nuova comunità si elevava al di sopra di ogni divisione e separazione e le negava attraverso la sacralità di lingua e cultura comuni, il mistero comune. Lo stato assoluto nella versione borghese diveniva, quindi, uno stato nazionale e l'ente preposto non solo, come lo stato assoluto monarchico, a difendere e ottenere i confini nazionali e naturali ma anche a preservare la nazionalità, vale a dire la naturalità e spontaneità dello Stato borghese.
Questa naturalità e spontaneità ha l'aspetto dell'indifferenziato economico e nelle relazioni sociali. Tutte le figure tipicamente feudali, vissute come ibride ed ambigue, il fittavolo, il rentier, il mezzadro, il compartecipante, il proprietario dei mezzi di produzioni sottoposto a condizioni particolari, le corvees sui proprietari, il commerciante - commissionante lavoro artigiano, l'artigiano produttore domestico erano in stridente contrasto con questa natura spontanea che richiedeva, invece, figure sociali semplici, astratte e assolute da ogni relazione personale con il potere produttivo. Le frazioni innumerevoli di società, le centinaia di sottosocietà e sottosocialità, che contraddistinguevano il mondo e l'economia feudali dovevano precipitare, almeno tendenzialmente, verso un rapporto generale e semplificato e verso i due poli opposti generati dal rapporto di lavoro salariato. Le società feudali, ma insieme con quelle anche le società classiche, erano strutturate da relazioni di subordinazione che si intrecciavano con rapporti di coordinazione, le asimmetrie si coniugavano con simmetrie e affinità, diritti consuetudinari con diritti di fatto, la nuova società riconosceva un solo o quantomeno principale e generalizzato rapporto di subordinazione, che prevedeva una simmetria e affinità altrettanto generalizzate, la nazionalità.
Non fu, comunque, né rapido né facile, poiché non era, comunque, né spontaneo né naturale.
Per constatare l'assenza di spontaneità e naturalità in questo processo storico basta guardare la dittatura bonapartista, la progressiva e artificiosa concentrazione degli stati regionali in Italia, la Prussia nella Confederazione tedesca. Immediato, però, è stato il venire fuori della relazione diretta tra Stato e idea nazionale, che pretendeva di istituire una altrettanto diretta relazione tra Stato e territorio, una relazione ideologica: l'esistenza della nazione giustificava ed era causa dell'esistenza dello Stato. Si oltrepassava l'uniformità delle autonomie e la loro iscrizione in un tessuto comune che era stata realizzata dalla Stato assoluto aristocratico; lo Stato assoluto aristocratico aveva realizzato una catalogazione politica delle realtà e istituzioni locali. Il referente del nascente Stato rivoluzionario, la base materiale per la sua realizzazione non era l'aristocrazia, classe relativamente eterogenea per diritti, esigenze, leggi di casato e usi familiari,  e in parte ancora per lingua e tradizioni culturali, ma una classe che era omogenea per interessi, valori, lingua, istinti sociali, usi familiari e tradizioni culturali o che, quantomeno, sentiva necessaria e inevitabile per sé l'acquisizione di questa omogeneità. Di qui la creazione di un diritto pubblico ispirato dai valori dell'unitarietà, che fosse applicabile usando lo stesso metro ad ogni cittadino. Lo stesso metro giuridico, l'omogeneità giuridica, fa sorgere il concetto stesso di cittadino.
Il diritto pubblico trionfa nella nuova forma stato della borghesia e ne diviene la forza costituente, mentre nello Stato assoluto aristocratico era un elemento tecnico e puramente politico, una sovradeterminazione intentata da un ente centrale contro svariati enti locali, senza che però gli enti trovassero una misura comune, un'essenza comune, e riuscissero a operare con un mezzo che fosse organico per tutte le parti, per lo Stato centrale e le istituzioni locali, e cioè una legislazione unitaria.
Lo Stato bonapartista, superando definitivamente l'ancient regime, portò a completo sviluppo lo Stato assoluto aristocratico superandone la disorganicità e risolvendo le contraddizioni che lo percorrevano e che non era in grado di superare, proprio perché erano parte della sua forza costituente, vecchia di cinque secoli. Non è un caso che la riduzione del territorio a spazio rigorosamente geografico, da inquadrare con visione zenitale, da dividere geometricamente o secondo linee geometriche, ne faceva un'entità razionalmente definibile e definita, uno spazio oggettivo divisibile amministrativamente secondo esigenze di ordine politico ed economico (dipartimenti, regioni). Questa riduzione del territorio a spazio razionale e geometrico eliminava le vecchie associazioni comitali, i distretti feudali e una visione del territorio non come spazio geometrico ma come estensione politica, soggettiva, come spazio soggettivo e faceva sorgere una nuova disciplina, la geografia moderna, fondata sulla rappresentazione zenitale del territorio, sulla descrizione delle linee di comunicazione commerciale e di regioni omogenee per vocazione produttiva.
Analogamente l'estensione dei diritti civili, fu, in verità, una omologazione di quelli su una dimensione omogenea, e i diritti politici non furono, in verità, estesi (in Francia, nell' ancient regime il diritto di rappresentanza era molto più esteso che non nella prima parte dell'ottocento, tolto il biennio giacobino) ma solo uniformati. L'uniformità dei diritti civili e politici si modellava su un concetto geografico, quello di nazione, e qualificava il popolo, come fatto nazionale, o meglio borghese e nazionale.
Le classi subalterne nell'ancient regime avevano condiviso una posizione giuridica di soggezione e discriminazione, che non passava attraverso il discrimine della ricchezza e del possesso ma, come è noto, della nascita e del rango; questo determinò il fatto che soggetti sociali diversissimi tra loro si trovassero accomunati nella soggezione e subalternità giuridica, anche i ceti che economicamente e socialmente erano divenuti emergenti e dominanti partecipavano con i ceti minori e svantaggiati a questa discriminazione, non fondata sul possesso e il danaro. Quando i nuovi ceto forti e dominanti, la nuova aristocrazia del marco, come la diceva Babeuf, fece la sua rivoluzione trovò in quasi tutti gli altri ceti non giuridicamente privilegiati, in molte  altre sottosocietà giuridiche, formidabili alleati. Lo Stato assoluto dell'aristocrazia aveva, tra XVI e XVIII secolo, causato il sedimento di una micidiale alleanza contro di sé.
Non si trattò di un'alleanza tattica, come moltissimi analisti ritengono, ma strategica: la borghesia era una classe decisamente diversa dalla nobiltà e sbagliava Babeuf nel considerarla una nuova aristocrazia. Lo Stato rivoluzionario della borghesia, ovvero il completamento e perfezionamento dello Stato assoluto aristocratico, non ignora affatto, nel suo costituirsi, le classe subalterne dell'ancient regime, nonostante l'oggettiva restrizione dei diritti politici della prima metà dell'ottocento europeo.
I diritti civili devono essere comuni, uniformi e i medesimi per tutti, deve nascere una nuova forma di cittadinanza, estesa a tutti. Lo Stato aristocratico fondava il suo potere  sul terreno del controllo, stratificazione e parcellizzazione del diritto cioè sulla coercizione extraeconomica, lo Stato rivoluzionario della borghesia fonda il suo potere su realtà di fatto, su divisioni effettive, sulla crudezza dei fatti che le leggi non regolano, sulla crudezza, naturalità e spontaneità selvaggia dell'economia. I diritti civili sono uniformati e nella percezione storica estesi perché è su questo terreno, sul terreno del diritto, che la borghesia poteva scardinare il sistema economico e di potere feudale.
Ancora, però, di più. I diritti civili sono estesi perché la borghesia ha bisogno delle classi subalterne, che via via si trasformano in una nuova classe subalterna, il proletariato, per costruire il potere territoriale del suo stato, la nazionalità. Come lo Stato assoluto aristocratico aveva avuto bisogno dell'emergente borghesia, facendola lavorare come forza di mediazione sociale e politica per la sua costruzione, così lo Stato rivoluzionario della borghesia ha bisogno del proletariato, che, in questo caso, si limita, nella sua costituzione, alla dimensione nazionale. Lo Stato borghese è immediatamente, spontaneamente e naturalmente nazionalista; usa la lingua filtrata, che viene trasformata in lingua nazionale, per affermare l'unità delle forze sociali intorno di sé. L'unità, anzi, è sinonimo di nazione e non casualmente tutte le carte costituenti dedicano un loro articolo all'unità e indivisibilità della nazione.
La comunità linguistica e la comunità giuridica, distesa su tutte le classe e i soggetti sociali, garantita dalla legislazione pubblica e dall'esercito nazionale rappresenta una comunità di interessi, un interesse comune e generale. Questa comunità, in realtà, non esiste ed è solo una rappresentazione ideologica, un'ideologia, ma è un'ideologia rivoluzionaria che contraddistingue lo stadio rivoluzionario dello Stato borghese di fine settecento e prima metà dell'ottocento.

2.1.2. La fase restauratrice

Abbandonati i sistemi di controllo e coercizione feudale, lo Stato borghese nazionale e rivoluzionario si trova in grossa difficoltà a trovarne altri, che non siano ideologia, cultura e lingua. In una brevissima fase, le esigenze rivoluzionarie in Francia comportarono, in epoca giacobina, l'estensione dei diritti politici, il suffragio universale e addirittura l'assemblearismo di base. Questa via, però, fu prestissimo abbandonata: il giacobinismo dimostrò tutti i suoi rischi sociali e lo stato borghese si ritrasse, proprio come in Inghilterra un secolo prima, su sé stesso, restringendo la fruizione dei diritti politici a una base della popolazione addirittura meno ampia di quella che ne fruiva durante l'ancient regime. L'esercizio dell'autorità politica venne, inoltre, ristretto ai cittadini che potevano vantare un censo apprezzabile, e si riaprivano le porte che regolavano l'esercizio del potere, addirittura, all'aristocrazia, a quella frazione dell'aristocrazia che aveva imparato ad affermarsi e convivere con l'economia di mercato. Si formò ovunque una amalgama, un ceto formato da diverse frazioni di classe, dove grandi banchieri, appaltatori e finanzieri sedevano a fianco dei redditieri agricoli. A suggellare questo restringimento e rivisitazione del passato moderno dell'istituzione statuale (il XVI e XVII secolo), si riaffidò una parte della gestione del potere esecutivo, e della rappresentanza dell'autorità politica, al re e alla corona.
Fu un compromesso storico tra due strutture di potere oltre che tra parti significative di due classi sociali dominanti: tra Stato assolutista aristocratico e Stato rivoluzionario borghese, tra borghesia finanziaria e aristocrazia redditiera. Questo comportò la costituzione di una forma stato epocale (valida e influente per quasi tutta la prima parte del XIX secolo) nella quale, come nello Stato assoluto aristocratico, si cristallizzava un ceto politico per via di cooptazione di alcuni scelti ceti economici e, come nello Stato rivoluzionario delle borghesia, si codificava un diritto pubblico esteso e uniforme.
Fu, ci si permetta il chiasmo, uno stato borghese  feudale e uno stato aristocratico  borghese al pari tempo.
Questa forma stato ha predominato in Inghilterra per il XVIII secolo e in Francia nella prima metà del secolo seguente; in generale tutta l'Europa fu influenzata da questa forma statuale. Eccezion fatta per gli Stati Uniti d'America e forse l'Olanda, questa forma divenne normale per tutta la prima metà del XIX secolo.
Vedendo la cosa sotto un altro aspetto, in Europa lo Stato borghese nazionale è stato il prodotto di un altro compromesso, un compromesso giuridico e istituzionale, stipulato tra vecchio Stato assoluto aristocratico e Stato borghese rivoluzionario e questo ha fatto il ritardo europeo e l'immenso vantaggio americano sul terreno istituzionale: negli Stati Uniti, infatti, non era necessaria nessuna logica compromissoria, sia perché la rivoluzione si era svolta contro uno Stato borghese nazionale, sia perché i rapporti di produzione feudali non si erano sviluppati nelle colonie americane.
Non si trattò, però, di provincialismo europeo; le origini del ritardo non vanno cercate esclusivamente nella resistenza e residualità di corona e aristocrazia sul vecchio continente. Esiste una motivazione più generale, che entra a far parte della stessa genetica della nuova protagonista del potere; la nuova classe dominante, la borghesia, temeva di non essere capace ed era stata effettivamente incapace (l'esperienza giacobina o quella dei leveller furono emblematiche in tal senso) di controllare politicamente le contraddizioni sociali che il suo stesso sviluppo come classe generava, temeva di non riuscire a dominare da sola, come nuova protagonista della scena politica, sociale ed economica, la società. La borghesia amava la novità, nella stessa misura in cui la temeva. Il dominio politico borghese, il dominio del capitale, si può realizzare, in forma pura e quindi matura, con strumenti politici, solo con il coinvolgimento delle classi subalterne o intermedie in esso, solo attraverso la propaganda ideologica e la rappresentazione incessante della società davanti a sé stessa, solo attraverso una incessante propaganda che, però, differenziandosi da quella che ha caratterizzato le epoche precedente, non deve apparire come tale, ma come buonsenso, normalità, norma universale e moralità assoluta.
Questo disegno puro non poté trovare attuazione proprio per l'arretratezza strutturale della società europea rispetto a quella americana, per la continua presenza di coercizioni extraeconomiche nelle campagne e nella manifattura e per le difficoltà che incontrava la piccola proprietà agraria nel realizzarsi, ma non poté realizzarsi anche perché lo sviluppo stesso della borghesia rendeva utili al suo sviluppo la conservazione di alcuni istituti precedenti, come forma per evitare che lo sviluppo delle forze produttiva potesse trasformarsi in crisi economica e politica, in anarchia, parola pronunciata, non casualmente, come sintesi di ogni timore politico nel primo ottocento europeo.
L'arretratezza dello Stato borghese nazionale in Europa ha, dunque, molte facce e numerose ambivalenze; ebbe, sostanzialmente, anche dal punto di vista della nuova classe dominante, ragione di esistere proprio per una residua utilità dei rapporti di produzione feudali e della mentalità signorile nelle campagne europee e anche perché il superamento di quelle forme avrebbe potuto provocare la crisi stessa della borghesia e del suo nuovo dominio politico. La borghesia per esprimere il dominio politico doveva rinunciare a parte del dominio sociale.
Questo generò molte contraddizioni perché l'affermarsi di nuove relazioni e antagonismi sociali, il rapporto di lavoro salariato e l'embrionale e via via sempre più chiaro antagonismo tra capitale e lavoro, unito con il persistere di vecchie, da una parte garantiva il capitale da un eccessivo sviluppo, dai rischi dell'anarchia, ma sotto un altro punto di vista questa combinazione di contraddizioni, di epoche diverse dentro la stessa epoca, non rendevano perseguibile e praticabile un dominio puramente ideologico della società. Per di più, e questo si verificò tanto nella provinciale Europa quanto nella modernissima America, gli strumenti sociali e tecnici del nuovo controllo non si erano ancora sviluppati in maniera soddisfacente, mancavano ancora precise normazioni sulla produzione, erano indecise le comunicazioni tra la città e la campagna e le organizzazioni politiche e ideologiche, le forme stesse di quelle, da articolare sul territorio e in seno al popolo. Tolta l'ideologia nazionale, alla borghesia mancavano gli strumenti atti a costituire un blocco sociale e quindi era costretta a guardare costantemente al passato e non certo al futuro. 

2.2. La restaurazione europea del 1815

Al di là di tutti questi elementi contingenti ed esogeni, la borghesia del primo ottocento dimostrò di essere legata a una concezione feudale del potere. La modernità dello Stato borghese nazionale era arcaica. Non si trattava solo di arretratezza dello sviluppo economico e sociale della borghesia, ma del fatto che il nuovo Stato borghese vive in una sudditanza e rispetto ideologici verso lo Stato assoluto aristocratico e malgrado la nuova forma di stato la borghesia non amministra, come classe, il potere.
Inoltre, e questo non è un dato contingente ma strutturale, lo Stato borghese è debitore dello Stato assolutista monarchico per moltissime istituzioni dell'esecutivo, seppur riadattate alle nuove esigenze giuridiche e sociali. La borghesia non ha introdotto una rottura rivoluzionaria con la precedente struttura dello Stato, ma esclusivamente una rottura politica e si operarono molti aggiustamenti, rivisitazioni e perfezionamenti su una struttura di potere distesa sulla centralità e sulla nazionalità, o meglio ben preparata a quelli. La borghesia, come nel XVIII secolo si poteva ancora pensare, non si fa propugnatrice di decentramento, federalismo e autonomie amministrative e rappresentative, ma di centralizzazione e autoritarismo amministrativo.
L'ideale statuale che emerge nella fase rivoluzionaria della borghesia spiega la restaurazione del 1815, altrimenti inspiegabile, se non attraverso un impossibile e anacronistico ritorno allo Stato assoluto aristocratico hic et nunc.
Alla rivoluzione politica non fece seguito nessuna rivoluzione istituzionale di eguale spessore e parallelamente nessuna rivoluzione sociale profonda, cosicché fu possibile, ma forse necessario, che settori borghesi pensassero a un compromesso in politica e nella costituzione statuale con l'aristocrazia redditiera. Così, quasi in un dejavu, la grande finanza, i grandi casati borghesi, si misero nuovamente a prestare danaro allo Stato, assumendo il ruolo di creditori che era stato tradizionale durante l'antico regime, mentre la borghesia produttiva, gli imprenditori, venne emarginata dalla gestione dello Stato. Il cuore della nuova classe è escluso dal potere sia perché non è ancora così forte da egemonizzarne la rappresentanza, sia perché si teme, in ragione delle paure intorno alla crisi e all'anarchia, di vedere chiaramente rappresentata politicamente la natura selvaggia della nuova economia. Si stese un pietoso velo sulla nuova realtà sociale ed economica. La borghesia continuava ad avere timore di sé stessa.
La borghesia produttiva, però, si sviluppava fino al punto di dare luogo ad autentici conflitti di classe di tipo nuovo, ma ostracismo ideologico, volontà di mistificare e occultare il cuore del processo storico e un relativo e innegabile peso specifico basso del cuore della nuova classe, all'interno della sua stessa classe, le impedirono di organizzarsi per poter intervenire direttamente sul potere politico; a completare questo quadro che favoriva la restaurazione del 1815, la piccola borghesia, gli artigiani, i negozianti, i proprietari agricoli, i contadini e la massa rurale europea in genere continuava a venir esclusa da ogni rappresentanza, in ragione dei modernissimi sbarramenti censitari, e diveniva una classe estremamente instabile e turbolenta, in lotta contro la concentrazione e concorrenza capitalista, quanto contro le sopravvivenze feudali e signorili, minacciata su due fronti. La piccola borghesia produttiva, urbana e rurale, era molto lontana dal riconoscersi nel progetto statale apparentemente ibrido, nel quale banchieri e grandi proprietari terrieri governavano.
Si manifestò l'assenza di un blocco sociale che avesse basi popolari e di massa, questione che aveva dominato anche la fase rivoluzionaria della borghesia e del suo Stato e che era stato provvisoriamente risolta dai giacobini, con il rischio dell'estensione della rappresentanza, con il rischio dell'anarchia. Lo Stato borghese, infatti, (e questa sua natura e tendenza naturale venne incarnata e prefigurata dalla breve esperienza giacobina e della convenzione) è portato dalle sue stesse forze costituenti ad allargare la sua presenza e le sue competenze giuridiche, legislative, militari e poliziesche in ogni settore del vivere associato, a sottoporlo a una norma generale, in perfetta analogia con l'ancient regime, ma, al contrario di quello, rivendica e istituisce un'autorità diretta, non schermata. Per fare questo ha bisogno di un consenso sociale altrettanto diretto. Non poteva avvenire nel 1815 e nei suoi dintorni. Lo Stato borghese nazionale e sempre monarchico era una prosecuzione e perpetuazione di un potere esterno alla società, che trovava la sua giustificazione e legittimità al di fuori di quella, anche se la struttura di questa legittimità non poteva più risiedere in una trascendenza divina, assoluta, ma in una trascendenza relativizzata, una volontà divina che si inverava nella storia.
La riscoperta del re e della Corona è il prodotto di questa nuova trascendenza del potere politico, il re è il popolo, l'incarnazione della sua decisionalità; il monarca è la personificazione della coesione nazionale: da re di Francia a re dei Francesi e di Francia. Il binomio stabilito tra trono e altare, che ha fatto leggere la restaurazione come una revanche medioevale, fu esattamente il contrario di una revanche, fu, invece, la secolarizzazione incipiente del potere statale. Si secolarizzava Dio, non si divinizzava lo Stato.
Una serie infinita di fattori spinse le borghesie europee a scegliere di costruire uno stato neo monarchico e neo aristocratico, una monarchia costituzionale a rappresentanza ristretta su base censuale.
Questo avvenne, anche se in maniere diverse, in Italia, dove, pure, non si era manifestato il fenomeno insurrezionale francese o inglese. Le monarchie sabauda e fiorentina, mantenendo caratteri assolutistici ed escludendo istituzionalmente la rappresentanza, fanno testimonianza di questo compromesso che è dettato dalla Corona, su posizioni di assoluta forza. Uno stato di diritto pubblico di derivazione francese influenza le istituzioni in Prussia e in Austria, ma anche qui l'assoluta preminenza della Corona manifesta l'impero asburgico e il regno prussiano come naturali prosecuzioni dello Stato assoluto dell'antico regime.
Questo dimostra ancora di più che, in quella fase storica, la nuova borghesia e l'aristocrazia, Stato nazionale borghese e Stato assoluto aristocratico fossero e siano stati estremamente vicini: alla potenza e apparente arbitrio del monarca si oppone un'amministrazione pubblica regolata da leggi generali, alla dinastia regnante fa riscontro il territorio e il popolo nazionale, l'esercito, pur rimanendo volontario, usa reclute nazionali e raramente ricorre a mercenari stranieri.
Si trattava, ribadisco, di un ibrido, del compromesso provvisorio tra due classi dominanti, o meglio due settori di classi dominanti, che trovarono nel re e nella religione organizzata gli strumenti più efficaci, anche se provvisori, per creare e organizzare consenso, per organizzare l'ideologia del potere statale. Fu, comunque, una grande novità, malgrado l'apparente arretratezza restauratrice, perché, per la prima volta, con coscienza, con analisi cinica, si utilizzava la religione e il divino come strumento di controllo sociale, come ideologia politica; la religione e i parametri religiosi divennero il termometro della situazione sociale, un misuratore, e anche un riferimento costante per l'immanenza. Anche per questo aspetto la restaurazione fu un nuovo modo di usare vecchie cose.
Questa concezione dello Stato era molto lontana dall'essere espressione diretta di un dominio di classe che fosse organico (cioè una parte costitutiva, una frazione della sua essenza) del dominio di classe della borghesia.
Fu un processo curioso: mentre la borghesia aveva, in verità, trovato una omogeneità di vedute politiche e istituzionali durante l'antico stato di cose, e questa omogeneità aveva riguardato anche la cultura, le tradizioni, gli usi familiari e finanche il modo di vestire, insomma gli stili di vita nella loro accezione più ampia, anche grazie al fatto che era sottoposta alla medesima discriminazione, allo stesso inquadramento giuridico, ora, invece, si diversificava politicamente e anche culturalmente secondo settori sociali. Con schematismo si potrebbe dire che ad alcuni settori sociali del fronte borghese corrispondevano altrettanti, e facilmente individuabili, settori politici.
L'omogeneità politica che il fronte borghese aveva sperimentato durante lo Stato assoluto aristocratico si rompeva e, in realtà, si era spezzata già all'indomani dell'insurrezione inglese o francese. Tutto questo dipendeva proprio dal fatto che questa nuova classe sociale non sapeva forgiare gli strumenti adeguati al controllo e dominio della società, strumenti che avessero la stessa presa della coazione feudale e delle sue norme personalizzate. Venne fuori, come scritto, una paura, o per dirla con Marx, parafrasando e interpretando metaforicamente una sua famosissima espressione, uno spettro o un fantasma (che si aggirerà in Europa qualche decennio più tardi), quello del vuoto di potere o della debolezza del potere. Il timore di non riuscire a governare da sola, con i mezzi ideologici che le appartenevano e le erano connaturati, la società divenne un'ansia genetica della borghesia, un'angoscia che si porterà dietro per tutta la sua storia: mai una classe ha sperimentato soluzioni istituzionali così differenti tra loro (democrazia oligarchica, democrazia di massa, dittatura populista, monarchia costituzionale, dittatura militare) nell'esprimere il suo dominio, segno inequivocabile di quest'ansia e angoscia. La spiccata tendenza allo statalismo, alla concentrazione massima dei poteri e delle decisioni, alla programmazione centralizzata, che ha sempre contraddistinto la sua storia istituzionale, sono l'espressione di quest'ansia genetica.
Dopo aver liberato le forze produttive dal diritto coercitivo, distintivo dell'epoca classica e medioevale, dopo avere, cioè, smascherato e rivelato la reale natura dei rapporti sociali basati sul comando del lavoro altrui, in termini puri e semplici, insomma come tali, in quale maniera, ora, ricodificare credibilmente la vita sociale senza metterli in discussione?
Basteranno gli assiomi derivanti dalla necessità e naturalità del profitto per giustificare l'assoggettamento e lo sfruttamento del lavoro altrui? Se la proprietà privata non dipende da un'investitura superiore e neppure dalla naturalità delle relazioni (due cose che si assomigliano tra loro anche se apparentemente antitetiche) e neppure, infine, da una serie di consuetudini accettate dalle parti e realizzate attraverso relazioni personalizzate e antropologiche, ma dipende da una possibilità che sta al di fuori dell'uomo, una possibilità astratta, una possibilità economica, allora il diritto di proprietà ha in sé il proprio inizio e la propria fine, una sua compiutezza e perfezione alla quale, però, è difficile trovare una giustificazione e soprattutto sulla quale è difficile edificare un sistema sociale e politico.
L'unica giustificazione del capitalismo è l'esistenza stessa del capitalismo, alfa e omega, ancora una volta.
È così, allora, che la borghesia della prima metà del XIX secolo ritrovò nel re e anche nell'aristocrazia una copertura (certamente scomoda e problematica nella contingenza storica) al suo autentico potere. La borghesia come classe affidò e affittò lo Stato borghese nazionale ai relitti aristocratici e a una casta finanziaria interna.
C'era un'alternativa, ovviamente, quella indicata dai giacobini tra il 1792 e il 1794: rendere il numero dei proprietari, anche infimi, il più numeroso possibile, fare della proprietà un bene diffuso, e si avrà una serenità sociale e politica generale e si potranno fondare istituzioni basate sulla rappresentanza universale. Era compito impossibile, una vera utopia, almeno per le risorse tecniche e informative dell'epoca, oltre che per la contingenza politica, vale  a dire la congiuntura sociologica che toccava l'epoca: combattere i relitti signorili e feudali nelle campagne, liberando la proprietà contadina e contemporaneamente limitare il progresso del modo di produzione di fabbrica nella manifattura. Si sarebbe delineata una combinazione di interessi contrapposti ingovernabile.
Durante e nei pressi del 1815, incontriamo una evidentissima aporia storica.

3. La grande aporia del primo '800

3.1. Dal 1815 al 1871

3.1.1. I moti del primo ottocento e lo Stato bonapartista

Le rivoluzioni politiche, i movimenti insurrezionali e in generale i moti  percorsero tutta l'Europa nella prima parte del secolo. In Inghilterra, in particolare, si espressero il primo movimento operaio organizzato, le prime insurrezioni nelle fabbriche, il movimento per la riforma agraria e per il suffragio universale, ma altre espressioni di inquietudine sociale e politica vennero fuori in Francia, Austria, Prussia, Italia e Spagna. Tutto questo complesso e inedito alla storia di forme organizzative, tecniche associative e azione politica proposero risposte diversificate a questa aporia.
Per Inghilterra e Francia il problema era spostato più avanti che nel resto d'Europa, ma va ribadito che il problema era ovunque, nella sostanza, il medesimo; i moti europei (questa indeterminatezza del termine viene utile) vedono i proletari, la nuova e in larga parte embrionale classe subalterna, giocare un ruolo politico indipendente e, quindi, più grande divenne l'esigenza per la borghesia, la nuova e in larga parte anch'essa embrionale classe dominante, di risolvere il problema del potere e dell'amministrazione del potere, poiché era in vista un pericolo che non proveniva dal passato, dalle resistenze della società feudale e signorile, ma dal futuro, cioè dal suo stesso sviluppo e rafforzamento.
La borghesia deve trovare una maggiore omogeneità politica, superando le spaccature esistenti tra rendita fondiaria, rendita finanziaria e imprenditoria, e costruire in funzione di questa unità interna un blocco sociale che le consenta di costituire il suo Stato politico. La dittatura del secondo Bonaparte, prodotto illegittimo delle vicende del 48 francese, fu un esempio  di questa unità perseguibile e in quel caso realizzata. L'aristocrazia, nel secondo bonapartismo, è definitivamente battuta, accantonata come un alleato scomodo ieri e inutile oggi, si è elevata, infatti, agli onori della politica e della rappresentanza istituzionale la sua tradizionale antagonista e avversaria, la piccola proprietà di campagna, la massa di contadini francesi che avevano votato Bonaparte anche perché dovevano al primo Bonaparte e alla rivoluzione del 1792 il pieno possesso delle loro terre. Attraverso la dittatura del secondo Bonaparte, la borghesia francese e non solo quella francese avevano scoperto il loro alleato naturale per quella particolare fase del loro sviluppo: la piccola borghesia campagnola.
Era uno stato borghese, il primo Stato borghese della Francia, realizzato nel 1851. Esso conserva i caratteri formali dell'istituto monarchico: c'è un imperatore, il potere esecutivo è ancora concentrato in una figura titolata. C'è, ancora, la borghesia finanziaria e i grandi banchieri che mantengono un ruolo egemone su tutta la classe borghese. C'è, ancora, un compromesso di potere al quale la borghesia, presa nel suo insieme e intesa come classe, è costretta verso una componente a lei estranea: la borghesia non esercita il potere esecutivo che è esercitato dal militarismo bonapartista. La borghesia accettò questo compromesso perché, per la particolare situazione storica della Francia, solo il carisma di Bonaparte le avrebbe potuto offrire, davvero su un piatto d'argento, l'alleanza politica con le masse contadine insieme con la loro fiducia e il loro consenso. Fu una dittatura basata sul consenso di massa, su un plebiscito, appunto, negli aspetti formali che combaciavano, però, perfettamente con la sostanza di un blocco sociale che legava tutti i possessori dei mezzi di produzione, un blocco interclassista antelitteram; questo blocco sociale veniva rappresentato per interposta persona, per rappresentazione monarchica, militarista e imperialista.
Certamente l'esperienza francese denuncia l'arretratezza della borghesia, almeno di quella europea, rispetto ai suoi obiettivi ma la definizione del blocco interclassista intorno alla monarchia di Napoleone III manifesta, al contempo, una novità profonda, una nuova immagine della politica e, nonostante tutto, del potere politico e dello Stato. Per la prima volta la borghesia poteva elaborare e pubblicizzare le sue ideologie preferite: l'idea di nazione, lo Stato come istituzione nazionale e rappresentativa del popolo nazionale, il culto della proprietà la cui legittimità si fonda sul lavoro speso per acquisirla, l'etica familiare, la famiglia nucleare e ristretta. I cardini della propaganda politica e del moralismo politico dello Stato borghese della seconda metà dell'ottocento furono cuciti sulla misura dell'abito dei contadini proprietari, liberati da una o due generazioni dalla legislazione feudale e signorile.
Alcuni elementi della seconda epoca bonapartista, che alcuni storici, anche marxisti, hanno considerato arretrati e relitti delle epoche precedenti, sono al contrario nuovi e progressivi e manifestano l'essenza e i meccanismi (anche se espressi in forme vecchie) del nuovo potere. Le tecniche assolutiste, che il potere di Napoleone III recupera dal passato, descrivono, in realtà, la coazione verso un nuovo assolutismo politico e statuale, del tutto estraneo a quello aristocratico. Se è certamente vero che i parroci e i curati continuano a funzionare nella campagne, nel grande serbatoio di consenso sociale e politico dello Stato bonapartista, come agenti politici del governo, strumenti di propaganda, è anche vero che la natura principalmente laica dell'ideologia del nuovo potere mobilita schiere di notabili, avvocati, medici e uomini di cultura bassa e media in questa operazione e in questo meccanismo. Si diffonde una pioggia culturale che, senza entrare in aperta contraddizione con la fede e la religione, anzi appoggiandola come necessaria e utile, semina i nuovi valori nazionali e una nuova etica e moralità laiche e autonome. L'ideologia borghese per le masse deve trovare la giustificazione in sé stessa, la legittimità nella sua stessa legittimità e non rimandare a cause eteronome.
Il blocco sociale della Francia del secondo Bonaparte ebbe un cemento laico e nuovo: ebbe l'ideologia politica. Sotto questo e molti altri aspetti, dopo la sconfitta della rivoluzione del 1848 e attraverso il colpo di Stato di Napoleone III del 1851, il sogno giacobino si è realizzato.
La dittatura politica borghese, anche nella  forma anomala, particolare e per certi versi provinciale di Napoleone III Bonaparte, ha una caratteristica costante: riesce a solidarizzare intorno a sé la piccola proprietà. Questo è sempre avvenuto, anche se in forme completamente diverse, nella dittatura giacobina, bonapartista, nel fascismo e nel nazismo.
La dittatura di Napoleone III è stata un'esperienza importantissima per lo sviluppo politico della borghesia e del suo Stato. Lo Stato, la sua autorità politica, non solo inizia ad articolarsi nella società, ma tende a essere rappresentativo della società e a costruire la società: lo Stato della borghesia registra quello che produce, è la registrazione del suo stesso movimento nella società e degli effetti di questo movimento nella società. La tendenza alla dittatura, una dittatura espressa con strumenti di massa, è stata genetica e originaria nello Stato borghese; l'ideologia politica, intesa come categoria che riguarda i massimi sistemi per influenzare i piccoli, che scrive di nazione per organizzare e definire la famiglia, e che trova legittimità in sé stessa e nel suo stesso discorso, è uno strumento per definizione integralista: l'ideologia politica tende a spiegare tutto, ad essere assoluta. Si conforma una idea completamente diversa di assolutismo.

3.1.2. Il caso inglese

Nello stesso periodo in Inghilterra, anzi qualche decennio prima, lo Stato iniziò a interessarsi e ad intervenire sul nuovo conflitto tra capitale e lavoro, in forme differenti: dall'aggiornamento della giurisprudenza in funzione del contrasto delle nuove forme di insubordinazione (famosissimo il decreto della pena capitale per gli operai che danneggiavano volontariamente le macchine delle officine, le leggi contro gli scioperi) ma anche con i primi passi verso la definizione di spazi sociali di mediazione (significativo il riconoscimento della legalità delle trade unions del 1825).
Nella fase  borghese neofeudale lo Stato viveva il rapporto con la nuova classe subalterna, il proletariato urbano, in maniera essenzialmente repressiva e questo rimarrà un atteggiamento e un modo di fare costante per il nuovo ordine sociopolitico sino agli anni settanta del XIX secolo; questo modo di fare fu prima abbandonato in Inghilterra dove si iniziò a riconoscere giuridicamente l'esistenza della classe operaia nelle sue espressioni più organizzate, nelle sue forme di associazione economica, anticipando largamente i tempi. L'organizzazione della classe operaia diviene rapidamente, agli occhi del capitale, un male, certamente, ma un male endemico e inevitabile che va dunque inserito in un contesto giuridico, va sistemato e, in un certo senso, garantito. Fino a che la nuova classe subalterna e antagonista si esprime in forme compatibili con l'esistenza del sistema capitalistico, e queste sono le forme sindacali che si stanno sviluppando in Inghilterra, e gli obiettivi delle rivendicazioni operaie rimangono vincolate a minimi economici e non mettono in discussione il comando sulla produzione, allora questa nuova classe va rispettata e compresa, conosciuta e studiata. Il rispetto, la comprensione, lo studio e la conoscenza della classe operaia hanno la funzione di non vedere radicalizzato lo scontro di classe, ma di conoscerlo in tutta la sua estensione e di isolarne, per colpirli, i picchi  più alti, là dove si intravede un altro studio e un'altra conoscenza, diametralmente opposta a quella del capitale.
Il capitalismo inglese si rese conto molto prima degli altri che l'antagonismo proletario era fenomeno talmente connaturato alla nuova società che era impossibile sradicarlo ed era necessario il suo inserimento in un sistema giuridico; questo sistema giuridico faceva certamente riferimento alla storia precedente e al mondo delle corporazioni medioevali, quindi al passato appena abrogato, ma era di nuova concezione poiché si riduceva, anzi doveva ridursi, ad amministrare la contrattazione economica, il valore del lavoro salariato, evitando ogni altra proiezione sul vivere associato. Questo furono le trade unions, in pochissime parole. Gli interessi operai, o meglio una parte di quelli, e gli interessi di controllo borghese trovarono un punto di convergenza nella struttura sindacale. Le lotte proletarie dovevano mantenersi nel solco delle compatibilità con il sistema di fabbrica, rimanere lotte interne alla fabbrica, mentre gli interessi borghesi dovevano limitarsi in funzione del recupero e della codificazione contrattata dei rapporti di sfruttamento: le due classi dovevano trovare e riconoscere unanimemente un limite nell'altra. La nuova struttura associativa della classe subalterna, l'organizzazione sindacale, nacque come elemento di mediazione degli uni e degli altri interessi e quindi non nacque per esprimere gli interessi degli uni e degli altri in forma chimicamente pura: di fronte alla manifestazione della loro purezza chimica l'organizzazione sindacale perde di senso e scompare.
In Inghilterra la borghesia riconobbe l'esistenza di un altro da sé, della sua negazione con la quale era necessario scendere a patti. Esisteva, quindi, un non - potere, un confine che delimitava il terreno della potenza dell'imprenditore nella nuova forma produttiva, nella fabbrica. La legislazione sociale inglese circoscrive il problema alla fabbrica ed esorcizza ogni forma di critica che travalichi la fabbrica, ogni disegno sovversivo globale e cercava di condurre in fabbrica il conflitto tra capitale e lavoro. Divenne a tutti abbastanza chiaro che il nazionalismo e il familismo se funzionavano per solidarizzare la piccola proprietà contadina intorno alla nuova forma di Stato, non erano sufficienti a generare consenso tra gli artigiani espropriati della proprietà dei mezzi del lavoro  o dei nuovi artigiani inseriti nel lavoro di fabbrica, tra la forza lavoro priva di investimenti e autonomia sulla produzione. Era necessario concedere alla nuova classe spazio e potere su un terreno meno ideologico e assolutamente più concreto: bisognava, quindi, concedere spazio e potere sul terreno della contrattazione dei salari e del reddito, usando
in questo commercio il crudo linguaggio dell'economia e della proprietà privata dei mezzi di produzione. Il profitto, principale obiettivo imprenditoriale, in Inghilterra divenne prodotto non automatico della produzione ma risultato di una mediazione, di un compromesso tra esigenze materiali contrapposte.
L'aporia, che venne superata in qualche maniera dallo Stato del secondo Bonaparte in Francia, si mantenne in Inghilterra ma presentandosi in forma davvero nuova. In Inghilterra, la forma del dominio borghese  smaschera sé stessa, si rivela a tutta la società e necessariamente comporta una composizione della borghesia come classe: il capitale finanziario e quello produttivo, la rendita e la produzione, le banche e la manifattura, si vengono incontro e costituiscono un'alleanza.
Lo Stato borghese non deve affrontare limiti imposti al suo sviluppo da un'altra classe dominante, come aveva dovuto fare lo Stato assoluto dell'aristocrazia, con la quale può comunque iniziare una relazione di collaborazione nella gestione del dominio, ma deve affrontare un impedimento, una non - collaborazione, una negazione di sé. Esso si adopererà per contenere e sterilizzare questo nuovo elemento.
Per contenere e sterilizzare questo altro da sé, lo Stato borghese deve compiere ai massimi termini l'accentramento avviato dalla precedente forma Stato e al contempo articolare fino all'impensabile le strutture del suo potere, diramarle sul territorio, invadere le località e la nazione. Lo Stato borghese ha bisogno di istituire strutture che garantiscano l'egemonia politica e culturale della borghesia, non tanto come borghesia, come complesso di individui, ma come logica astratta, come morale economica, come capitale. La borghesia e il suo Stato devono affermare l'egemonia culturale e politica del capitale sulle classi subalterne, devono teorizzare l'astrattezza del potere e la sua naturalità, proprio in ragione di questa astrattezza.
Questi erano ormai i problemi in Inghilterra, dove lo Stato della borghesia si trovava faccia a faccia con l'emergenza della lotta, spesso selvaggia, degli operai e dei proletari urbani, raramente ideologizzata, ma cinica e brutale come quella del suo antagonista. Il nuovo Stato si sente assediato dalla nuova e magmatica classe e non ha a disposizione alcun codice credibile per disciplinarne i comportamenti, se non la legge astratta del mercato, se non l'affermazione del capitale, quindi nessun codice. Si rimpiansero i codici personalizzata dell'epoca precedente, il medioevo come epoca di una genuina umanità e, naturalmente, ordinata. Gran parte del decadentismo dell'ottocento si legò a questa mitologia nostalgica. In termini di contingente ideologia politica, invece, la borghesia e il suo Stato, anche negli aspetti istituzionali, legarono sè stesse alla intangibilità della corona, alla dinastia dei Tudor, alla personificazione della storia della nazione. Insomma i bei tempi andati, dove il rispetto reciproco e l'armonia sociale prevalevano sugli interessi materiali, e persino le jacquerie, orrore di quei tempi, divenivano memorie accettabili, contro il terribile cinismo delle rivolte del presente.
La monarchia costituzionale inglese, associata al modo di fare delle classi egemoni, allo stile di vita rarefatto, esorcizzava la realtà del nuovo dominio che non trovava codici e, alla fine, seppur ne aveva, non trovava ideologie socialmente permeanti.
Abbiamo veduto l'emergere del proletariato urbano in Inghilterra e in Francia come un elemento non facilmente inquadrabile storicamente nelle prospettive della borghesia e nel suo Stato, qualcosa che richiede un'ulteriore trasformazione dello Stato ereditato dall'antico regime, che richiede la sua trasformazione in una struttura sociale e fondata sul consenso di massa. Questo nuovo soggetto sociale, l'operaio di fabbrica, diviene un limite costante al nuovo potere che non può esprimersi secondo le forme assolutistiche del passato; lo Stato borghese è costretto a rinunciare a una delle prerogative tradizionali dello Stato assoluto aristocratico, quella dell'assolutezza del suo potere, precisamente come la nuova proprietà dei mezzi di produzione è costretta a riconoscere un limite alla sua affermazione.
Non è una completa novità: nel XIII e XIV secolo, in Italia fin dal XII, ad esempio, lo Stato assoluto aristocratico e le realtà comunali, le città, iniziarono a parlarsi come istituzioni se non contrapposte parallele. Lo Stato monarchico, in quell'epoca, aveva inquadrato nel tessuto di relazioni feudali e signorili, alle quali sovrintendeva, molte realtà municipali, che rivendicavano autonomie giuridiche, ovviamente di tipo feudale. Queste autonomie, quindi, non si manifestarono immediatamente e naturalmente come negazione del potere aristocratico ma come prodotto interno di quello e come suo completamento locale e localistico.
Certamente, secondo un processo analizzato da Marx, in quell'epoca la nascente borghesia commerciale e finanziaria fu incentivata a conquistarsi un ruolo stabile nello Stato aristocratico e monarchico e spesso assunse concretamente, attraverso suoi rappresentanti e membri, il ruolo di promuovere lo sviluppo e la razionalizzazione dell'apparato amministrativo assolutistico. Questo ruolo tradizionale fu rinnovato, in maniera rivoluzionaria, nel XVII e XVIII secolo, spingendo verso la rottura della collaborazione tra borghesia finanziaria e alta nobiltà e, infine, nel XIX secolo, verso la composizione politica della borghesia in un'unica classe. In Inghilterra, nonostante gli stili politici rarefatti e tradizionalisti, questa composizione si realizzò già nella prima parte del secolo, in Francia è ancora la finanza e la banca a mantenere l'asse principale nelle relazioni con Napoleone III.

3.1.3. L'Italia

In Italia il 1848 significò Stato borghese neofeudale, ma solo in Piemonte il 1848 sopravvisse a sé stesso. Nella sostanza solo nella monarchia sabauda si realizzò il compromesso, peraltro in maniera estremamente timida, tra Stato assoluto aristocratico, che anche qui da decenni aveva adottato il diritto pubblico e gran parte della legislazione napoleonica, e le nuove istanze della borghesia. Fu il cosiddetto costituzionalismo 48esco: vale a dire lo Statuto albertino.
Posto a mezza strada tra consiglio del re e parlamento censitario, il parlamentarismo sabaudo nasceva sull'aggressività verso l'Austria e sulla retorica nazionalista del Piemonte. Il nazionalismo piemontese non era, però, un nazionalismo borghese, ma un nazionalismo dinastico, il nazionalismo di casa Savoia. Il nazionalismo sabaudo, infatti, non divenne un nazionalismo italiano ma si alleò con quello.
Il Piemonte, nonostante l'apparente progressività, era molto indietro rispetto alle coeve monarchie francese e inglese.
Lo Stato sabaudo è uno Stato dinastico, di diretta fondazione medioevale; è uno Stato di diritto pubblico ed è uno Stato dove i diritti di produzione feudali sono in estinzione ma dove è la proprietà fondiaria a rappresentare egemonicamente la nuova forma assunta dalla proprietà privata. In Piemonte, come del resto in quasi tutto il resto d'Italia (eccezion fatta per la Lombardia asburgica e il napoletano borbonico), non esisteva la borghesia produttiva, la borghesia industriale. Il pensiero borghese, il pensiero moderno, trova referenti, tanto in Piemonte che nel resto d'Italia, nella piccola borghesia delle professioni liberali e dei commercianti ed è, inevitabilmente, esogeno, importato, da dove (Francia e Inghilterra) i rapporti di produzione capitalistici si sono già affermati. In generale, il pensiero moderno italiano del 1848 converge secondo declinazioni diverse (federalismo clericale o laico, centralismo clericale o laico, o l'idea di una confederazione nazionali di Stati regionali) sull'esigenza dell'unità politica italiana, un disegno che recupera la geopolitica napoleonica e più lontane aspirazioni di epoca preindustriale.
Questo disegno nazionale divenne interessante per il nazionalismo dinastico sabaudo. La forma Stato era quello di una monarchia costituzionale sotto la dinastia regnante in Piemonte e la posta in gioco l'unità commerciale della penisola. Nel caso italiano fu la monarchia sabauda e i suoi emissari a sostituirsi in più punti alla forza e alla determinazione di una borghesia nazionale che, effettivamente, se non esisteva proprio era appena in embrione.
Il caso piemontese e italiano dimostra quanto sia elastico il rapporto storico tra assolutismo e borghesia. Nella fattispecie il compromesso fu raggiunto proprio per l'arretratezza della borghesia italiana, malformata e disomogeneamente distribuita sul territorio nazionale, oggettivamente incapace di organizzare un movimento nazionale nel senso pieno del termine, tanto che l'unità nazionale in Italia venne raggiunta attraverso le baionette dell'esercito sabaudo e grazie a un quadro internazionale favorevole a questa impresa. Proprio per come era stata realizzata, l'unità nazionale favorì subito gli interessi espansionistici ed egemonici della seppur debole borghesia del settentrione del paese.
Il prolungato regionalismo italiano, sorto nel cuore del medioevo, fece sì che si venissero a creare delle situazioni di sviluppo diverse da regione e regione, e che le guerre di indipendenza del 1848 - 9 e del 1859 - 1860 possono essere anche interpretate come autentiche guerre di aggressione della borghesia del settentrione  contro tutte le altre strutture di potere economico presenti nella penisola. Inevitabilmente quella borghesia si trovò del tutto legata agli interessi dinastici di casa Savoia.
Via, via, si manifestarono contraddizioni, anche grandi, all'interno di questo blocco politico, basterebbe pensare ai garibaldini e alla questione romana, ma si trattava soprattutto di contraddizioni introdotte da una frazione della classe borghese del nord dell'Italia, dalla piccola borghesia commerciante e artigiana, che divenne repubblicana, ed era ancora molto lontana dal riconoscersi nelle tattiche e nelle strategie della grande rendita agraria e finanziaria che dominava il movimento della borghesia. Quasi tutto il fronte, inoltre, era dominato da culture e stili produttivi preindustriali.
Dunque mentre in Inghilterra e in Francia la piccola borghesia aveva cessato di avere una funzione propulsiva e rivoluzionaria, in Italia accadeva il contrario. Tante battaglie parlamentari che seguirono il 1861 dimostrano questo e il rifiuto reiterato di riconoscere la monarchia divenne motivo costante dell'opposizione democratica.
Su tutto altro schieramento la grande borghesia finanziaria concedeva al re gran parte del potere, simile a quello di cui godevano i reali di Francia prima della rivoluzione del 1848, mentre, allora, si sedimentava un movimento opposto, un'opposizione che si collocava ai margini della legalità e della cittadella politica, repubblicana. Questo determinò negli anni sessanta, settanta e ottanta un'instabilità politica abbastanza alta e un fenomeno abbastanza originale, in gran parte italiano, ma che riguardò altri paesi mediterranei e dove il proletariato urbano era estremamente debole e minoritario e il mondo delle campagne governava le problematiche sociali ed economiche.
Mentre in Francia e in Inghilterra la comparsa dell'antagonismo proletario aveva provocato la tendenza alla coagulazione di tutte le frazioni della classe borghese e insieme con quelle anche della piccola borghesia produttiva, commerciante e proprietaria, che accompagnata all'indebolimento del suo ruolo socio - economico, aveva diminuito, se non azzerato, la capacità di quella di esprimersi in maniera indipendente e di progettare il governo della società, in Italia la comparsa delle prime lotte operaie (negli anni '60 e '70) si coniugò con la presenza di una piccola borghesia intellettuale e produttiva ancora vispa e robusta (garibaldina come si diceva allora). L'alleanza tra garibaldini e emergenti istituti organizzativi operai fu abbastanza naturale: fu di allora la diffusione del pensiero mazziniano, ma anche di quello anarchico, che ebbero la funzione, secondo sensibilità diverse, di cementare ideologicamente questa alleanza.
Fu una situazione analoga a quella francese prima della rivoluzione del 1848, anche se l'analogia è in gran parte apparente, perché la piccola borghesia italiana rimase, per tutta la seconda parte dell'ottocento, una classe molto potente, capace di sedimentare un'organizzazione partitica e una forte influenza culturale, insomma un progetto politico generale.
Ecco perché, allora, la grande finanza e anche l'emergente strato imprenditoriale della borghesia italiana si appoggiò stabilmente alla figura del re e alle prerogative costituzionali della monarchia. La monarchia sabauda venne nazionalizzata, estesa alla nuova e disomogenea nazione, attraverso le prefetture strettamente controllate dall'esecutivo e dal monarca. A rinforzare questo quadro di forte collaborazione tra monarchia e alta borghesia italiana venne la modernizzazione del paese, e cioè le opere volte a creare infrastrutture produttive.
Fu una soluzione italiana all'aporia storica che contraddistingue gli inizi del potere e dello Stato borghese: un nucleo di proprietari fondiari, soprattutto del mezzogiorno, e un nucleo di grandi finanzieri e banchieri trovarono un compromesso per mantenere il vecchio nel nuovo. La società politica italiana è, fino al 1876, estremamente ristretta, il diritto di voto limitatissimo: la borghesia italiana non era in grado che di costituire una base di massa intorno al suo potere. Lo Stato, a livello di immaginario di massa, si giustifica ancora con la presenza del re, con il carisma tradizionale della corona, e anche la costituzionalità e il relativo parlamentarismo appaiono e devono apparire come un prodotto della monarchia, ancora come una concessione e il risultato dei moti di trenta anni prima.
Il nuovo stato nazionale e parlamentare è ancora giustificato attraverso il cascame dell'antico regime dei titolati e questo fu  al contempo il prodotto e anche la causa della spaccatura, in Italia, tra il movimento della piccola proprietà urbana, mercantile e artigiana, votata alla repubblica e qualche volta all'anarchismo e  la grande borghesia redditiera, finanziaria e produttiva quasi sempre volte a un governo forte, autoritario e a una costituzione monarchica.

3.2. Un'epoca antirepubblicana e il sogno americano

3.2.1. Stato aristocratico e Stato nazionale borghese

Prussia e Austria si trovarono in una situazione simile a quella italiana. La Prussia, in particolar modo, realizzò l'unità tedesca in modo analogo a come il Piemonte l'aveva ottenuta in Italia; sostanzialmente analoga è la condizione di marginalità alla quale viene condannata la piccola borghesia produttiva, intellettuale e contadina. Mentre, però, in Italia la cultura aristocratica non riusciva a trovare espressioni in campo politico e istituzionale, che non fossero la dinastia regnante e casa Savoia, e, concretamente, l'amministrazione dello Stato era in mano a eminenti borghesi e finanzieri, in Prussia lo junker, il grande tenutario agrario, rimane al centro dell'amministrazione burocratica e dell'apparato militare. Lo Stato assoluto prussiano era nato, infatti, come espressione di un'esigenza militare, come organizzazione militare, e non perse, nel corso del XIX secolo, questa sua connotazione di fondo. L'antica nobiltà costituisce l'ossatura dell'apparato militare e dell'amministrazione dello Stato. La borghesia tedesca manifestò un'intima debolezza politica all'interno del nuovo Stato unitario e non è lecito scrivere di una assunzione diretta del potere da parte della borghesia nella Germania del XIX secolo.
Se si guarda alla Francia, all'Italia, all'Austria, alla Germania e più che mai alla Russia del XIX secolo, ci si rende immediatamente conto del fatto che la borghesia non fu capace, in forme e misure diverse, di assumere il potere politico. Gli Stati europei continentali, nessuno escluso, mantengono la corona, si consolidano intorno alla monarchia e alle dinastie, e sembra quasi realizzarsi una doppia codificazione del potere dello Stato: le corone e i parlamenti.
In Inghilterra, al contrario, il ceto imprenditoriale ha ormai preso possesso delle funzioni politiche dirigenti, però, nonostante questo, la monarchia persiste, quasi come relitto istituzionale, ma persiste e questa persistenza ha, anche nella modernissima Inghilterra, il suo peso politico, oltre che formale e istituzionale.
Lo Stato borghese europeo, sia sul continente che oltre Manica, ricorre, così, all'incarnazione della memoria dello Stato assolutista aristocratico per trovare la sua suprema giustificazione istituzionale, storica e filosofica. L'800 europeo fu un'epoca decisamente, visceralmente e assolutamente antirepubblicana, nel cui contesto si esprime oltre alla continuità sostanziale tra Stato borghese e Stato aristocratico, necessariamente una continuità formale e istituzionale. La borghesia non è stata una classe rivoluzionaria in politica istituzionale, nonostante le rivoluzioni che ha sollecitato e provocato, anzi è stata una classe, in quel campo, conservatrice e regressiva; la borghesia europea temeva la liberazione di cui aveva bisogno e diffidava delle nuove istituzioni delle quali preconizzava in parte la necessità. In generale la borghesia non trovava strumenti autonomi, prodotti in autonomia, capaci di giustificare il suo potere sulla società e ricadde in una specie di eteronomia politico - istituzionale, in base alla quale la monarchia avrebbe proseguito nella giustificazione dell'autorità suprema dello Stato. Per di più la borghesia aveva bisogno di un apparato statale il più possibile accentrato e centralizzato e, dopo la crisi rivoluzionaria francese, il termine crisi è scritto e va letto sotto tutti i punti di vista, ogni idea di stato repubblicano, federalista e orizzontalmente distribuito era caduta nel più profondo discredito. La borghesia si presentava alla storia come una classe non più rivoluzionaria ma fortemente conservatrice. L'imprenditore del XIX secolo, al contrario del feudale medioevale, aveva bisogno della presenza costante e reale dello Stato nella società: l'economia di mercato, che è una coercizione immanente, continua e dilagante, al contrario di quella del feudalesimo, che è invece trascendente, intermittente, limitata alla comunità locale e personalizzata, va difesa quotidianamente, quasi ora per ora, dalle aggressioni che possono essere tanto interne quanto esterne, quelle operaie e quelle degli altri Stati nazionali borghesi. Il protezionismo, la politica dei dazi sulle merci, operata da tutti gli Stati nel XIX secolo, forniva la prova tangibile della necessità di una continuità con gli Stati dinastici e assolutistici precedenti e dell'ulteriore consolidamento di quelli in uno Stato nazionale e centralizzato affinché la borghesia potesse svilupparsi. Lo Stato assoluto aristocratico era stato un eccezionale laboratorio, dunque. La politica sociale dello Stato, già embrionalmente predisposta in Inghilterra all'inizio del secolo, prefigurava un intervento diffuso e articolato sulle nuove classi subalterne in funzione del mantenimento dei presupposti dell'economia di mercato, del mondo della merce e del comando sulla produzione industriale. Senza una struttura centralizzata sul modello dello Stato assoluto aristocratico l'economia di mercato, il sistema di fabbrica e la borghesia non si sarebbero potute sviluppare, molto più che il vecchio e appena sorpassato sistema feudale.
Lo Stato assoluto aristocratico aveva dato prova di capacità interessanti nel senso della discesa dello Stato nella società e rimaneva, dunque, un esempio. Il protezionismo, il mercantilismo statalizzato e, in genere, l'omologazione del tessuto giuridico verso l'obiettivo di un'omogeneità nazionale gli erano connaturati. Per la borghesia era necessario potenziare queste caratteristiche, trasformandole, e di abbassare, quando non eliminare, altre, soprattutto quelle relative al sistema fiscale, alle modalità del prelievo e alla protezione della proprietà feudale. Il legame tra Stato assolutista monarchico e rapporti di produzione feudali, anche se sciolto nello Stato nazionale borghese, rimaneva come un'ombra, una potenza ereditaria, un segno di un passato che era difficile non riutilizzare e rielaborare. Scritto in una parola era impossibile prescindere da quella plurisecolare esperienza di potere.

3.2.2. La rivoluzione americana

Dove lo Stato borghese non dovette confrontarsi con una coordinata struttura di potere feudale fu nelle colonie inglesi del nord America. Gli Stati Uniti d'America rappresentano una prova incredibile di quello che la classe dei liberi proprietari del '700 era in grado di produrre politicamente; fu quasi una prova di laboratorio e una soluzione chimicamente pura. La piccola proprietà agraria, mercantile e produttiva (agricoltori, coltivatori diretti, allevatori, artigiani e bottegai) formavano il tessuto connettivo sociale delle colonie settentrionali americane, insieme con una notevole attività imprenditoriale volta alla cantieristica navale e ai commerci marittimi. Due fattori, inoltre, rendevano questo quadro sociale quasi perfetto e, per certi versi, privo di grandi contraddizioni interne: l'uso di manodopera servile nelle grandi imprese agrarie del sud delle colonie e la possibilità, sentita come illimitata, di espansione politica ed economica verso l'ovest, verso le terre indiane. Tutto questo aveva inibito la formazione della manifattura, di una produzione di fabbrica e la formazione di grandi fortune capitalistiche e all'epoca della rivoluzione le colonie americane erano una nazione di liberi proprietari dove il lavoro salariato era fuggito con una potente marcia verso l'ovest, verso la frontiera, verso le possibilità libere dell'economia. La marcia verso ovest riproduceva, contemporaneamente, altra piccola borghesia. Il contemporaneo capitalismo inglese era sicuramente più sviluppato in termini economici e produttivi, fino al punto di avere relegato la colonia americana al ruolo di consumatrice di prodotti finiti, lavorati altrove. Indicativo, sotto questo punto di vista, è il rapporto economico stabilito nel settore dell'industria tessile, dove il cotone, prodotto nelle Americhe e attraverso l'uso massiccio di manodopera servile, ritornava alle colonie dopo essere stato lavorato dalle manifatture inglesi sotto forma di un prodotto finito e a prezzo decuplicato. Le forze produttive americane, quindi, non trovarono sulla loro strada la proprietà feudale, ma un mercantilismo di Stato che direzionava e regolava il flusso e le logiche del mercato e dei commerci; i piccoli proprietari indipendenti delle Americhe non affrontarono l'aristocrazia, ma la sua forma politica e istituzionale, lo Stato assolutista nazionalizzato.
Se da una parte la piccola proprietà fondiaria americana si massificava e diveniva il principale soggetto sociale ed economico delle colonie e sorgeva anche un'industria metallurgica che, però, limitava la sua sfera d'azione ai confini coloniali, l'industria tessile e meccanica, cioè la capacità della trasformazione delle materie, rimaneva riservata al capitale inglese che anche dopo le rivoluzioni del XVII secolo non esitava affatto di servirsi dell'intelaiatura impositiva e protezionistica ereditata dallo Stato assoluto monarchico. Questo scenario andava soprattutto a detrimento del nord delle colonie, poiché nel sud la grande proprietà fondiaria che utilizzava manodopera servile rimase maggiormente legata alla madrepatria coloniale. Nel grande proprietario fondiario del sud era il desiderio di difendersi e tutelarsi dalla concorrenza della piccola proprietà del nord e di vedere questa deprimersi piuttosto che innalzarsi; la grande proprietà schiavista del sud delle colonie americane ambiva a mantenere rapporti di produzione precapitalistici, che erano i suoi propri, in base ai quali la mobilità della manodopera andava controllata, se non proibita, e si preoccupava della potenziale concorrenza che la società imprenditoriale e libera del nord poteva esercitare sull'uso della manodopera servile. Il grande proprietario del sud, di conseguenza, allacciava con la madrepatria e con lo Stato assoluto inglese migliori relazioni, poiché i rapporti coloniali non mettevano affatto in discussione le forze produttive che basavano il suo progresso e la sua conservazione.
Il grande proprietario del sud, il coltivatore di cotone, in quanto possedeva una importantissima materia prima, poteva permettersi di limitare la sua azione economica all'estrazione di quella, con il minimo costo possibile, e a veicolarla alla madrepatria. La protoborghesia del sud non conosceva e affrontava rischi di impresa. Non dovendo sostenere se non minimi costi per la manodopera, non dovendo contrattare i costi di produzione con nessuno e non dovendo affrontare le conseguenti fluttuazioni al rialzo dei prezzi con alcuna controparte poteva tranquillamente ignorare gli aumenti dei prezzi dei prodotti finiti e la dinamica inflazionistica; al contrario il piccolo proprietario del nord delle colonie era particolarmente sensibile a questo aspetto. Per il nord ogni fluttuazione del mercato determinava un problema sociale ed economico. Soprattutto la piccola proprietà contadina risentiva di una tale dinamica nella costruzione dei prezzi, essendo in gran parte dipendente (in attrezzi di lavoro, vestiario e anche generi alimentari) dai prodotti dell'industria capitalistica inglese.
Gli americani, raggiunto un grado di concentrazione di capitale adeguato a dar vita a nuovi settori produttivi sul loro territorio, quindi ad avviare una riproduzione allargata dal punto di vista qualitativo del loro apparato produttivo, si trovarono nella necessità di richiedere una possibilità commerciale indipendente e quindi un annullamento dei vincoli mercantilistici. La terra americana era interamente percorsa dal movimento della proprietà privata libera, non feudale, da un'economia di mercato che trabordava nel mercato esterno. Il mercato libero, in America del nord, si manifestò con mezzi clandestini, che aggirassero i divieti e controllo del mercantilismo statale inglese, si realizzò, dunque, con un'agguerritissima flotta di contrabbandieri. I regolamenti della madrepatria, che imponevano un'economia di scambio controllata e attraverso di quella riuscivano a mantenere il capitalismo inglese privo di concorrenti nelle colonie, colpendo la piccola proprietà diffusa e la sua libera riproduzione, iniziarono a venire intesi come privilegi.
La rivoluzione americana fu questo: la reazione di una borghesia coloniale ai rapporti coloniali a lei imposti, senza che esistessero le condizioni oggettive per un tipo simile di imposizione. La borghesia americana trovava intralcio alla sua crescita economica in un'altra borghesia, quella inglese e la borghesia non si comportava come classe, ma come strato sociale coalizzato su interessi nazionali.
Questo ci conduce a due riflessioni di carattere generale. Seguendo i gradi stabiliti dal marxismo tradizionale, e in larga parte seguiti in questa analisi, il colonialismo è arretratezza. Il colonialismo non è affatto espressione di un dominio sovranazionale e dell'affermazione di un relativo e isomorfo mercato sovranazionale, non  è il prodotto della maturità e forse neppure dell'adolescenza della borghesia, ma è, al contrario, l'espressione spuria e sporca di un dominio borghese che ancora si coniuga con una cultura di potere assolutista e aristocratica. Il colonialismo è l'aristocrazia internazionale della borghesia. La volontà di concentrare nello stesso ambito geo-politico mezzi di produzione e materie prime
da trasformarsi in prodotti e la necessità conseguente di preservare quest'ambito attraverso un'intelaiatura protezionistica e militarmente determinata appartengono, senza grandi differenze, alla tradizione coloniale francese, inglese e spagnola; questo sistema fu potenziato e non stravolto nel XVIII e XIX secolo dalle borghesie nazionali europee e le borghesie nazionali europee erano visibilmente arretrate, indietro, rispetto ai loro autentici, naturali e istintivi obiettivi sociali ed economici. La seconda riflessione ci induce a pensare, con una certa verosimiglianza, che la borghesia fatica ad assumere l'aspetto e la mentalità di una classe internazionale, destinata a governare il mondo. Certamente la borghesia europea non si sentì come una classe o un gruppo di potere internazionale.

3.3. The american dream

La nascente borghesia americana non aveva avuto di fronte i rapporti di produzione feudali, anzi era formata da uomini che per un secolo e più, oltre che dalle persecuzioni religiose, erano fuggiti da quelli. La borghesia americana non temeva l'assenza di confini del mercato, anche perché la nuova Inghilterra non aveva al momento confini e limiti al suo sviluppo. Non casualmente, se possiamo ancora oggi scrivere di colonialismo europeo, ci è impossibile identificare una fase colonialista nella storia della borghesia e del capitalismo americano. Il colonialismo poteva resistere solo fino alla formazione di borghesie indigene nei paesi coloniali e non oltre, e bastò questa presenza embrionale a metterlo in crisi e a mettere in crisi l'idea di una naturale prosecuzione, in politica internazionale, dello Stato assolutista dell'aristocrazia: la borghesia dovrà internazionalizzarsi. diventare una classe cosmopolita, capace di riconoscere i suoi interessi mondiali e di sostituire il colonialismo con l'imperialismo, che sono due fenomeni radicalmente diversi e, per moltissimi aspetti, addirittura opposti. La catena di rivolte e rivoluzioni che negli anni '20 del XIX secolo sconvolsero il sud America e lo sottrassero nella sua interezza al dominio coloniale spagnolo sono la prova più tangibile dei limiti del colonialismo.
Il colonialismo era uno strumento inadeguato allo sfruttamento autentico dei paesi non capitalistici, presupponendo un rapporto tra madrepatria e colonia che reggeva fino a quando il problema era quello di inquadrare e sottomettere la popolazione indigena e il suo territorio all'economia di mercato. La monocultura, esempio cristallino del tipo di produzione imposta a una colonia, è, in realtà, più funzionale allo sviluppo e al consolidamento di interessi politici, di strumenti di controllo politico su una regione, attraverso la completa subordinazione del suo sistema produttivo alla madrepatria che non allo sviluppo del capitale in quella. Le risorse da estrarre vengono selezionate e limitate, nel colonialismo, e non si riproduce la libertà dei flussi produttivi che, invece, caratterizza la madrepatria: in una parola, nel colonialismo, il capitalismo si disciplina e si limita e manifestava tutta l'incapacità di ideare un dominio del mondo realizzato attraverso l'imposizione di rapporti di forza puramente capitalistici, puramente economici.
Nel colonialismo era la politica, l'interesse politico, a legare a sé, in maniera grossolana e sperimentale, quello economico. È così che i grandi stati europei, come l'Inghilterra. la Francia e la Spagna rimasero ancorati in campo internazionale e per tutto il XVIII secolo (e per Spagna e Francia arriviamo tranquillamente alle soglie del XX secolo) ai paradigmi espansionistici dello Stato assolutistico aristocratico. Questo dipendeva in larga misura dal fatto che la proprietà feudale non era del tutto annientata al loro interno e che ancora si andava consumando un compromesso di potere tra nobiltà e borghesia. Quel compromesso epocale, che ha caratterizzato la vita politica e istituzionale europea del 1815 fino alla grande guerra, era realizzato, senza dubbio, sotto l'ombrello degli interessi economici della borghesia; in quello la borghesia costituiva il polo di attrazione fondamentale. Era, però, un compromesso, secondo il quale alla grande borghesia finanziaria e mercantile rimaneva il potere di determinare le scelte politiche ed economiche di fondo ma dove la componente fondiaria e agraria, e moltissimi relitti della passata legislazione feudale, soprattutto nelle campagne, riuscivano a determinare modi e forme istituzionali di quella politica, dando loro una tranquillizzante continuità storica di fondo.
Durante l'epoca coloniale, la borghesia produttiva, il capitale in senso stretto, viene messa in minoranza dal grande volume del capitale mercantile e finanziario e vede depresse le sue capacità di espansione in quanto parte più significativa della nuova classe borghese. Si tratta molto spesso, per la borghesia produttiva, di lavorare alla trasformazione della materia prima coloniale e di limitare a quella produzione il suo sviluppo. I mercati nazionali delle madrepatrie sono contratti, ridotti, e gli stili di vita delle nazioni coloniali in poco differiscono da quelli delle regioni colonizzate. Il mercato interno è, dunque, povero mentre quello coloniale controllato e regolato da un oligopolio mercantile. L'alleanza ottenuta tra proprietà fondiaria e grande borghesia mercantile e finanziaria alienava alla borghesia produttiva la possibilità di ottenere capitale e profitti considerevoli dalle colonie. Il modello di sfruttamento coloniale mal si adattava, quindi, allo sviluppo internazionale dei rapporti di produzione borghese e nell'800 esso era un ostacolo e non un motore per lo sviluppo dei rapporti di produzione capitalistici e, probabilmente, non lo è mai stato.
La borghesia americana, animata da uno spirito fortemente innovativo che le derivava anche dal fatto di essere una classe, sotto alcuni aspetti, di massa si rese conto di questa antinomia, di questa contraddizione implicita nello sviluppo delle forze produttive e dei rapporti di produzione. L' "America agli Americani", la famosa dottrina Monroe, non fu una dichiarazione di nuovi intenti coloniali, ma la consapevolezza di sé di una nuova borghesia che vuole esportare tecnologie, capitali, modi di produzione e modi di vita nel sud America. In questa dichiarazione è la necessità di far diventare la politica una funzione dell'economia e non viceversa. La prima dichiarazione imperialista della storia del capitalismo fu, quindi, forgiata all'inizio del XIX secolo negli Stati Uniti d'America.
Per gli Americani, non si trattava più di organizzare la produzione e la sua espansione secondo forme coloniali, ma di imporre con audacia e necessario cinismo le leggi dell'economia e del mercato al mondo, attraverso l'economia e il mercato. Il profitto andava inventato e le risorse per il profitto costruite anche là dove, fino ad allora, non si erano verificate le condizioni necessarie all'accumulazione. Il capitalismo diventava, quindi, una legge generale, una legge scientifica, applicabile all'intero globo. Gli investimenti e la proliferazione della manifattura determineranno la nascita di nuovi mercati locali e bisognerà lasciare la briglia sciolta al cavallo delle imprese locali, al loro sviluppo e allo sviluppo della borghesia anche là dove non esista ancora. Le risorse strategiche internazionalmente, i minerali e i prodotti agricoli, subiranno un controllo determinato dalle leggi stesse dell'economia, dalle competenze tecnologiche e dalle risorse finanziarie necessarie ad assicurarselo. Si formeranno, quindi, borghesie nazionali, centinaia di borghesie nazionali, disperse in tutti gli angoli del mondo, e si determinerà uno sviluppo economico complessivo, mentre le leggi dell'economia stabiliranno chi avrà, oggettivamente, il ruolo del volano di questo processo: volano e non controllore, o meglio controllore interno, implicito e intimo. Il volano di questo processo sarà la potenza imperialista del capitalismo più affermato e più sviluppato. Così la vecchia colonia europea si svilupperà economicamente, il capitalismo imperialista vampirizzerà quello sviluppo senza interdirlo. Il sogno americano della grande libertà in economia era un sogno imperialista e gli Americani sono stati davvero una razza beata.

4. L'aporia superata

4.1. Gli U.S.A. a fine '800

4.1.1. Il vantaggio americano

Lo sviluppo capitalistico americano dell'800 è stato prodigioso e non credo possa trovare paragoni con altri fenomeni nella storia dell'economia. Gli americani potevano usare una ricchezza di materie prime e risorse naturali nella loro stessa terra e la marcia verso ovest iniziata nell'800 e sostanzialmente completata, almeno politicamente, nel 1884, rappresentò lo strumento di appropriazione globale di tale ricchezza.
Un grande stato minerario, agricolo e industriale si era formato, con un capitale di partenza diversificato e ben distribuito in ogni settore. Negli Stati Uniti il capitalismo si realizzò rapidamente in una serie di infrastrutture, di servizi (trasporti, edilizia, grandi linee di comunicazione ferroviaria e stradale) che non ha paragoni in Europa. Il territorio diviene oggetto di un investimento intensivo, di pianificazione degli investimenti e di sua messa in produzione. La metropoli, già dalla fine del secolo, domina il territorio circostante, la campagna si inurba, entrando a far parte non solo del rapporto di produzione capitalistico, ma anche del tessuto territoriale urbano, della territorialità urbana, grazie a strade e linee di trasporto rapide ed efficienti e a una rete di servizi sociali e pubblici che si articola omogeneamente tanto nelle città quanto nelle campagne.
Il territorio, in America, è veduto come entità organica allo sviluppo economico che, idealmente, non offre resistenza alla colonizzazione capitalistica; i limiti che il territorio pone allo sviluppo del capitalismo sono, in U.S.A., di tipo geografico, oggettivi, scientificamente misurabili (monti, laghi, fiumi, ostacoli geografici, insomma), perché la presenza di una territorializzazione precedente, di un diritto sulla geografia dei luoghi, è inesistente ovvero è stata spazzata via, come per il caso dei nativi. La territorializzazione in America quasi mai si è legata a una particolare soggettività del territorio, ma la geografia si è manifestata in tutta la sua oggettività. La macchina capitalistica ha proceduto come un'intricata ma razionale rete di linee su di una carta geografica.
L'importazione di manodopera dai paesi europei fu la necessaria conseguenza e presupposto di questo processo di colonizzazione del territorio. Una prima ondata migratoria intorno alla metà dell'800 introdusse operai qualificati e professionalizzati dei quali l'industria pesante, metallurgica ed elettromeccanica americana aveva profondamente bisogno; giunsero soprattutto operai scandinavi e tedeschi. Nella seconda metà del secolo, invece, arrivò manodopera dequalificata, di origine contadina e razzialmente definita dalle etnie mediterranee (Italiani, Turchi, Greci, Spagnoli, Serbi e via discorrendo) e dagli Irlandesi. Questo secondo gruppo di immigrati si inserì nella produzione a basso contenuto professionale (edilizia e settore minerario) e maggiormente meccanizzata (industria tessile e metalmeccanica). Il capitale siderurgico e tessile, così, si allargava e riproduceva in quello meccanico, metalmeccanico e infrastrutturale, manifestando subito, e senza troppi patemi, drammi e indecisioni, la tendenza a concentrarsi, a costituire concentrazioni economiche e produttive. Queste concentrazioni spesso coinvolgevano tutti i segmenti di una medesima filiera produttiva ma anche settori economici diversi. Le holding ed i trust furono il risultato formale di questa naturale tendenza del capitalismo americano, che, al contrario, faticava ad affermarsi in Europa.
Tutto questo non deve essere confuso con un salto in avanti, un progresso e un'innovazione sul terreno dei rapporti di produzione capitalistici americani, poiché il modello produttivo è ancora quello legato alla professionalità e ricchezza della mansione lavorativa, la forma organizzativa è ancora quella padronale e paternalistica o paternalisticamente autoritaria e l'imprenditore è una figura precisa, una biografia. Anche sotto l'aspetto della forza lavoro è l'operaio qualificato, come in Inghilterra, Francia e Germania, a essere al centro della produzione di fabbrica ma, in USA e con largo anticipo rispetto al vecchio mondo, diviene sempre più pressante e per certi versi naturale l'esigenza di avere una produzione e segmenti produttivi di supporto a quella principale, che offrono servizi e collaboratori al processo principale, lavorazioni dequalificate che vengono affidate a operai privi di qualifica, dequalificati, unskilled. Le holding  e i trust di fine ottocento rappresentano la fase di massimo sviluppo del sistema di fabbrica basato sul lavoro professionalizzato, sul mestiere, nel tentativo di mantenere rigide le divisioni tra i diversi comparti produttivi, le differenze tra produzioni centrali e secondarie e tra operai di mestiere e unskilled ma anche di aggirare la criticità di questa segmentazione e stratificazione, velocizzando i contatti tra le diverse branche produttive, controllando i flussi delle materie grezze e dei lavorati e gli spostamenti della manodopera, attraverso un'identità proprietà distribuita su tutti questi segmenti diversi per natura e livello di sviluppo. Inoltre, e per la prima volta il problema viene affrontato negli Stati Uniti anche se in maniera 'privatistica', ci si pone il compito di regolare, in funzione della conservazione del profitto, il mercato. Le holding e i trust sono un meccanismo difensivo della borghesia nei confronti delle fluttuazioni del mercato, delle altalene produttive e del costo del lavoro. Si manifesta la volontà di costituire un sistema autoregolato che riduca la manodopera a fattore interno, certamente interattivo, ma assolutamente interno e passivo nel processo produttivo.

4.1.2. Vantaggio e anticipazioni epocali: l'imperialismo

Il limite esterno al capitale  nel nuovo mondo non deriva dalla territorializzazione precedente, dai diritti e dalle consuetudini ereditati dai secoli della monarchia e del feudalesimo, ma deriva dall'esterno a sé che il capitale genera nel suo presente, un esterno, il lavoro salariato, che deve divenire interno. Il limite in America non deriva dal passato ma dal futuro. Questo limite che viene dal futuro venne interiorizzato a livello dell'impresa stessa; fu un passo avanti importantissimo verso la contemporaneità, verso il capitalismo maturo o tardo. Le holding e i trust rappresentano un meccanismo difensivo della borghesia nei confronti del mercato delle merci e del mercato del lavoro, cioè nei suoi stessi confronti. Si cercava, attraverso quella concentrazione privatistica di progettazione economica, di regolare, narcotizzandolo, il meccanismo della concorrenza, le conseguenti fluttuazioni economiche e l'emergere di nuove forze produttive e dirigenti. In questa fase la borghesia vede sé stessa come classe produttiva ma anche finanziaria, ma di una finanza diversa da quella redditiera del contemporaneo capitalismo europeo che, per certi versi, fa parte delle eredità dei secoli precedenti, del mercantilismo protetto dallo stato, della fiscalità delle monarchie, degli appaltatori e prestatori di danaro. In America si scopre un nuovo valore e uso della finanza: il capitalismo bancario, legato all'attività delle grandi concentrazioni produttive, subordinato alle sue risorse economiche e ai suoi profitti, dovrebbe e in parte diventa lo strumento per regolare queste ricorrenti fluttuazioni e per condividere l'accumulazione del capitale in tutta la classe dei capitalisti.
Il grandissimo limite storico dei trust e delle holding fu il loro indissolubile legame con la classe borghese intesa come classe nazionale, il vincolo che mantennero con i confini e le risorse dello Stato nazionale. Holding  e trust rappresentarono un sistema offensivo verso i mercati esteri, uno strumento per esportare e realizzare all'estero il capitale nazionale, uno strumento imperialista di prima fattura e in quintessenza, capace, però, di mandare in frantumi gli schemi del colonialismo europeo e della borghesia europea, sostituendo la presenza militare e l'intervento politico diretto sulle altre nazioni e le altre realtà regionali con uno sfruttamento immediatamente economico e una sopraffazione culturale e finanziaria. Le holding e i trust furono il cuore dell'imperialismo e il declino del colonialismo. 

4.1.3. L'arretratezza endemica dell'imperialismo sub specie del capitale

È possibile una lettura in negativo dell'esperienza delle holding e dei trust sub specie del capitale, dal punto di vista dello sviluppo capitalistico. 1 - Si dimostrarono incapaci di organizzare il salto in avanti nei modi di produzione che già l'epoca preconizzava 2 - Le grandi concentrazioni di capitale non furono in grado di rappresentare e cogliere appieno le caratteristiche internazionali che il capitalismo andava assumendo, rimanendo ancorate a una forma di capitalismo e di borghesia nazionali e subordinando il capitalismo alla logica delle sfere di influenza dei singoli stati nazionali. Non casualmente, nonostante l'imperialismo sia intrinsecamente nemico del colonialismo e segua tutt'altre logiche, dinamiche e si serva di meccanismi di dominio diversi rispetti a quelli coloniali, ebbe sempre il bisogno di essere accompagnato dalla capacità, espressa dagli stati nazionali, di creare uno scenario favorevole alla sua penetrazione nei paesi arretrati o, anche, nei paesi rivali sotto il profilo capitalistico. L'imperialismo, quindi, era curiosamente in conflitto con gran parte delle sue autentiche aspirazioni e con parte della sua natura. 3 - Le grandi concentrazioni finanziarie e produttive e insieme con esse l'imperialismo non servirono affatto a regolare la concorrenza e a organizzare la pianificazione economica, il disordine del mercato, infatti, si ripresentò puntualmente proprio nei momenti di maggior bisogno, nei momenti, cioè, di crisi economica, durante i quali rifioriva una piccola industria dalle caratteristiche altamente concorrenziali. L'autoregolazione 'privatistica' del capitale di fine ottocento e dei primi tre decenni del XX secolo fallì miseramente.
I trust e le holding ebbero, comunque, un significato e compito storici davvero importanti: essi funzionarono come il miglior strumento per realizzare l'espansione capitalistica a livello mondiale, e nei trust e nelle holding nacque l'idea dell'imperialismo e la sua ideologia che sopravvive ancora oggi. Essi rappresentarono il mezzo più adatto agli scopi del capitalismo: rendere capitalista il mondo, conquistare l'egemonia sul mondo. C'era il desiderio non evitabile, il desiderio inevitabile e costituivo, di ogni singola borghesia nazionale dietro all'obiettivo dell'estensione del capitalismo sull'intero pianeta. Nelle forme dell'imperialismo questo desiderio internazionale spingeva ogni singola economia nazionale ad allargare le proprie sfere di influenza e di difenderle dalle altre economie nazionali. Per certi aspetti non sarebbe del tutto scorretto descrivere l'imperialismo come una modernizzazione del colonialismo; ma sarebbe sottolinearne solo i limiti, solo il ritardo e non coglierne la novità che, in effetti, ben pochi colsero. La novità non erano le cannoniere e la relativa politica di forza, ma il flusso degli investimenti, la forza dell'economia liberamente dispiegata.
Le grandi concentrazioni di capitale dei paesi sviluppati capitalisticamente, al contrario del colonialismo, non disdegnano affatto una politica di investimenti produttivi nei paesi subordinati e non sviluppati né rapporti finanziari con la borghesia emergente in quei paesi, con la borghesia indigena. Si tratta di aggredire mercati esistenti e di crearne nuovi. di espandersi nel mondo non - capitalista; la forma del trust, che in una certa misura si richiamava alle strutture dello Stato nazionale, era e fu la più adeguata a questo compito. Nel trust la concentrazione dei capitali  e dei settori produttivi è meccanica, non chimica, cioè i legami tra i capitali e i capitalisti non erano organici ma rispondevano all'esigenza di fare cartello. Non si socializza un modo di produrre e non esiste una composizione di capitale capace di esercitare sulla società un comando sincronico, ma sussistono diverse composizioni che si alleano secondo logiche di politica economica.
Il trust, imperialista all'estero, sull'apparato produttivo nazionale tende, invece, a stabilire un rapporto di dominio coloniale, a ottenere la protezione dello Stato, e non è, dunque, il rapporto di capitale ad esprimere il dominio della borghesia. Il trust è la prefigurazione di questo dominio organico, ma non la sua realizzazione.
Quanto scritto vale in primo luogo per gli USA, ma anche per l'Inghilterra, la Francia e l'Italia fin de siecle.
Il capitalismo, attraverso la fase imperialista, inizia a uscire, inoltre, dalla sua gioventù, potremmo dire che raggiunge una prima età adulta e in quella, paradossalmente, inizia a perdere il capitalista come figura biografica, come figura giuridica, per assumerne una sociale e collettiva, anonima.

4.1.4. Modernità americana

Torniamo a ragionare sull'America. L'emergere dei grandi trust soprattutto nel settore siderurgico (United Steel) determina la concentrazione produttiva, l'aumento della quantità della classe operaia impiegata nella produzione e l'emergere di nuove strutture e infrastrutture sul territorio. Determina una trasformazione sociale, nel caso americano la creazione di un nuovo, che va controllata politicamente perché il processo è estremamente complesso e articolato e richiede la nascita di un complesso sociale e geografico.
La necessità di governare quel processo determina, in maniera assolutamente pragmatica cioè nuova e immanente, l'organizzazione politica del capitale. Nasce, negli Stati uniti, una forma politica nuova, che non ha paragoni o analoghi nella vecchia Europa, nasce il partito politico pragmatico. Nasce a immagine e somiglianza dei trust, come strumento di una sfacciata e non cucita ideologicamente regolazione tra i diversi settori borghesi, tra i diversi settori della proprietà privata. E nasce, non a caso, su questo suolo vergine, incontaminato da precedenti storici. Proprio là dove gli interessi erano chiari e privi di maschere, dove l'antagonismo proletario si manifestava in forme radicali e coscienti, di una coscienza molto diversa da quello che innervava il coevo movimento operaio europeo, e dove la produzione capitalista dettava direttamente i contorni del territorio e del vivere associato stesso.
Il grande capitale industriale e anche il capitale fondiario e agricolo sono, in America, elementi fluidi; fondano la loro egemonia sulla capacità di ridefinire i termini del conflitto di classe cioè di individuare nuove forme di dominio, sfruttamento e controllo. Il ciclo composto da crisi - sviluppo - ristrutturazione - nuovo sviluppo si manifesta negli USA per la prima volta in maniera chiara. Di fronte alla chiarezza del suo dominio, il capitale americano si pose il problema della classe operaia senza false coscienze ma con chiara coscienza. Non si trattava di legittimare o deligittimare le organizzazioni operaie e sindacali per principio, si trattava, invece, di creare dei lodi arbitrali politici attraverso i quali la contrattazione potesse avere sempre luogo, di centralizzare e razionalizzare lo scontro di classe, di dare una ragione capitalistica alla protesta ed estraneità operaie. Nacquero, così, negli Stati uniti, già nell'ultimo decennio del XIX secolo, comitati congiunti di padroni e sindacati a carattere permanente. Non è più la singola vertenza, la lotta improvvisa a determinare la contrattazione, essa si protrae oltre i termini cronologici della singola battaglia, essa assume il significato, anche ideologico, di una contrattazione generalizzata. In America, attraverso i vari comitees pubblici, stabiliti in molti realtà e solitamente presieduti da elementi rappresentativi delle diverse parti sociali, si stabilisce, anche nell'ideologia, una contrattazione permanente votata a definire, per la prima volta nella storia del capitalismo,  tutti i rapporti, anche quelli sociali, anche quelli che riguardano la vita sociale, i rapporti generali tra capitale e lavoro.
Non è ancora la mediazione politica di cui si farà carico lo Stato keynesiano di quaranta anni dopo, la politica non riesce a essere una funzione diretta dell'economia, contaminandola inevitabilmente, ne è solo la prefigurazione, limitata, inoltre, al quadro della produzione di fabbrica, al conflitto industriale e alle sue immediate vicinanze.
In America lo Stato scopriva, però, la sua funzione moderna: mediare ed equilibrare, dal punto di vista capitalistico, i conflitti generali tra le classi.

4.2. L'Europa di fine '800 e dei primi decenni del '900

4.2.1. L'arretratezza: suffragio universale e anarchia

Negli Stati Uniti, alla fine del XIX secolo, si apriva la strada un nuovo modo di amministrare i conflitti di classe; altrimenti stavano le cose in Europa, dove i problemi erano spostati indietro e il modo di amministrare il conflitto era quello tradizionale per lo Stato assoluto ereditato dall'epoca moderna. In Europa permaneva il pericolo, percepito sia dalla borghesia che dal proletariato, di un ritorno al passato ed esisteva il problema storico e concreto di conservare e difendere le forme dello Stato nazionale borghese contro il desiderio di abbandonarle e rinnegarle.
Questa arretratezza è, in parte, spiegabile con la permanenza dei rappresentanti della proprietà fondiaria di derivazione feudale o, al massimo, protocapitalitica all'interno dello Stato, che corrispondeva con il peso dei grandi agrari nell'accumulazione economica e questa permanenza e resistenza erano ulteriormente appesantite dall'arretratezza del capitalismo industriale europeo.
L'uso di trust e monopoli si afferma anche in Europa, ma in forme meno chiare e nette che negli Stati Uniti. È determinante il fatto, e questo fatto ha provocato, probabilmente, la debolezza dell'esperienza delle grandi concentrazioni produttive europee, che l'Europa possiede una struttura industriale più vulnerabile di quella statunitense agli attacchi della contestazione operaia. Questa vulnerabilità dipendeva dal fatto che l'Europa non usufruiva di una massa di manodopera immigrata e dunque la produzione industriale rimase ancorata a un'organizzazione del lavoro che valorizzava il mestiere e la professionalità e la figura dell'operaio specializzato e 'semi - artigianale'; dipese anche dalla difficoltà che i paesi europei incontrarono ad abbandonare il modello di sfruttamento coloniale nei paesi arretrati e a convertirlo in modello imperialistico (la Gran Bretagna con minor evidenza, Francia, Germania, Belgio e Italia, con maggiore); in terzo luogo in Europa la produzione e il mercato privilegiavano i macchinari industriali, l'estrazione dei minerali e l'industria tessile grezza che rappresentavano i settori trainanti e la siderurgia, l'industria del carbone e la produzione tessile rimasero le avanguardie tecniche del capitale europeo e ne rappresentavano la composizione più cospicua, mentre negli Stati Uniti la produzione iniziava a rivolgersi al mercato più diffuso, ai beni di consumo di massa.
Questi tre aspetti interagivano e avevano una comune origine: in Europa la borghesia doveva ancora confrontarsi con la tradizione culturale ed economica feudale.
Lo Stato del capitale, così, non riusciva a riassumere e rappresentare, compiutamente e linearmente, le trasformazioni sociali, a organizzarsi con conseguenza intorno ad esse, perché troppe erano le resistenze a una relazione diretta e naturale (meccanica) tra quello e il nuovo corpo sociale.
Il suffragio universale rappresentava ancora un effettivo pericolo in una situazione sociale complessivamente arretrata che, naturalmente, corrispondeva con una situazione produttiva incapace di dare risposte adeguate alla contestazione operaia ormai insorgente ed estesa. Il suffragio universale avrebbe potuto significare l'abdicazione, in quella fase storica, del potere da parte della borghesia, il governo dell'anarchia delle masse incontrollate e incontrollabili; questo è certamente vero per la propaganda conservatrice dell'epoca, ma lo è con tutta probabilità anche per la realtà delle cose: il suffragio universale sarebbe stato, quantomeno, un salto nel buio.
Il ciclo tipico dello sviluppo e dell'esistenza del capitalismo, il suo motore e il motore del suo sviluppo, quello che prevede la crisi economica -> la ristrutturazione produttiva -> il nuovo sviluppo -> l'emergere di nuove contraddizioni e difficoltà per lo sviluppo -> la conseguente crisi economica -> che comporta una nuova ristrutturazione produttiva, questo è stato il ciclo vitale del capitalismo industriale, in Europa rimaneva inceppato. La crisi si presentava ma non riusciva a generare una ristrutturazione delle forze produttive e dei modi di produrre adeguati al suo superamento e si faceva endemica e strisciante. In questo contesto lo Stato, anziché seguire in maniera strategica quello che avveniva nella produzione, era costretto a limitare il suo ruolo al controllo giuridico e poliziesco degli antagonismi che si esprimevano. Il mondo della produzione, nell'Europa di fine ottocento, non riusciva a parlare direttamente con lo Stato, nella misura in cui non riusciva a governare sé stesso e le sue problematiche. Alla fine lo Stato interveniva solo sul sintomo e solo sulla sua fase acuta, quando l'antagonismo tra le classi assumeva caratteri esasperati, quando la violenza prendeva possesso delle piazze o quando le organizzazioni padronali minacciavano di 'farsi Stato' e di assumere carattere istituzionale autonomo.
Non si riusciva, quindi, a trovare un piano di azione organico e lo Stato rimaneva funzione e strumento per controllare il conflitto, inconsistente verso la sua natura; l'intervento dello Stato, ovviamente volto in favore del movimento della proprietà privata e dunque degli imprenditori, si limitava, però, a essere un episodio di una battaglia che non gli apparteneva nei termini politici più profondi.
Per dirla in termini chiari: lo Stato nazionale europeo non era uno Stato organico alla borghesia e al capitalismo, ma era solo uno strumento per la borghesia e per il capitalismo adatto a inquadrare giuridicamente e repressivamente i nuovi rapporti di produzione.

4.2.2. I paradossi dell'arretratezza europea

Lo Stato borghese europeo, dovendo misurarsi con la presenza di una borghesia agraria che si era appropriata con estrema facilità delle nuove forme di sfruttamento e dei nuovi rapporti di produzione ma che aveva solo parzialmente acquisito, con proporzionale difficoltà, la mentalità politica del capitalista industriale, preferendo a quella la tradizionale ideologia feudale, chiuse gli occhi sulla complessità del nuovo antagonismo operaio; la arretratezza delle forze produttive europee non fece che rendere ancora più naturale questo processo. Lo Stato nazionale e solitamente monarchico costituzionale dell'Europa del XIX secolo non era uno Stato borghese in essenza, ma solo in apparenza.
Non era in questione, quindi, se non nei sogni dei riformisti tra i socialisti come Bernstein e in parte Kautsky, di istituzioni statali capaci di mediare i conflitti di classe, sarebbe stata utopia, poiché prescindeva completamente dalla materialità dello sviluppo capitalistico europeo. La mancanza di una mediazione, di una penetrazione dello Stato nazionale in Europa dentro i meccanismi del capitalismo ha costituito il grande limite del capitalismo in Europa e sarà un'eredità questa di lunga durata, pesante e difficilmente estinguibile.
In Europa, la lotta proletaria e la sua organizzazione trova terreno fecondo, un vero e proprio humus, nella rigidità dell'organizzazione del lavoro, che si impernia sul carattere professionale della produzione, e di converso la borghesia non riesce a trovare spazi per una ristrutturazione produttiva che permetta di distruggere questa potenza organizzativa e questa soggettività nemica. La tendenza, allora, alla dittatura e all'abbandono del costituzionalismo monarchico e del parlamentarismo ristretto diverrà sempre meno sotterranea durante l'ultimo decennio del XIX secolo e nei primi due decenni di questo secolo. La rivoluzione bolscevica del 1917, come fattore esterno, la necessità di trasformare la società in una società di massa, di consumi, gusti e produzione di massa, senza, però, avere la capacità di gestirla in quanto società di massa ma solo di subirla in quanto tale, come fattore interno, hanno catalizzato la tendenza a costituire forme istituzionali dittatoriali, tendenzialmente, ma non sempre, repubblicane.
La tendenza alla dittatura, espressa non nelle forme tradizionali dell'assolutismo monarchico, ma rappresentata, almeno nell'ideologia, come dittatura di massa, espressa attraverso il consenso della maggioranza dei componenti della nazione, come una specie di dittatura democratica privata del contenuto rivoluzionario che aveva durante il governo giacobino, manifesta la necessità da parte di buona parte degli Stati nazionali europei di farsi borghesi organicamente anche a costo dell'arretratezza della borghesia europea, oltrepassandola con un escamotage. In Italia, Germania, Ungheria e Spagna, la borghesia e il capitalismo troverà in questa riedizione reazionaria della dittatura democratica giacobina, in questo suo scimmiottamento, il modo per riuscire ad articolarsi sul sociale, nel mondo dei produttori e, soprattutto, per imporre alla borghesia una disciplina di classe, per imporre alla borghesia un comportamento di classe. In questa arretratezza, va annotato, si produce una paradossale anticipazione, importante ed epocale: per la prima volta in Italia e in Germania, il capitalismo sarà anteposto alla borghesia, il capitalismo precederà la sua classe nell'interesse politico e istituzionale.

4.2.3. La sospensione europea

Lasciate da parte le anticipazioni, lo Stato borghese europeo rimase così, per tutta questa serie di fattori, sospeso a mezz'aria. Rimase incapace di rispettare la sua vocazione assolutistica in senso nuovo, in senso 'americano', e finisce, quasi sempre, per rivalutare il tipico ruolo, storico, dello Stato nazionale aristocratico, come macchina repressiva e giudiziaria, piuttosto che sociale ed economica. Questo ruolo viene incarnato sia rispettando la tradizione istituzionale e la monarchia costituzionale o, a partire dalle nuove tendenze di fine secolo scorso e inizio di questo, immaginando una nuova forma istituzionale capace di esercitare repressione e controllo poliziesco, nuova alla storia: la dittatura civile e laica, la dittatura con le vesti borghesi.
Il quadro del dominio borghese in Europa è pieno di contraddizioni, di sovvertimenti, di nervosismi e di lacerazioni e questo ha fatto spesso, a un'analisi epidermica molto in voga oggi e quasi tradizionale, una maggiore modernità europea, una superiore sensibilità culturale e sociale alla quale farebbe da contrappeso un cinismo monolitico nel capitalismo americano, una banalità assoluta in quella società, la banalità del capitale in America.
Si è spesso immaginato, pensato, l'Europa come una specie di territorio sacro della soggettività operaia, a partire dal proliferare ed estendersi delle organizzazioni del movimento operaio e dall'affermarsi del movimento e dei partiti socialisti in gran parte di quella e si è costruita un'ideologia su di questo, anche e soprattutto a sinistra, della superiorità europea e della maggiore capacità analitica del pensiero europeo. Il famoso anatema di Lenin contro il movimento operaio americano, secondo lui affetto da un infantile estremismo, completava, anche sul fronte rivoluzionario della sinistra europea, questo giudizio, forniva un'insperata convalida a questo pregiudizio, proveniente dal fronte rivoluzionario del movimento socialista. Insomma il pregiudizio era completo e organico, sostanzialmente condiviso e, quindi, vero.
Le cose vanno radicalmente riviste. La grande risonanza storica e politica che le battaglie ideali del proletariato ebbero in Europa, grazie alla formazione dei partiti di massa aderenti alla seconda internazionale socialista, non sono affatto un segno di maturità e forse neppure di arretratezza, quanto di sospensione del conflitto di classe a un  punto morto. Il successo della seconda internazionale e della corrispettiva variante riformista del pensiero di Marx furono determinati non dal grande livello di coscienza raggiunto dai proletari europei, come affermavano Bernstein e Kautsky e in genere i riformisti (ma questa linea di pensiero era tanto profonda da influenzare anche il versante rivoluzionario, soprattutto la Luxemburg, che però usava questo pregiudizio per evidenziare la possibilità dello sviluppo antagonistico del conflitto), ma dall'inadeguatezza dello Stato borghese rispetto allo sviluppo del capitale in Europa. I movimenti operai organizzati riempirono, sotto alcuni aspetti, questo divario. Per dirla con linguaggio odierno, i Socialisti europei incitarono, alla fine del secolo scorso, gli operai a 'farsi Stato'. Inutile dire che, in questo contesto, anche l'idea di 'coscienza di classe' veniva manipolata e mai autenticamente interrogata e analizzata e un'analisi seria e materialista sulla soggettività rimaneva, necessariamente, sconosciuta.
L'arretratezza dello sviluppo capitalistico europeo, arretratezza rispetto all'essenza stessa del capitalismo, arretratezza del capitalismo europeo rispetto al capitalismo in generale, e gli alti livelli di coscienza ideologica e di capacità organizzativi del movimento operaio in Europa erano l'uno funzione dell'altra e, quindi, determinavano un altrettanto apparente maturità della coscienza di classe. L'operaio europeo era arretrato rispetto all'operaio in generale, nella stessa misura del capitalismo europeo.
Il riformismo socialista poteva assumere caratteri di massa in paesi nei quali il suffragio universale non era un prodotto spontaneo del capitalismo e un obiettivo naturale della borghesia, ma diventava, per bocca di Bernstein, Kautsky e dello stesso Engels, un compito nell'agenda del proletariato, secondo una revisione radicale del pensiero comunista di Marx. Che la cosiddetta lotta democratica non fosse un compito del movimento operaio fu chiaro solo a Lenin e molto meno alla Luxemburg, anche questo, quindi, era un pregiudizio generale, assodato e dunque vero, in Europa.
È comunque indubbio che in Europa, il suffragio universale e l'allargamento dei diritti politici e civili fu una conquista ottenuta dal basso e non una tendenza inaugurata dall'alto. La monarchia costituzionale come forma istituzionale prevalente pesava come un macigno sullo sviluppo della forma Stato della borghesia europea.
È comunque molto difficile spiegare come, anche all'interno del movimento operaio più radicale ed evoluto, le esperienze del sindacalismo americano di fine ottocento e dei primi del novecento non trovarono diritti di cittadinanza e furono liquidate come fenomeni e portati di una arretratezza, banalità e cinismo tutto statutinense e la modernità venne, curiosamente e paradossalmente, scambiata per arretratezza.
Scritto tutto questo, in maniera assolutamente critica, sull'esperienza del riformismo e massimalismo socialista europeo dell'inizio di questo secolo, non voglio assolutamente ridurne la portata e l'importanza storica e cioè il grado di indipendenza che comunque ebbe rispetto alla progettazione capitalistica, ma voglio anche ricordare e affermare che il socialismo riformista e massimalista fu la risultante di una complessiva inadeguatezza del capitalismo europeo e del suo stato rispetto alla fase storica che si stava attraversando.

4.3. Alcune riflessioni

4.3.1. La definizione dello Stato in Lenin

Lo Stato borghese che cosa è, quale è la sua intima essenza? È una forma istituzionale che tende ad assolutizzarsi, a slegarsi dalla materialità delle relazioni sociali, a divenire un'astrazione, come espresso da Hegel, e che nasce dalla volontà politica, molto concreta, di estendere le prerogative dello Stato assoluto aristocratico che si sacralizza ininterrottamente, reiteratamente, fino a divenire paradigma della razionalità. Lo Stato borghese si presenta in questa forma anche quando è minima e irrisoria la sua funzione sociale, come è stato agli inizi della sua storia e come pare divenire il suo attuale orizzonte. 
Bisognerà, ovviamente, compiere delle astrazioni su una realtà storica che è estremamente variegata e plurale, ripercorrendo la stessa astrazione ideale che lo Stato borghese ha compiuto nel costituirsi.
Abbiamo la definizione generale dello Stato in Lenin, una definizione illuminante sulla natura dello Stato in quanto tale, in quanto Stato: "Lo Stato è il prodotto e la manifestazione degli antagonismi inconciliabili tra le classi". Va scelta perché è una definizione semplice e chiara che Lenin
in Stato e rivoluzione usa parafrasando Engels.
È l'uovo di Colombo e la scoperta dell'acqua calda. Lo Stato presuppone una società complessa dove esiste una determinata divisione del lavoro, delle classi e della ricchezza, sotto qualunque forma esse si diano. Si sviluppano degli antagonismi, cioè dei rapporti di reciproca distruzione all'interno della società, che nascono dal fatto che la struttura economica è asimmetrica, cioè richiede la ricchezza e il potere degli uni, che si costituiscono in classe dominante, contro la povertà e la subordinazione degli altri che formano la classe subalterna.

4.3.2. Lo Stato, l'antagonismo e le classi sociali

Lo Stato sorge e interviene per limitare e per reprimere gli antagonismi, poiché, però, le cause materiali e oggettive degli antagonismi sono le sue stesse cause di esistenza, lo Stato non fa, in realtà, nulla per eliminarle, cioè per eliminare gli antagonismi e si limita a neutralizzare le manifestazioni dell'antagonismo. Comportandosi così, quando si comporta coscientemente in tal maniera, lo Stato si riconosce come figlio naturale e diretto della divisione della società umana in gruppi asimmetrici, in classi e quindi come alleato necessario della diversificazione e subordinazione sociale. L'uomo di Stato, il burocrate e il militare sono i migliori alleati del proprietario, del nobile o del capitalista non per la loro funzione storica ma in quanto tali. Altrimenti sarebbe impossibile spiegarsi la genesi dello Stato, se si volesse spiegarla con un utilitarismo storico del dominio di una classe su un altra, come espressione lineare di questo dominio: si farebbe fatica a interpretare tanto la genesi dello Stato, quanto la genesi di una classe o gruppo egemone. Lo Stato sorge come gruppo a sé, come gruppo di uomini conciliatori tra le contraddizioni e delle contraddizioni. Nella società tribale, lo Stato e gli appartenenti allo Stato non differenziandosi dalle tribù originarie, dai clan e dai lignaggi, entrano, però, a far parte di un segmento particolare della tribù. Dipende dall'assimetria delle relazioni stabilite, in base alla quale è tutto interesse del gruppo egemone mantenere l'asimmetria e di quello dei subordinati scioglierla, che il gruppo statale e pubblico preferisce il gruppo egemone la cui sopravvivenza significa la sua stessa sopravvivenza.
Gli antagonismi tribali, l'antagonismo tra il contadino e il guerriero, si sviluppano su un terreno di obblighi che il primo ha verso il secondo. Obblighi che si connotano come rapporti di dipendenza personale e giustificano con il ruolo stesso del guerriero, di colui che porta le armi. Il guerriero è colui che combatte, che difende la comunità e ne è il rappresentante militare. Lo Stato, in questa sua prima fase, non fa altro che assumere in sé i caratteri di questa classe militare; la classe militare e lo Stato si identificano per molti aspetti, hanno quasi lo stesso compito. Il guerriero, però, può in gran parte liberarsi del lavoro della terra, mentre in quanto componente dello Stato non esercita questa liberazione, in quanto funzionario dello Stato è solo un portatore di armi. Alla fine, il guerriero, dissociando sempre più l'esercizio delle armi dall'origine autentica della sua preminenza economica, diviene nobile, diviene un lignaggio e lo Stato, come nobile, lo assume alle sue dipendenze, quando esercita la professione delle armi. Lo Stato è adesso il conciliatore perfetto: la produzione agricola è controllata dal proprietario - guerriero ereditario eccedente di terra rispetto al suo bisogno, il nobile, ma la sua eccedenza torna alla comunità sotto forma di protezione militare e di assistenza pubblica, cioè, appunto, sotto forma di Stato.

4.3.3. Lo Stato, oltre l'antagonismo di classe. Qualche idea da Guattarì.

La comunità tribale vive su una terra che è segnata dalla vita dei padri e degli antenati, che è segnata dai lignaggi che la compongono e che si presenta come una federazione di quelli. La terra dei padri è sfruttata proprio per il fatto di essere la terra delle famiglie che compongono la comunità, e la sua produttività è legata alle famiglie. Anche le terre sottoposte alle famiglie preminenti rimangono alle famiglie originarie, sotto una certa forma e proprio in ragione del legame d'obbligo personale tra componenti dei lignaggi e dunque delle famiglie. Tutte le terre sono per un certo grado sottoposte a una non - proprietà, a uno spazio comune, sono un valore collettivo.
Quando, però, l'intensificazione della produzione agricola impose l'espropriazione dei contadini e la distruzione della comunità, della terra intesa come sede della comunità, si sostituì a questa forma di proprietà, che manteneva una componente, un valore, collettivi, una nuova forma di proprietà. In questa nuova forma, il dominio sulla terra era esclusivo del proprietario e la proprietà intesa in senso assolutamente esclusivo. Il proprietario preferisce utilizzare per la conduzione del suo fondo manodopera non remunerata ed estranea, spesso, alla comunità che possedeva la terra, manodopera servile. Si preferisce ridurre in schiavitù il lavoro, piuttosto che retribuirlo. Questo avviene in quanto si intendeva cancellare definitivamente il rapporto con la comunità originaria, ma, paradossalmente, per mantenerlo. La proprietà esclusiva, la proprietà magnatizia e gentilizia romana, si appropriava, in qualche misura, della terra e della comunità, finiva per rappresentarla; il passaggio a forme di lavoro salariato nell'asservimento del lavoro avrebbe, invece, determinato la fine della comunità, la costituzione di una nuova comunità, di una comunità di eguali nell'asservimento. Lo Stato classico non prevede il sovvertimento delle norme della comunità che un rapporto di dominio sociale basato sul lavoro salariato avrebbe determinato; non prevedeva, in poche parole, la sudditanza sociale stabilita col danaro e regolata con il mercato, ma una sudditanza che riprendeva, come in un ombra, il valore collettivo della società tribale. Questa fu la base della grande intelligenza della politica sociale dello Stato romano.
Gli antagonismi inconciliabili che lo Stato della classicità amministrò furono, quindi, tenuti in una specie di semi incoscienza oggettiva, non si cercò, anche se la situazione sociale ed economica lo avrebbe permesso, di farli maturare, di portarli alle conseguenze che presupponevano.
Lo Stato classico, come, dopo di quello, lo Stato medioevale ha cercato di ancorare gli antagonismi a un tessuto di obblighi sociali che trovavano la loro giustificazione sull'uso di una terra comune, che producevano una intelaiatura di legami indiretti, diretti e trasversali con il padrone e sfruttatore effettivo. Quando lo sfruttamento della comunità rischiava di diventare diretto ed egualitario, svincolato da obblighi personalizzati, allora si introduceva lo schiavo, il prigioniero di guerra, lo sradicato e il rovinato dai debiti. Non esisteva un sostrato adeguato a ribaltare questa situazione: non esisteva in sostrato economico basato sul danaro e sul mercato del danaro.

4.3.4. Il capitalismo e lo Stato

Nel periodo caratterizzato dal dominio del capitale e della sua produzione, lo Stato è prodotto anch'esso di antagonismi inconciliabili, ma mentre prima si davano inconciliabili nella sostanza, senza però presentarsi come tali e senza che l'antagonismo divenisse il fondamento stesso dell'economia e il suo motore, ora si propongono come tali anche nell'apparenza, anche in ciò che appare alla superficie della comunità, nell'economia. La comunità perde un valore collettivo e si trasforma in una sommatoria di individualità e, nei fatti, muore; a relazioni di sfruttamento indirette e trasversali subentrano forme dirette, basate sul tempo e non sullo spazio, sul tempo di lavoro e non sullo spazio lavorato, sulla vita degli individui e non su quello che la circonda. Lo strumento di lavoro diventa forma diretta dello sfruttamento espresso, lo strumento di lavoro diventa immediatamente denaro e il denaro misura l'uso dello strumento di lavoro: lo sfruttamento non è estensivo, ma intensivo, La relazione di dominio è diretta, immediata e implacabile: non possono essere mediazioni e non possono esistere elasticità.
Non è un caso che solo adesso si elabori il concetto di classe, proprio in risposta e in consonanza con questo tipo di sfruttamento omogeneo attraverso orario, strumento e fine del lavoro; non è ancora un caso che, proprio adesso, la classe operaia scopra di essere una classe subalterna fondamentale, dopo che da secoli o forse millenni lo era nella sostanza senza poterlo essere anche nell'apparenza, nel fenomeno. La classe operaia, dopo secoli o millenni, si compone, acquisisce una composizione, si raccoglie: si è costituita, insomma, quella che il mondo romano aveva evitato di costituire, una comunità di eguali nell'asservimento. La nuova comunità, che non ha nulla a che fare con le comunità del passato e con i loro valori collettivi, tende autonomamente da qualsiasi valore a organizzarsi in funzione antagonistica. Non c'è mediazione e non c'è elasticità anche da parte delle classi subalterne. Non è più la poetica, comunistica e comunitaria società tribale a sancire e a consolidare lo Stato, confondendo facilmente i suoi elementi tra le sue schiere, non c'è nessuna comunità naturale a generare il collettivo, ma la cinica, scientifica e implacabile legge dell'economia, come legge oggettivizzata del capitale.
Gli antagonismi ora sono inconciliabili anche all'interno del collettivo, dell'economia e della politica, saltano fuori come tali nell'immaginario collettivo, nel progetto economico e nel pensiero politico.

4.3.5. Lo Stato assoluto del capitale

Quale diviene il ruolo dello Stato?
In primo luogo lo Stato non nasce con il capitalismo, non nasce capitalistico, ma è un'eredità storica e questa eredità storica, come scritto in altre parti, ha avuto peso, grande peso. Lo Stato capitalistico o borghese del XIX secolo ha affrontato un problema centrale, quello di accelerare i tempi della sua formazione e maturazione. Si trattò di assestarsi ai livelli dello scontro sociale che il nuovo scenario proponeva. Non è stato un processo facile, naturale e uniforme.
Lo Stato borghese è, però, ovunque riuscito a tenere conto della natura dello scontro in atto che era uno scontro di antagonismi puri. Come tali richiedevano l'insorgenza di uno Stato a carattere puro, di una quintessenza dello Stato. Lo Stato borghese lo è. Esso riassume in sé tutte le caratteristiche delle forme statuali che lo hanno preceduto nella stessa misura in cui gli antagonismi di classe che pretende di mediare riassumono, in forma nuova e chimicamente pura, gli antagonismi di classe che hanno percorso le epoche passate.
L'antagonismo attuale è la quintessenza della ribellione a millenni di sfruttamento. Lo Stato borghese è costretto a scendere su un terreno vivo, spesso in prima persona e in quanto Stato, quello della produzione e dell'accumulazione di ricchezza sociale. È questa una strada obbligata, se vuole esprimere un dominio che sia un dominio di classe adeguato alle classi che si affrontano. Lo Stato borghese entra direttamente nel contrasto, ma non come presenza burocratica e militare, come fatto esterno al conflitto che interviene per risolverlo (come avveniva nel passato), ma come momento dell'antagonismo, parte integrante di quello, interviene sul mercato e sulla produzione e interviene come parte della classe egemone, come parte della classe dei capitalisti. Lo Stato capitalistico è anche un capitalista e l'apparato dello Stato un'impresa produttiva.
Questo significa che lo Stato borghese, se vuole veramente diventare uno Stato borghese, deve, paradossalmente, perdere la caratteristica borghese, per diventare lo Stato del capitale, di una classe sociale data in forma astratta, nella sua astrazione economica. Lo Stato diviene protagonista diretto della produzione e riproduzione del capitale, crea e sanziona direttamente le condizioni dell'accumulazione del capitale e fa in modo che essa possa verificarsi. Lo Stato borghese crea le condizioni e gli scenari adeguati alla formazione, conservazione e riproduzione del capitale, entra, dunque, nel mondo economico ed entra anche in quello sociale, nel controllo della vita, delle passioni e delle emozioni degli individui: lo Stato borghese entra in politica.
La contestazione proletaria, a causa dell'uniformità dei meccanismi di sfruttamento, dell'astrattezza della produzione, tende, fin dal suo nascere, a farsi generale, a divenire politica a mettere in discussione i meccanismi uniformi di generazione del reddito e di strutturazione del mercato; lo Stato del capitale percorre la stessa strada, in senso inverso.
Al contrario delle formazioni statali del passato lo Stato borghese tende a intervenire su ogni settore della società per sancire, sanzionare e permettere la riproduzione del capitale.
Questa articolazione dello Stato borghese nel capitalismo, questo suo farsi astratto e sociale, non si verificò fin da subito ma l'esperienza dello Stato assoluto aristocratico forniva alla borghesia un'intelaiatura burocratica e un'ideologia statalista che era facile sviluppare nel senso e nella direzione di un nuovo assolutismo e di una nuova astrazione, un'astrazione sociale ed economica.
Questo processo rivela la necessità, per certi aspetti drammatica, che la borghesia sente di dominare la società tout court, come una totalità, e senza mediazioni.
Il pensiero politico borghese intorno allo Stato e al suo ruolo fu sviluppato solo negli anni venti, cioè dopo un secolo abbondante dall'effettiva conquista borghese del potere politico, ma già nelle esperienze americane di fine '800 e, più in generale, nell'esperienza di trust e holding, in quella sorta di corporazioni e sindacati di difesa e valorizzazione capitalistiche, si era sviluppata una pratica, ancora embrionale, di dominio assoluto sulla società. Il dominio assoluto è implicito nel capitale come forma economica, come rapporto di produzione, lo richiede e fin da subito, è, insomma, un tratto genetico del capitalismo e della sua società. Solo, però, lo Stato capitalista maturo, lo Stato capitalista attuale, trasforma sé stesso in uno strumento di dominio dell'economia in forme politiche.

4.4. Il contratto di lavoro e le illusioni di fine '800

Lo stato capitalistico fonda la sua origine su antagonismi che sono manifestamente alla storia inconciliabili e nei quali lo spazio delle norme, degli obblighi e i codici del dominio dei comportamenti sociali sono ridotti all'osso, sono scarnificati. L'assiomatica sostituisce la normatività.
In questo contesto l'apparato repressivo si sviluppa e raggiunge ampiezze, valori e diffusione mai raggiunti nelle epoche precedenti. L'apparato poliziesco sorpassa di gran lunga per complessità e articolazione quello militare e parimenti l'apparato giudiziario si estende, in maniera abnorme, divenendo quasi uno Stato nello Stato di decine di migliaia di funzionari, e il potere giuridico si dota di una normativa immensa, capace di contemplare tutti i casi nei quali la proprietà possa essere colpita e questi casi, per il movimento che sta sotto il capitalismo, sono infiniti.
Proprio perché il denaro non è un valore concreto, ancorabile a un codice e a norme, ma è un valore astratto, spiegabile con un assioma, esso scorre rapido in tutte le direzioni; il denaro è esso stesso un flusso, ma per essere un flusso deve istituirsi una normativa sociale e storica che ne difenda la proprietà e gli assiomi della sua circolazione. Il danaro, che lavora per assioma, deve essere difeso, perché questo suo lavoro si realizzi, da norme e codici; il denaro, per certi versi, entra in contraddizione con sé, perché di per sé sarebbe libero e non comporterebbe in quanto tale l'istituzione di un potere sociale. Il denaro è più una potenza sociale che un potere sociale.
La genesi di un apparato repressivo e giudiziario articolato e omogeneo, cioè socialmente diffuso, però, risponde proprio alle caratteristiche sociali del denaro e alla sua vulnerabilità sociale; non è affatto un caso che omogeneità e articolatezza del diritto siano essenziali fin da subito nei rapporti di dominio capitalistici.
Abbiamo, però, veduto che già nell'800 la repressione non basta e di fronte all'antagonismo inconciliabile di parte operaia rischia di divenire un'ambivalenza, un'arma a doppio taglio; alla lunga porta alla cronicizzazione del conflitto sociale in forme acute e pericolose, alla separazione sociale e produttiva, alla forma di uno strisciante contro - stato e contro - potere. Il capitalismo stesso, allora, ha sondato il terreno della regolazione sociale e politica del conflitto. Le Holding e i trusts, pur non rappresentando un salto decisivo verso l'innalzamento della composizione di capitale, sono un primo esperimento, posto ancora al di fuori dello Stato e limitato alla sfera produttiva, per regolare la produzione capitalistica e razionalizzarla. All'interno di questo nuovo contesto di capitale concentrato, dietro questa organizzazione sindacale degli imprenditori e della produzione, si affrontano in maniera nuova i conflitti di classe, o meglio si cerca di raggiungere questo risultato. L'enorme aumento dello spazio di contrattazione nelle fabbriche ottenuto dalle organizzazioni operaie nella seconda metà del XIX secolo è in buona parte il prodotto di questo nuovo contesto.
Negli Stati Uniti si giunse addirittura all'istituzione di un comitato congiunto di organizzazioni operaie e padronali che aveva lo scopo di pianificare il conflitto di classe, di prevederlo per evitarlo. Ovunque, in ogni caso, di qua e di là dell'oceano Atlantico inizia a farsi strada un concetto nuovo, il 'contratto di lavoro'. Contrariamente alle apparenze e contrariamente a molte illusioni nel movimento operaio in proposito, il contratto di lavoro, nonostante le resistenze inevitabili che incontrò nell'ideologia degli imprenditori secondo le quali era un vera anticipazione del socialismo, è una grande conquista del capitalismo: il contratto di lavoro fissava e determinava le condizioni del conflitto e se non riusciva ad eliminarle, le annullava per alcuni periodi di tempo. Nel contratto di lavoro erano cristallizzati i bisogni operai secondo una certa data, mentre lo sviluppo del capitale continuava indipendente.
Il contratto di lavoro ha le sue ambivalenze e quindi anche l'opposizione ideologica di molti settori della borghesia ottocentesca a quelli ha le sue giustificazioni: dietro l'idea del contratto c'era un elemento strategico anche per il pensiero e la soggettività operaia, c'era il riconoscimento del fatto che le condizioni della produzione, le condizioni della crescita del capitale, erano vincolate a qualcosa di esterno a quelle, a un limite tangibile e preciso, la classe operaia.
Tatticamente e strategicamente il contratto di lavoro può essere considerato una vittoria del capitale, una costrizione dell'antagonismo operaio dentro le esigenze generali della produzione di fabbrica; questa costrizione, però, richiede il pagamento di un dazio pesante: il riconoscimento ufficiale e legale dell'esistenza di un conflitto sociale permanente, la necessità di affrontarlo come elemento strutturale, costante e fondativo. Insomma comparve chiaro, anche se disegnato con la matita delle esigenze padronali, il limite dello sviluppo.
Questo limite non è analogo ai limiti sociali affrontati dalle società anteriori, perché per la prima volta la produzione della ricchezza sociale si rivela come fatto di massa e nella quale è tendenzialmente coinvolta, in forme omogenee, la maggioranza della popolazione. Le ricette antiche e classiche sono insufficienti, perché non basta più la battaglia sul terreno della produzione, la battaglia nel luogo di lavoro, nella fabbrica, per dire risolto il conflitto. La lotta economica, il controllo attraverso l'economia del conflitto, appaiono più espedienti che non soluzioni durature. Nel contratto di lavoro, i capitalisti si manifestano consapevoli del fatto che per loro è necessario fare cartello, darsi un'omogeneità comportamentale sul terreno economico, e in questa maniera riconoscono il fatto che l'economia non può risolvere da sola il problema in quanto, per rimanere economia capitalistica, l'economia deve farsi politica, deve produrre composizione ed unione tra i capitalisti. Si riconosce, implicitamente e, per così dire, storicamente (davanti alla storia) che il problema economico è politico e che il limite del capitale non è un limite economico, come era stato, invece, il borghese per il feudale, ma politico e cioè che l'antagonismo operaio è un limite politico allo sviluppo del capitalismo.
Il  capitalismo, che è il trionfo dell'economia intesa come scienza, deve ammettere che l'economia non basta a spiegare e giustificare il suo stesso sviluppo e la sua stessa genesi; la borghesia aveva abbattuto i regimi feudali in nome del mercato, della libera circolazione delle merci e della manodopera e della libera produzione dei beni, aveva suscitato le rivoluzioni del XVII e XVIII secolo in nome di una economia naturale e connaturata all'uomo; di questa economia 'naturale' aveva fatto il suo manifesto politico, pensando ottimisticamente e in probabile assoluta buona fede, che la sua rivoluzione sarebbe stata la rivoluzione definitiva e la sua politica l'ultima politica. Alle fine dell'800 la borghesia visse profondamente la contraddizione della contingenza evidente della sua politica e della sua ideologia e si rese consapevole del fatto che la politica non era affatto finita, anzi, per certi versi diventava fondante i rapporti sociali.
Ma esisteva una seconda contraddizione, una contraddizione nella contraddizione, lo Stato dei monopoli non era attrezzato per istituire una mediazione politica generale al conflitto, era incapace di andare oltre al cartello, all'unione su basi economiche, delle forze produttive.
La composizione del capitale era bassa e il ruolo del lavoro operaio, della professionalità della manodopera nel processo produttivo, alto e determinante: i modi di produzione dipendevano dalla qualità del lavoro operaio, dal suo mestiere. La produzione industriale era dunque vulnerabile poiché vincolata nel suo svolgersi e operare a una componente esterna, la professionalità dell'operaio di mestiere. La borghesia europea è incapace di avviare processi di ristrutturazione, negli Stati Uniti si è riluttanti nel farlo; questi processi dovrebbero puntare a una dequalificazione del lavoro operaio e a una qualificazione della componente meccanica nel lavoro produttivo. Sarebbe necessario un salto di qualità nella composizione di capitale che avrebbe come presupposto un nuovo livello di collaborazione tra le forze produttive e tra le imprese, non più cartelli o comitati, ma un coordinamento nuovo, inevitabilmente politico, inevitabilmente disteso sul corpo della società e non solo su quello produttivo.
Il pensiero dell'epoca, comunque, nutriva la convinzione che fosse maturata una sorta di regolazione autonoma e naturale, di carattere esclusivamente economico, del mercato e del capitalismo; il capitalismo di fine '800 diede l'impressione, a sè medesimo e agli altri, di essere giunto a completa maturità e perfezione. Alcune frazioni socialiste condivisero questa illusione: la creazione di cartelli finanziari, la centralità del sistema creditizio, la possibilità di amministrare strategie di medio periodo e di grande ampiezza geografica sugli investimenti testimoniavano la possibilità di regolazione autonoma del capitalismo, la capacità del sistema di riformarsi e di governare il ciclo storico di crisi economiche e sviluppo economico.
La concentrazione dei capitali era cresciuta in maniera esponenziale e il sistema statale, sebbene tra contraddizioni laceranti e spesso violente, era giunto al sistema parlamentare e al suffragio universale maschile in quasi tutta Europa e negli Stati Uniti. Il mercato, inoltre, si espandeva senza incontrare limiti concreti e infinite comparivano le risorse da rapinare dai paesi esclusi dallo sviluppo, infiniti i capitali da far fruttare e riprodurre e infinita la manodopera da sfruttare in Africa e in Asia. Il capitalismo si sentiva giovane e adulto.
Il capitalismo, in effetti, era giovane e adulto; per quelli che erano stati i suoi presupposti ottocenteschi, il capitalismo era davvero giunto a maturità e sotto un certo punto di vista aveva autenticamente raggiunto la capacità di regolarsi autonomamente, di autodeterminarsi. Nella dimensione della contingenza ottocentesca questa armonia era vera, ma nella dimensione generale la regolazione e il controllo dell'economia erano, invece, una concretissima illusione: il capitalismo non era affatto pronto per il suo futuro.

5. I primi del '900

5.1. Cannoniere e investimenti pubblici.

5.1.1. Apparato militare e capitalismo monopolistico

Mentre il capitale monopolistico, i trust e le holding, marciava alla conquista del mondo e si aprivano nuove frontiere alla penetrazione dei nuovi rapporti di produzione, e mentre questa penetrazione si prefigura capace addirittura di eliminare le frontiere e di colonizzare il mondo intero, la crisi si presentava ciclica e acuta. La crisi economica andò avanti dal 1873 al 1895, quasi senza soluzione di continuità, e in quella crisi, meglio dire grazie a quella crisi, si forgiarono e presero corpo i monopoli economici e produttivi; nel primo decennio del XX secolo si verificarono altre due crisi economiche, di breve durata ma di forte intensità.
La perfetta struttura capitalistica, di fronte alla crisi, si angoscia e viene dominata dall'ansia. Il capitalismo, sistema del dominio assoluto dell'economia e dell'autonomia dell'economia dalla politica, non può fare a meno di voltarsi indietro verso le esperienze del vicino passato, verso lo Stato assoluto aristocratico, verso il suo personalissimo interventismo sulla società e l'economia. È una dichiarazione di debolezza, è la denuncia di un'illusione mal riposta.
Il capitalismo aveva creduto di poter usare lo Stato solo per la sua strumentazione poliziesca, militare e giudiziaria, solo in quanto istituzione armata legalmente, ci si accorge che non è possibile limitare in quella maniera il ruolo del potere pubblico. La richiesta dei primi del novecento rimane sui binari della strumentalità ma esce dal passo della strumentalità stretta: il capitalismo chiede allo Stato di difendere il suo sviluppo non come si difende l'involucro, ma come si difende il contenuto, l'essenza. La richiesta agli Stati si giocò su due fronti: quello estero e quello interno.
All'estero si pretende che lo Stato sancisca, anche militarmente, gli interessi delle grandi concentrazioni monopolistiche a carattere nazionale: fu la politica delle cannoniere. Gli interventi francesi in Marocco, quelli tedeschi in Africa orientale, gli Italiani in Libia e gli Stati Uniti a Cuba fecero parte integrante di questa politica. I grandi colossi delle industrie nazionali, scoprendo il doppio interesse dell'apparato militare (da un punto di vista economico e produttivo e dal punto di vista degli scopi politici), decisero di recintare aree geografiche dove esprimere la loro influenza, ove collocare investimenti e dove far prevalere la propria organizzazione finanziaria.
Il settore carbonifero e quello siderurgico hanno rappresentato la pietra angolare dello sviluppo del capitale monopolistico e, insieme con quello, anche il comparto della produzione bellica diviene, quasi per gemellaggio, un settore dove le tendenze ad organizzare la produzione, a organizzarla in filiera e a concentrare la proprietà diventano egemoni. I grandi monopoli avevano bisogno anche dei cannoni per affermarsi e l'alleanza e sinergia con la produzione di bocche da fuoco fu naturale, oltre che redditizia. Nel caso dell'Italia di Giolitti, per esempio ed emblematicamente, lo Stato interviene a favore della creazione di una holding  siderurgica, la ILVA, che ha innegabilmente ricadute sulla produzione bellica. Non è affatto casuale che l'Italia giolittiana mentre favorisce alcune grandi concentrazioni produttive, occupi la Libia, intervenga nell'Egeo e si interessi ai Balcani.

5.1.2. L'embrione dell'intervento statale in economia

Lo Stato ottocentesco aveva subito l'attrazione e le direttive del capitale in maniera indiretta; lo Stato si era limitato a difendere gli interessi della borghesia nella produzione ovunque venissero messi in discussione, ovunque si sviluppassero comportamenti criminali contro la proprietà dei mezzi di produzione e contro l'accumulazione del denaro e della ricchezza sociale, contro la privatizzazione delle risorse collettive; lo Stato si prodigava a porre in esecuzione normative sociali che permettessero il consolidamento e l'espansione della nuova economia e del nuovo mercato del lavoro. Ora, ai primi del novecento, il quadro non muta nella qualità, ma per la quantità: l'intervento statale sulla produzione rimane indiretto e si limita a incentivarla con alcuni investimenti e prestiti, ed è il singolo capitalista che domina il quadro, che chiede ed ottiene dallo Stato, è il capitalista monopolista, quello più forte e influente, che impone allo Stato l'intervento.
Sono necessarie due precisazioni: la sfera di intervento dello Stato rimane ancorata e limitata al mondo della produzione e la forma di intervento resta quella indiretta. Il problema del quadro globale dei rapporti di produzione non viene affatto percepito; il dominio del sistema complessivo, delle condizioni della sua riproduzione e del suo sviluppo, non viene considerato un problema generale della società, e neppure un compito del potere pubblico, poichè, secondo l'illusione ottocentesca, si risolve da sé e non è un problema: sarà l'economia, nella sua autosufficienza, naturalità ed autonomia, a risolverlo. Il problema dello sviluppo non è un problema politico perché la politica ha già risolto il problema scegliendo l'economia.
Le iniziative dello Stato sull'economia, quindi, sono svolte in maniera non unitaria, non organica, e a diversi livelli, per espedienti contingenti; ci sono iniziative finanziarie, manovre bancarie, prestiti, sconti monetari e ci sono anche iniziative di carattere politico, come la emanazioni di legislazioni e di leggi, oppure l'istituzione di lodi arbitrali per la soluzione dei conflitti sociali o per la gestione dei contratti di lavoro, ma non esiste un intervento sociale dello Stato. Lo Stato non affronta i problemi sociali secondo i loro caratteri politici profondi, secondo la loro multiforme esposizione, secondo quanto lo stesso capitalismo propone con l'omogeneità della produzione e del mercato del lavoro e delle merci. Lo Stato si ritrae dall'astrattezza e socialità dei rapporti sociali e abdica alla loro amministrazione, mentre il capitalista ritiene assolutamente dovuta questa abdicazione e necessaria alla conservazione della sua libertà e, politicamente, alle libertà generali e diritti individuali. Lo Stato, in definitiva, non scende al livello concreto dei problemi della società.
Non che il capitalismo non patisse l'angoscia del limite esterno al suo sviluppo, anzi la concentrazione monopolistica, oltre che una risposta alla lunga crisi di fine ottocento, è anche una replica all'aggressività organizzata della classe operaia e alla centralità del lavoro vivo nella produzione di fabbrica. Il capitale, però, si trovava in una fase espansiva e giovanile e in generale ottimistica: la posta in gioco erano le risorse potenziali (in manodopera e materie inanimate) dell'intero pianeta e  gran parte del pianeta non era ancora capitalistico. Se esiste un limite interno, una frontiera interna, abbattiamo le frontiere esterne e allarghiamo i limiti esterni.
Gli Stati imperialisti, che si sviluppano adesso, hanno interiorizzato questa secca contraddizione. La foga della conquista e del saccheggio dei mercati vergini, dei nuovi mercati, nasce anche dalle difficoltà incontrate nel governare il lavoro operaio in patria, nel restringere il salario relativo nelle fabbriche e nella difficoltà nell'arrestare il declino del saggio di profitto da produzione. Lo Stato imperialista trasferisce all'esterno i problemi economici interni alle sue frontiere; lo Stato imperialista costitutivamente non li affronta.
La costituzione imperialista dello Stato dei primi del novecento non richiede l'intervento sulla società e l'organizzazione di un relativo e conseguente progetto politico. L'incredibile successo e proliferazione tra gli anni novanta del secolo scorso e i primi vent'anni di questo secolo del pensiero e delle ideologie nazionaliste è sintomatico del transfert imperialistico.


5.1.3. Verso una nuova composizione di capitale e del lavoro

Anche negli Stati Uniti si verificano gli stessi processi europei ed emergono le medesime aporie e difficoltà nello sviluppo capitalistico, ma in forme diverse. In America, grazie alla grande disponibilità di manodopera, fu possibile avviare una parziale ristrutturazione dell'apparato di produzione e alcuni elementi della composizione di capitale mutarono. In alcuni settori industriale (soprattutto i settori orientati verso la produzione di beni di consumo, tessile e manifatturiero) il lavoro dequalificato, privo di componenti specifiche di mestiere, tendeva a divenire centrale, mentre quello specializzato veniva allontanato dal centro della produzione, andando ad assumere un ruolo di controllo sul lavoro dei dequalificati.  Inoltre, proprio i settori dove si introduceva questa novità nei modi di produzione acquisivano, molto gradualmente, una posizione centrale rispetto agli altri settori produttivi: la produzione di beni di consumo, in America, principiava a essere prevalente sulla produzione di materie prime, materiali grezzi, lavorati e mezzi di produzione. Al contrario, in Europa, la produzione rivolta alla produzione e non al consumo di beni rimaneva centrale nella composizione organica del capitale.
Non che negli Stati Uniti, tra gli anni novanta e i dieci, si sia determinata già una nuova costituzione di capitale e una nuova composizione nella classe operaia, ma la tendenza era ben individuata: la dequalificazione ulteriore del lavoro e la perdita del valore del mestiere operaio, della sua professionalità, si faceva strada. Questa nuova via, però, non si associava con un salto di qualità nel macchinismo, con una aumento del peso del lavoro morto su quello vivo, del lavoro delle macchine su quello operaio. È il valore della produzione a bassa qualifica, la sua importanza, a crescere e non il sistema delle macchine: all'interno del sistema economico statunitense i prodotti delle fabbriche che richiedono un minor contenuto professionale assumono maggior peso quantitativo, anche se non impongono un salto qualitativo nei modi di produzione e nelle relazione tra lavoro e macchine.
Questo determina in USA un ibrido produttivo, una situazione di stallo tra lavoro operaio professionale e dequalificato, che se all'inizio divide la classe operaia, semplificando il controllo padronale, alla lunga provoca una pericolosa combine: i nuovi operai, che svolgono mansioni umili, basse e prive di mestiere, uniscono il loro disinteresse verso quel genere di lavoro con il tradizionale antagonismo e opposizione dell'operaio tradizionale e professionalizzato e con l'eredità organizzativa di quello.
Parimenti gli Stati Uniti, nonostante i comitati federali per la contrattazione sindacale (N.C.F.) e l'indebolimento oggettivo e soggettivo delle posizioni dell'operaio di mestiere, furono percorsi, tra 1895 e 1920, da un ciclo impressionante e quasi ininterrotto di lotte operaie che assunsero, in alcuni casi (Seattle), carattere insurrezionale. La borghesia americana toccò il limite al suo sviluppo con più fisicità e immediatezza che non la coeva compagna di classe europea.
Lo Stato imperialista statunitense, però, poteva guardare al mondo con occhi diversi rispetto a quelli europei, perché gli Stati Uniti erano in gran parte un territorio da colonizzare, vergine capitalisticamente e ricco di manodopera immigrata. Gli Stati Uniti possedevano un retroterra per il loro imperialismo che era sconosciuto all'Europa.

5.2. Stato imperialista e antagonismo

5.2.1. Lo Stato assoluto della borghesia e la dialettica

Abbiamo scritto dello Stato, ma è necessario ora aprire una parentesi sulle lotte operaie che si svilupparono in quegli anni.
Perché necessario? Perché la storia dello Stato imperialista, dell'espressione epocale del capitalismo monopolistico, e lo Stato imperialista stesso furono segnati e determinati dall'antagonismo operaio, dai conflitti di classe e dai bisogni che la fase e quella composizione di classe espressero.
Non è certo vero che lo Stato si modella sull'antagonismo, che è un semplice negativo del contro - potere proletario, poiché, se questo fosse vero, non si potrebbe parlare di Stato borghese ma di un semplice 'sindacato', di un'organizzazione 'sociale' della borghesia. Lo Stato, invece, è l'organizzazione di tutta la società, che ai tempi del dominio economico e politico della borghesia ha il compito di organizzare e controllare  la società in maniera funzionale alla realizzazione ed esecuzione degli interessi della borghesia.
Lo Stato, dunque, agisce come organizzazione della classe borghese solo a un determinato livello della politica, dell'economia e della società, a quel livello che è interessante e investe l'intera società e tutte le altre classi sociali. Sono abbastanza critico verso una parte del marxismo contemporaneo che tende a semplificare, in modo sostanzialmente rozzo sebbene stilisticamente ineccepibile, gli antagonismo in antitesi secche e implacabile, metafisiche e trascendentali. L'evoluzione della forma dello Stato è, invece, leggibile e comprensibile solo in termini dialettici, di compenetrazione e contaminazione reciproca.
Lo Stato borghese, in quanto organizza gli interessi della borghesia sulla società, lancia e veicola messaggi concreti e precisi che provocano concrete e precise risposte e reazioni da parte della società intera. Vediamo dunque questi meccanismi, vediamo le lotte operaie, dopo tanto parlare di Stato.
Potrebbe sembrare un controsenso e una virata di boa, concentrare l'attenzione sulle agitazioni proletarie di quegli anni. Come in buona misura, però, le jacquerie contadine determinarono, con la loro ricchezza, complessità ed estensione, contromisure ideologiche, ecclesiastiche e strutturali nella forma Stato del XIV - XVII secolo, cioè nello Stato assoluto aristocratico, così le lotte operaie e gli antagonismi espressi in Europa e negli Stati Uniti negli anni precedenti e contemporanei alla Grande guerra esercitarono un ruolo fondamentale in tal senso.
Quelle lotte e quegli antagonismi aiutano a capire lo Stato assoluto borghese che generò quella guerra e le dinamiche sociali che lo portarono a quella scelta.

5.2.2. L'anticipazione proletaria e le cause della guerra imperialista

Non è, però, un facile compito quello di comprendere e inquadrare lo sviluppo dello Stato assoluto borghese a partire da un sostanziale esterno all'organizzazione economica capitalistica. L'antagonismo, quando il capitale si è pienamente sviluppato, si esprime con grandi molteplicità di forme, mai in maniera univoca, e spesso si intreccia con lo sviluppo produttivo, come risposta, e altrettanto spesso lo determina; si creano delle relazioni indistricabili tra i due poli, fino al punto che, sotto un certo punto di vista, è difficile riconoscerli come poli.
Lo sviluppo capitalistico, come quello di ogni altro formazione sociale precedente, è stato diseguale, disarmonico e spesso squilibrato; le condizioni storiche che lo hanno accolto sono state diverse da nazione a nazione. Analogamente, l'organizzazione del lavoro, gli strumenti ideologici usati per la mediazione dello scontro sociale e i rapporti sociali in genere cambiano da luogo a luogo.
Se non è individuabile un piano armonico nello sviluppo e una legge generale per quello che preveda velocità e tempi calcolabili e strutture e istituzioni predeterminabili, esiste, però, un nesso preciso, una ciclicità tra sviluppo delle forze produttive capitalistiche e lotte operaie. Questa ciclicità si è sempre rivelata, in forme per l'appunto diverse, in ogni paese, luogo o nazione interessati dalla sviluppo del capitale e della borghesia. Questa ciclicità rivela, quindi, il carattere internazionale del sistema economico e produttivo capitalistico, carattere genetico e primordiale, presente fin dall'epoca della manifattura settecentesca. Proprio la differenziazione nazionale dei rapporti sociali di capitale, in presenza di un sistema che corre naturalmente e per genetica verso l'internazionalizzazione, fu una delle principali cause strutturali della prima guerra mondiale e su queste diversità e squilibri intervenne con prepotenza il ciclo delle lotte proletarie e in parte determinò l'approfondimento di differenze e disarmonie.
Precisamente come il capitale manteneva una struttura localizzata, ma tendeva ad assumerne una internazionale, così, nonostante esistessero particolari composizioni materiali e politiche proletarie, tutte quelle possono essere riassunte, in maniera sintetica e a posteriori, in una composizione politica internazionale capace di mettere all'opera cicli di lotta internazionali che interessavano il sistema del capitale nel suo complesso. Capitalismo e antagonismo operaio, ancora di più, se messi a confronto generavano un paradosso pericolosissimo per il capitalismo: la struttura del capitale era internazionale ma non riusciva ad esprimersi che in forme nazionali, parimenti i cicli delle lotte operaie erano di carattere internazionale e spesso riuscivano a divenire programmi di lotta internazionale o addirittura lotte internazionali. In questi anni (grossomodo il periodo 1890 - 1920) i proletari, a livello mondiale, dimostrarono una capacità di anticipazione rispetto alla costituzione di capitale e per converso rispetto alla loro stessa composizione materiale di classe.
La guerra imperialista si può spiegare anche a partire dalla globalità geografica con la quale si esprimeva: i movimenti proletari erano giunti prima a immaginare un sistema economico mondiale, prima del capitalismo stesso che lo aveva, invece, concretamente costruito. La psicosi della Rivoluzione d'ottobre mise in carne, a livello dei media di allora, questo sorpasso e cioè il fatto che il movimento del valore d'uso era in grado di costruire una società di massa proiettata a livello mondiale, contrariamente al movimento del valore di scambio, contrariamente all'organizzazione sociale capitalistica.

5.2.3. Cicli internazionali di lotta e la grande paura del capitalismo mondiale

Due cicli internazionali di agitazioni operaie, una specie di migrazione transnazionale delle lotte, si verificarono nel 1905 e poi negli anni 1911 - 1912. Al centro di quelli era sia l'operaio appena immigrato e a basso contenuto professione (semi dequalificato) statunitense, sia gli operai specializzati del settore metallurgico europeo, sia i minatori tedeschi (che quanto a specializzazione ne conoscevano ben poca), sia i braccianti agricoli italiani e sia, infine, i giornalieri impiegati nell'agricoltura americana. L'ondata di lotte interessò ogni settori del lavoro salariato, mettendo in luce una globalità dello sfruttamento rispetto alla quale lo stesso padronato era impreparato tanto in termini politici quanto sociali.
Da una parte gli scioperi italiani del 1904 - 1905, insieme con l'insurrezione di Pietroburgo del 1905, manifestarono una grande capacità di ricomporre politicamente la classe operaia, al di là delle divisioni e diversità nella composizione materiale e delle mansioni. Da un'altra parte, la lotta dei proletari tedeschi, che prende avvio dal settore dell'estrazione del carbone nel 1903, si estende e nel 1905 coinvolge il settore metallurgico, il settore, cioè, trainante dell'economia, dimostra l'esistenza di un motore, di un volano, nelle lotte, di una circolazione spontanea (o anche mediata dalle organizzazioni socialiste della seconda internazionale) ma strategica, capace di una strategia generale.
Questi processi di ricomposizione e solidarietà impattarono fortemente sul capitale europeo che non era preparato ad affrontare lo sviluppo internazionale delle agitazioni.
Uno degli elementi nuovi, anticipatori e disorientanti. di questi cicli di lotta, elemento comune a tutte, e che ebbe maggiore dirompenza sugli assetti del dominio economico e politico furono la socialità e politicità immediata delle lotte. Questo elemento, soprattutto in Europa, contribuì a costruire uno scenario prerivoluzionario.
Segno potentissimo venne offerto dall'esperienza russa del 1905, dallo sciopero generale politico di Pietroburgo di operai, soldati della marina zarista e dalle agitazioni radicali nelle campagne dei contadini senza terra. Queste vie diversissime, bisogni in iniziale e apparente indipendenza, questi mondi proletari paralleli, trovarono congiunzione nell'istituzione del Soviet che si presentava come una vera istituzione di potere antagonista, dopo quella comunarda del 1871. L'Italia non fu da meno e nel 1904 si giunse anche qui a uno sciopero generale politico, contemporaneo e parallelo ai movimenti degli edili, dei metallurgici e dei braccianti agricoli. Infine i grandi scioperi cittadini in Francia.
Al di là delle singole rivendicazioni (quasi tutte incentrate sulla riduzione della giornata lavorativa, sui diritti di organizzazione e aumento delle retribuzioni), quello che lega queste lotte, determinandone il ciclo, è l'immediata politicità; le agitazioni, indipendentemente dalla partecipazione e promozione delle organizzazioni politiche ufficiali del proletariato, si traducevano in e disegnavano, nel loro stesso svolgersi e nel loro stesso muoversi, un antagonismo radicale, articolato e una solidarietà che prefigurava, oltre all'interpretazione ideologica dei partiti socialisti, una nuova società. Le unioni di intenti, le simpatie tra lavoratori di diversi comparti industriali e dell'agricoltura, tra muratori e minatori, tra soldati e operai metalmeccanici erano semplicemente impensabili qualche decennio prima; ora al contrario emergevano come carattere fondante, costituivo, delle agitazioni.

5.2.4. Globalità proletaria e localismo borghese

Quello che veramente spaventò e intimorì, e che esplose in forma psicotica di fronte alla rivoluzione del 1917 e alle agitazioni rivoluzionarie in Germania, Austria, Ungheria (1918) e Italia (1919 - 1920), fu il fatto che gran parte di quelle agitazioni investivano, per la prima volta, tutto il vissuto proletario e che, dunque, l'antagonismo si esprimeva contro tutta l'organizzazione sociale borghese, contro la produzione del capitale come contro la sua riproduzione.Le città venivano invase dagli scioperanti, che non fermavano solo la fabbrica o il cantiere ma anche la circolazione urbana; il corteo, la manifestazione straripante, bloccante, divenne il modo di apparire e e di agire delle lotte e delle agitazioni: i corpi degli operai invadevano il centro e lo fermavano. Ma ancora di più e in più posti, accanto agli scioperanti si mobilitavano mogli, figlie e figli e così le città erano invase anche ad altri segmenti sociali, casalinghe, studenti, spesso insegnanti scolastici.Con le dovute differenze di intensità tra Europa e Stati Uniti, diversità eloquente.Nel vecchio continente, le solidarietà e unioni affondano le loro radici meno in una spontaneità di comportamenti sociali che affondano nella materialità dei bisogni generali, che in una grande coscienza politica che dall'operaio di mestiere, sindacalizzato e ideologizzato dentro i partiti della seconda internazionale, la quale si diffonde agli altri strati sociali. Non è il caso di scrivere che negli Stati Uniti era tutt'altra cosa, sarebbe esagerato, ma certamente le coordinate sono diverse.
Nel 1909 a Mac Kee Rock, scioperarono gli operai, uniti alle donne che lavoravano in casa e i bambini abbandonarono le scuole, partecipando alle manifestazioni, agli scioperi e ai picchettaggi. Si praticò lo sciopero degli affitti e si boicottarono i servizi pubblici. A livello formale la lotta si esprime come in Europa quattro anni prima, una solidarietà tra diverse figure proletarie, e la lotta del 1909, in effetti, dà il via a un nuovo ciclo di lotte operaie che raggiungeranno anche il vecchio continente; per la prima volta, però, l'antagonismo si espresse effettivamente, seguendo quasi l'esempio della comiune di Parigi o del Soviet di Pietroburgo, sul terreno della vita sociale senza, e questa la peculiarità americana, senza alcuna seria e pesante intermediazione e interpretazione ideologica. La piattaforma socialista era una piattaforma oggettiva, data dall'oggettività dei desideri e dei bisogni, non era un elaborato ideologico.
Il ciclo, sorto in America, si diffonde in Europa nel biennio 1911 - 1912: riprendono le agitazioni nella fabbriche russe, in Belgio e in Italia. Il movimento è vasto ma non riesce a oltrepassare i limiti del mondo della produzione, non critica effettivamente il dominio politico e sociale del capitale sul territorio; la critica sociale complessiva rimane confinata alle sedi delle organizzazioni della seconda internazionale.

5.3. Antagonismo e seconda internazionale

5.3.1. Il declino della centralità operaia e dell'internazionalismo

Il ruolo che svolsero e l'atteggiamento che tennero le organizzazioni socialdemocratiche nei confronti delle lotte d'inizio secolo furono ambigui ed equivoci. In primo luogo, sempre alla lotta operaia seguì l'iniziativa politica che mai la precedette e neanche la prefigurò. Questo elemento, del venir in sequenza e del tenersi in retroguardia, constantemente indietro da parte dei socialisti, è facilmente riconducibile alla linea politica assunta dalle organizzazioni appartenenti alla seconda internazionale; questa linea politica è il prodotto, essa stessa, di un marcato distacco dai bisogni delle masse e dell'incapacità a leggerne la composizione. Anzi l'analisi dei partiti della seconda internazionale ignorava del tutto la problematica della composizione di classe e parallelamente sviluppava un distacco politico dalle concrete espressioni delle masse proletarie e popolari in genere. Dopo le esperienze iniziali, dopo il fallimento della prima internazionale, si nota una svolta netta, una virata, nelle forme organizzative dei partiti socialisti europei. All'idea iniziale di una contrapposizione antitetica, antagonistica, al capitale, ne segue un'altra che trasforma la tattica in strategia. In Europa, giustamente, la lotta e l'iniziativa politica a fianco delle componenti di capitale più avanzate parevano fondamentali per la crescita politica del movimento operaio e degli spazi per la sua azione; in Europa, infatti, la costituzione di capitale determinava difficoltà all'emergere di uno Stato borghese capace di comprendere in sé gli antagonismi che lo sviluppo economico provocava e buona parte degli Stati rimanevano ancorati a istituzioni precapitalistiche, anche se, ormai, capitalisticamente determinate.
La lotta al fianco di radicali e repubblicani per l'eliminazione del residuo ruolo istituzionale della monarchia e per il suffragio universale caratterizzò la strategia politica dei partiti delle seconda internazionale. Nella sostanza avvenne che quella che avrebbe dovuto essere un'alleanza tattica si trasformò in un fine strategico. Quelle importantissime rivendicazioni di diritti civili e politici furono slegate dalla concretezza dell'antagonismo che si sviluppava potentissimo in quei primi decenni del secolo. Invece che gruppi di operai combattivi, che avevano caratterizzato il capitale umano della prima internazionale, penetrò nelle organizzazioni della seconda internazionale uno strato di democratici, umanitari e illuminati professori e accademici socialisti che furono i protagonisti e i corifei, oltre ché i migliori interpreti, di questa alleanza storica tra democrazia e socialismo, tra diritti civili e lotte operaie. Questo ambiente e questi nuovi orizzonti si cementarono in un unico edificio organizzativo e politico. Si trattò, allora, sempre di più, quando si faceva 'politica generale', quando si faceva strategia, non di teorizzare una lotta politica anticapitalistica coniugata a rivendicazioni tattiche democratiche che giocassero sulle contraddizioni interne al capitale europeo per farle esplosive, ma di dividere i due aspetti: prima quello e poi, dopo e disgiuntamente, l'altro.
Se, da una parte, si perdeva di vista la centralità dell'espressione sociale della classe operaia nell'elaborazione politica e strategica, per affidare posizione stellare alle rivendicazioni delle componenti borghesi più avanzate, dall'altra parte e inevitabilmente si lasciava dietro di sé, senza dirlo né dichiararlo ma percorrendolo nei fatti, il secondo elemento forte che aveva caratterizzato l'esperienza della prima internazionale, l'internazionalismo operaio, poiché la borghesia si caratterizzava come forza sociale eminentemente nazionale e nazionalizzata.
Questo modo di costruire la linea politica non avvantaggiò l'analisi dello sviluppo dei rapporti di produzione in ogni signolo paese, come avrebbe in linea teorica potuto essere, proprio perché il capitalismo non è analizzato nella sua concretezza mondiale e quando lo si pensa in quanto tale lo si appiattisce, paradossalmente, su un'amalgama di fenomenologie uniformi, secondo le quali si dà uno sviluppo equilibrato del capitale attraverso una serie di tappe fisse e inamovilibili, su una teleologia. In base a questa teleologia è possibile valutare il grado di sviluppo di ogni singolo paese e conseguentemente le possibilità della rivoluzione proletaria. Suffragio universale e parlamentarismo uniti all'emergere nell'economia di grandi concentrazioni produttive diventano i parametri per valutare lo sviluppo del capitalismo in ogni singolo paese. Il conseguimento del suffragio universale e della democrazia parlamentare diventano gli obiettivi rivoluzionari e prioritari. In tal modo la componente borghese progressista assume un ruolo centrale nella seconda internazionale, proprio in nome del perseguimento degli obiettivi specifici del movimento socialista.
Questo complesso analitico e organizzativo sfociò, nella seconda fase della vita dei partiti della seconda internazionale, nella teoria di un passaggio graduale, meccanico, necessario e automatico dal capitalismo ormai maturo al socialismo. Questo atteggiamento, in realtà, divenne effettivamente interclassista: i partiti socialdemocratici realizzarono nel seno della loro organizzazione un'alleanza tra proletari e borghesi nazionali. Un'alleanza illusoria e impossibile che favoriva i secondi e relegava i primitivi obiettivi dei primi nel terreno dell'utopia.
I partiti socialdemocratici si trasformarono in grandi partiti di massa nazionali, sposando abbastanza velocemente le motivazioni del capitale nazionale che avrebbero dovuto affrontare e aggirare. 

5.3.2. I partiti socialisti e la classe operaia

I partiti socialisti della seconda internazionale dimenticarono, nella concretezza dell'agire politico anche se non nella fraseologia, il concetto semplice e sconvolgente di internazionalismo proletario. Non si sarebbe trattato di un richiamo ideologico ma di un riferimento alle lotte, alla materialità dei comportamenti operai che tra gli anni novanta dell'800 e il 1920 si espressero. La seconda internazionale finì per riconoscere centralità, maturità, ruolo positivo alle singole borghesie nazionali.
I partiti socialisti divisero il campo capitalistico in diversi settori, costruiti a partire dal loro livello di sviluppo, senza però ricostituirlo nell'unico campo del capitalismo mondiale. In tal maniera frenavano le iniziative operaie in più casi, in nome dell'arretratezza dei paesi e della precocità dei movimenti; chiarissimi l'atteggiamento verso il movimento russo del 1905, o in tutt'altro luogo verso i Fasci siciliani nel 1893 e in forma quasi chimicamente pura l'assoluta incomprensione dei cicli di lotta negli Stati Uniti, bollati, in perfetta linea con le teorizzazioni del Partito Socialista americano che accusava i movimenti di avventurismo, provocazione e assoluta impoliticità. Proprio l'atteggiamento intellettuale del partito americano e delle federazioni sindacali di mestiere (AFL) potrebbe essere usato per descrivere, in una sola soluzione, quello generale; fu, per certi versi, emblematico. Dal momento che le lotte erano organizzate, trainate e riempite di contenuti soprattutto da operai dequalificati, da operai agricoli e, per di più, di recentissima immigrazione (italiani, irlandesi, slavi) non furono considerate con la dovuta serietà analitica: la strategia seria, la serietà, sarebbero dovute giungere dall'operaio qualificato, inserito nelle tradizionali organizzazioni di categoria e anglicizzato: si trattava, quindi, secondo questa visione profondamente nazionalista dello scontro sociale, di lotte e movimenti 'minori'.
Tutti i partiti socialisti dell'epoca, in loro ogni frazione, furono subordinati a questa logica: centralità della nazione nell'organizzazione e nell'interpretazione delle lotte, meccanicismo, e automatismo. Spesso la frazione massimalista, seppur critica verso la politica dei vertici e orientata verso una direzione rivoluzionaria e spiccatamente anticapitalistica, non riuscì a superare i limiti di questa impostazione e anzi, spesso, ne diede una rappresentazione estremistica, nella quale la classe operaia professionalizzata e nazionale, e solo quella, conquistata ideologicamente dal pensiero massimalista e dalle ipotesi politiche di quello, avrebbe accelerato il corso della storia e l'attuazione della teleologia. Si trattava di una versione 'più veloce' del progetto riformista. 

5.3.3. Massimalisti, riformisti e classe operaia

Ci furono dei tentativi di uscire da questa impostazione, spesso generosi, ma piuttosto goffi. Il caso migliore e meglio costruito fu quella di Rosa Luxenbourg, che denunciò questo stato di cose e ne individuò la causa nella prevalenza degli intellettuali dentro il partito, teorizzando, di contro, una centralità 'fisica' e materiale dei quadri operai nelle organizzazioni politiche del proletariato.
Rosa non sbagliava del tutto, ma si limitava a proporre una risposta sociologica a un problema politico, quasi che gli intellettuali non avrebbero avuto la capacità di calibrare, o meglio ri-calibrare, gli indirizzi teorici del partito per condizionare nuovamente i quadri di estrazione operaia. Il problema non era la presenza operaia nel partito, ma il concetto che il partito aveva della classe operaia: una grande risorsa, riformista o rivoluzionaria, indipendente dallo sviluppo storico del capitale, spettatrice delle grandi trasformazioni capitalistiche e non parte in causa, poiché era il fine determinato, la teleologia a governare i processi, indipendentemente dagli elementi del processo. Riformisti e massimalisti furono coinvolti in una visione della classe operaia che ne faceva un'entità impenetrabile, immota e immobile, sotto il profilo delle energie storiche, alla contaminazione dell'ideologia borghese.
Su tutto un altro versante, quasi un altro mondo, l'organizzazione sindacale americana degli Industrial Workers of the World (I.W.W.), rifiutando la tattica e la strategia politica, o meglio la politica organizzata secondo una tattica e una strategia nel confronto con il nemico di classe, pare subordinarso inconsapevolmente a questa impostazione, sembra declinare ad altri quello che, invece, doveva essere il risultato naturale dell'antagonismo, che correttamente amministrava e organizzava.
Seppur in forme diverse, gli spartachisti in Germania, i massimalisti italiani e i sindacalisti di base americani caddero nel medesimo equivoco: a un'organizzazione proletaria egemonizzata da uno strato piccolo - borghese e progressista risposero con l'affermazione di una centralità fisica dell'operaio. L'equivoco fu nel credere che l'operaio potesse racchiudere tutte le contraddizioni del capitale e dunque avesse, in quanto tale, la capacità di riorganizzare la società e realizzare la rivoluzione: l'operaio era immediatamente rivoluzionario, secondo queste visioni, e come tale destinato, senza mediazioni, a imporre un nuovo e complessivo punto di vista. Paradossalmente questa concezione della classe operaia non era molto distante da quella dei riformisti: la classe operaia era una incredibile massa di risorse per la realizzazione del cambiamento. Il pensiero politico socialista, in ogni sua versione, si era, in realtà, reso indipendente dallo sviluppo della classe operaia, dalla classe operaia concreta, per costruire un'altra concretezza operaia, indistruttibile e metafisica.
Questo assunto è comprensibile nell' I.W.W. che fu il prodotto di un antagonismo che tendeva immediatamente a trabordare il settore produttivo, lo scontro tra capitale e lavoro in senso stretto, per farsi sociale, per ricollocare ed estendere la antitesi capitale - lavoro anche nella società (lotta al carovita, calmieri sui prezzi di trasporti e affitti), molto meno comprensibile per le frazioni rivoluzionarie dentro i partiti socialisti aderenti alla seconda internazionale.
Il fatto è che fu messo al centro dell'analisi un unico soggetto, un prodotto dell'epoca, senza cercare di travalicarne le caratteristiche con un progetto politico generale. Negli Stati Uniti lavorava un soggetto più moderno rispetto a quello europeo, che ha reso ricca e attuale l'esperienza degli I.W.W., in Europa lavorava ancora l'operaio tradizionale, professionalizzato, che ha contribuito a evidenziare maggiormente i limiti teorici di questa impostazione, fino al punto che una volta assunta dal partito socialista americano lo ha condotto a schierarsi apertamente contro i movimenti operai organizzati dagli Industrial Workers of the World.

5.3.4. Proletari europei e proletari americani

Gli I.W.W. non avevano necessità di gran parte del bagaglio teorico che accompagnava la socialdemocrazia europea, non era necessaria una battaglia sulla democrazia elettorale o contro le sopravvivenze feudali né contro l'istituto monarchico. Conseguentemente la necessità di mettere in piedi un'organizzazione gerarchizzata e burocratica, sul modello dello Stato, quale era quella dei partiti socialisti, era meno sentita.
Per gli Wobblies il problema era spostato più in avanti (tenendo dietro ai meccanicismi della socialdemocrazia), si delineava all'orizzonte, dal basso e magmaticamente, la possibilità di un nuovo assetto sociale che investiva ogni settore del vivere associato; gli Wobblies, però, finirono per commettere lo stesso errore dei massimalisti europei, rifiutando di concepire un piano e modulo organizzativo alternativo a quella della socialdemocrazia.
Tutti quanti, grosso modo, si limitarono a percorrere, in senso contrario, il tragitto dei partiti socialdemocratici, ancorandosi, come quelli, a una specifica composizione di classe.
In Europa, sotto questo particolare aspetto, il compito della socialdemocrazia fu facilitato, poichè il proletariato europeo, tanto quello operaio, quanto quello agricolo, per ragioni strutturali legate alla forma produttiva, manifestava un fortissimo attaccamento al lavoro, alla produzione e al suo ruolo in quella. Il lavoro operaio era l'orgoglio operaio nella produzione e sulla produzione: l'operaio era insostituibile e prezioso, e solo per questo il vero nemico del capitalista. E, quindi, se usava spesso la sua alta professionalità contro il padrone e per determinare il successo delle lotte e degli scioperi, alla stessa maniera manifestava nei suoi confronti e nei confronti del sistema di fabbrica una sorta di simpatia, di accettazione e di glorificazione. L'etica del lavoro era un terreno comune e indiscutibile che basava le relazioni contrattuali tra capitalisti e operai, un terreno comune dove era possibile intendersi e comprendersi reciprocamente. Negli Stati Uniti l'operaio di mestiere perdeva terreno nella produzione, perdeva centralità e ruolo e l'etica del lavoro diminuiva la sua sfera di azione e di riconoscimento sociale.
La socialdemocrazia mise, per parte a sua e a suo modo, al centro questo soggetto. enfatizzando a livello politico queste tendenze verso la mediazione che gli erano proprie. I partiti socialisti costituirono sulle caratteristiche di questo soggetto operaio, che poneva il lavoro al centro della sua contrattualità, non solo una linea politica e una strategia che ne prevedeva l'uso come massa e risorsa per la lotta democratica e la graduale elevazione al socialismo della società, ma una filosofia e quasi un'antropologia, ampiamente condivisa da ampi settori del pensiero borghese.
Le lotte sociali, che avevano contraddistinto il movimento operaio americano, passarono in secondo piano e il momento politico qualificante, il discorso sulla società, rimaneva riservato al partito e alla sua elaborazione.
Negli Stati Uniti gli I.W.W. non seppero cogliere la possibilità di arricchimento del materiale politico che proveniva dal basso e dalle lotte che essi stessi organizzavano: le forme di lotta che il nuovo soggetto embrionale proponeva parevano garantire da sole la costituzione di una nuova società.
Ci troviamo di fronte, in realtà, a due mistificazioni ideologiche costruite sul soggetto operaio, una in senso anticapitalistico e l'altra riformista, che usano la stessa tecnica di fermentazione sulla composizione operaia. Non deve stupire se entrambe queste posizioni di fronte alla grande guerra, al pieno dispiegamento del capitalismo mondializzato, mostreranno una notevole inadeguatezza.

5.4. Stato, ristrutturazione e guerra

5.4.1. Declino e decadenza del sindacalismo wobbly negli anni dieci

Le lotte operaie americane si fecero motore di sviluppo dell'organizzazione di fabbrica; la tendenza divenne quella, da parte del comando di impresa, di separare il lavoro dalla qualificazione e professionalità che aveva posseduto: all'operaio specializzato, skilled, veniva affidato un ruolo di controllo sia sul ciclo produttivo e la sua professionalità (rispettando, in maniera stravolta, la sua caratteristica professionale) sia sugli operai dequalificati, unskilled, che intervenivano concretamente nel lavoro. Furono i prologhi di un sistema scientifico di produzione che prese a dispiegarsi negli anni '10, basato sul controllo cronometrico dei tempi di produzione, sulla fluidificazione e spezzettamento del processo produttivo, che comportava, appunto, una rigida stratificazione della manodopera operaia, divisa in categorie fondate sul ruolo dirigente nei confronti dell'organizzazione del lavoro di fabbrica e non, come era prima, sul tipo di lavoro autenticamente svolto sul ciclo, sulla qualità dell'intervento immediato nel lavoro da parte dell'operaio. Contemporaneamente si sviluppano gli embrioni dell'assistenza sociale offerta al di fuori della fabbrica: dopo lavori, posti di ristoro, mense, centri culturali che spessissimo puntano all'americanizzazione della manodopera appena emigrata dall'Europa. La manodopera, negli Stati Uniti, non cessa di essere tale anche al di fuori dei cancelli della fabbrica; viene curata culturalmente e inserita nella vita sociale. Queste iniziative provengono tutte dal NCF, un organo congiunto dei sindacati di mestiere e di buona parte degli imprenditori.
Il basso contenuto professionale del nuovo soggetto sociale, la sua naturale distanza dal lavoro uniti all'analfabetismo linguistico di buona parte degli operai immigrati costringe ad estendere, al di fuori dello stesso controllo esercitato attraverso la fabbrica, la sfera di intervento del comando produttivo, che tende a farsi sociale e a entrare a far parte dell'organizzazione sociale. Il controllo di fabbrica si allarga. Fu solo un espediente, nato dalla concertazione di organizzazioni private, che indica tendenza che diverranno, in qualche lustro, generali.
Non casualmente, inizia ad entrare in crisi il sindacalismo degli Industrial Workers of the World, quando il padronato inizia ad appropriarsi e a colonizzare gli spazi della vita operaia fuori dalla fabbrica, offrendo, seppur in forma disorganica e incompiuta, la sua assistenza sociale e un progetto di integrazione.
Il cuore e il nerbo degli I.W.W. erano stati gli operai immigrati, italiani, polacchi, slavi balcanici, greci che erano entrati tra 1890 e 1910 in massa negli Stati Uniti e nella fabbriche e sui quali si fortificava una doppia estraneità, quella verso il lavoro, in quanto operaio dequalificato e privo di mansione specifica, e quella culturale e linguistica, in quanto proveniente da un altro mondo sociale. Le campagne di americanizzazione minarono il secondo termine dell'estraneità e del rifiuto.
La figura operaia dell'immigrato entrò in crisi anche quando il tipo di lavoro che gli era proprio, il lavoro unskilled, iniziò a massificarsi, divenendo la forma normale dello sfruttamento, il modo del sistema di fabbrica e non un'eccezione, divenne un modo americano, e nel momento in cui l'estendersi e normalizzarsi di questo modello produttivo si associò a una forma minima ma pesante ideologicamente e culturalmente di controllo dei comportamenti nel quartiere e fuori dalla fabbrica. La specificità degli wobblies venne messa in discussione concretamente.

5.4.2. Il modello capitalistico europeo

Il capitalismo americano ebbe la capacità di ristrutturare, di riorganizzare e di rivedere il piano di controllo sulla classe operaia. Non fu affatto così in Europa.
La difficoltà a realizzare una ristrutturazione delle forze produ ttive verso una riduzione del contenuto professionale del lavoro è interpretabile come risultato di una dipendenza dalla centralità dell'industria pesante (siderurgia ed elettromeccanica) sia come il prodotto di un mercato dei beni e dei servizi assolutamente stagnante e fermo. Le due cause sono interagenti e interdipendenti. Da una parte, infatti, l'egemonia dell'industria pesante non permette un egemonia sul mercato del commercio dei beni di consumo, mentre l'assenza di un mercato generalizzato e strutturato dei beni di consumo non incentivava la riproduzione qualitativamente allargata del capitale.
Inoltre, la presenza di un mondo agricolo nel quale la circolazione delle merci era ridotta e ancora, nella maggior parte dei casi, ristretta all'ambito locale deprimeva a sua volta i consumi, mentre la politica dei bassi salari praticata nell'industria fermava la domanda dei beni e i consumi. Nonostante il suo apparato produttivo capitalistico, il modello mercantile europeo era in gran parte fermo al XVIII secolo.
L'operaio professionalizzato rimaneva, malgrado sè stesso e senza nessun particolare merito nella sopravvivenza, al centro dei rapporti di produzione capitalistici europei e il capitalismo si trovava in un paradosso, in prospettiva molto grave: aveva bisogno dell'operaio di mestiere perchè il modello sviluppo non poteva farne a meno e al contempo, pur percependo la classe operaia professionalizzata come un limite, un pericolo e un potenziale altro da sè, aveva difficoltà ad attaccarlo perché faceva parte della sua storia, faceva parte della costituzione insostituibile di capitale. Per completezza, proprio le caratteristiche professionali dell'operaio europeo lo rendevano invulnerabile agli attacchi e sufficientemente forte nelle contrattazioni. Il capitalismo europeo viveva con ansia, anche ideologica e filosofica, questa aporia e questa incapacità di amministrare lo sviluppo, anzi la crisi dello sviluppo era uno stato, un dato costante, un modello di sviluppo.

5.4.3. La socialità europea

C'è un elemento più generale, che travalica le questioni di stretta composizione di classe e di costituzione di capitale, a dividere il capitalismo americano da quello europeo.
Al contrario che negli Stati Uniti, in Europa il territorio geografico sul quale si sviluppava il capitalismo e il suo sistema produttivo, la territorialità capitalistica europea, doveva confrontarsi in primo luogo con la proprietà fondiaria che, prigioniera di una mentalità mercantile e di una logica bottegaia, accettava solo parzialmente e con malcelato malumore i portati dell'economia di mercato e, insieme con quella, doveva affrontare una territorialità di origine pre - capitalistica, innervata da un tessuto comunicativo particolare, che coniugava gli individui e le solidarietà tra gli individui, in forme indipendenti e precedenti il capitalismo. Questa territorialità tradizionale e abitudinaria resisteva anche nelle città, nel mondo e nei quartieri che circondavano le fabbriche, seppur ricodificata e rivista dalle nuove esigenze operaie e proletarie. La ricodificazione è innegabile: si generavano nel  tessuto sociale, attraverso strumenti sociali, culturali, emotivi e urbanistici vecchi e tradizionali, risposte nuove, adeguate, in maniera quasi pittoresca e folclorica, al nuovo antagonismo tra le classi. La vecchiezza, la tradizione e l'abitudinarietà, inoltre, erano favorite dal carattere polimorfo del lavoro operaio nelle fabbriche europee che richiamava ancora la storia dell'artigianato e il lavoro artigianale.
Proprio perchè l'organizzazione del lavoro non aveva eliminato molti degli elementi formali del lavoro artigianale, nei quartieri operai (che spesso non erano nuovi quartieri ma anche fisicamente vecchi quartieri artigiani di epoca tardo medioevale e moderna) si riproducevano reti di solidarietà, di complicità culturale e di stili di vita analoghe a quelle pre - capitalistiche ma, inevitabilmente, riempite di nuova sostanza.
Queste codificazioni territoriali, che fanno parte delle tradizioni europee, dureranno molto tempo poiché il capitale, in Europa, dovette riprogettare il territorio, ricodificare e obliterare stili di vita, sentimenti, emotività, legami vicinali e di gruppo e sistemi urbanistici e viari, negli Stati Uniti, invece, il progetto era immediato e lo stile di vita quello del capitale.
Tutto, ma davvero tutto, in Europa complottava a rafforzare la figura dell'operaio professionale, di mestiere e specializzato che fu il mostro sacro e la bestia nera dello sviluppo, spesso all'interno del medesimo punto di vista.
Il mantenimento di un basso livello di tecnica e di capitalizzazione nel mondo agricolo, dove il lavoro salariato non è forma generalizzata di sfruttamento del tempo di lavoro, chiude il cerchio. I rapporti di produzione capitalistici hanno, in Europa, fondamenta poco profonde, nonostante siano inevitabilmente egemoni ma egemoni secondo un'egemonia che dà senso ancora ai vecchi rapporti, all'eredità sociali.

5.4.4. La guerra planetaria

Le lotte operaie inducono crisi, ma non sviluppo, inducono ansie e paure e un terreno antinomico, ma non ricerca e innovazione, inducono spesso, troppo spesso, a nostalgie, a tentazioni di restaurazioni politiche impossibili, oppure conducono verso disegni di mediazione svolte sul piano ideologico e politico, ed esclusivamente su quello, con la nuova emergenza sociale. Il pensiero utopico governa la progettazione politica europea, in moltissimi ambiti.
Alle lotte operaie e alla crisi che ne deriva gli stati europei risposero scaricando sul terzo mondo la necessità di ripresa e sviluppo. Fu il colonialismo spurio della fine del secolo, crocevia di spinte verso l'esportazione militare di manodopera e popolazione europea e il nuovo istinto imperialista dominato dalla volontà di investire capitali, di utilizzare, sottopagata, la manodopera locale e, spesso, di importarla. Era una politica, nella sostanza, mercantilistica, ma ora asservita alle esigenze di imporre e poi preservare nei paesi soggetti i rapporti di produzione nazionali. Si trattava di un imperialismo colonialista, di un tardo colonialismo, incapace di vedere il mercato come potenziale mondiale, ma come recinto internazionalizzato del mercato nazionale. Si manifesta tutta l'arretratezza del capitalismo europeo anche sul piano internazionale, si rende visibile internazionalmente.
Espressione istituzionale di questa arretratezza è nel fatto che la monarchia, come elemento di peso sull'esecutivo e le sue scelte, si conservò in molti paesi e che la sua caduta potè essere ottenuta solo in conseguenza di situazioni a carattere insurrezionale (Russia, Germania e Austria). Interessante notare come la caduta delle monarchie, la proclamazione dello stato repubblicano corrisposero con l'affermazione definitiva di rapporti di produzione capitalistici nella campagne (in Russia sotto altre forme e in Italia attraverso la 'rivoluzione fascista' sotto altre ancora), cioè corrisposero con l'eliminazione di gran parte del retroterra feudale che regolava i rapporti tra capitale e lavoro nelle campagne, con l'abbandono di parte della socialità europea.
In questa situazione le contraddizioni tra Stati capitalistici si acuiscono, proprio perché insistono su un'eredità mercantilista, coloniale e 'dinastica'. Quindi crisi marocchina, Libia italiana, dodecaneso e Balcani, le provocazioni austriache in Serbia, la iattanza russa nei Balcani orientali, la tensione franco - tedesca e la diffidenza inglese verso un'egemonia sull'Europa continentale. La guerra non fu il prodotto dell'aggressività di una particolare borghesia contro le altre (come al contrario sostenne tanto interventismo democratico e i socialisti che si schierarono quasi tutti sotto le reciproche bandiere nazionali) e neppure di tutte le borghesie dell'epoca; la tendenza alla soluzione bellica non era, cioè, il prodotto degli squilibri del capitalismo europeo che esarcebava i contrasti tra le borghesie nazionali (sarebbe difficile, se si pensa così, spiegare l'entrata in guerra degli Stati Uniti nel 1917) ma era il prodotto dei rapporti generali e 'mondiali' di capitale. La particolarità europea fu solo una delle occasioni belliche. I rapporti di capitale generarono la guerra.
I rapporti di capitale particolari ci spiegano perché la guerra generò in Europa e nel 1914, ma i rapporti di capitale generali sono all'origine della tendenza a un conflitto generale e mondiale. La guerra mondiale e priva di confini è l'ultima conquista dell'umanità capitalisticamente determinata.

6. La grande guerra

6.1. Il prodotto dell'imperialismo

Inutile dire che nella grande guerra il termine di paese aggressore e di paese aggredito è vuoto, formale e privo di qualunque riferimento sostanziale. La tendenza alla guerra era implicita all'evoluzione del sistema capitalistico su scala mondiale, all'allargarsi dei rapporti di dominazione capitalistici a nuove aree e continenti. Non è affatto un caso che dalla prima guerra mondiale vengano fuori gli Stati Uniti d'America in qualità di potenza di prima fattura e tendenzialmente egemone, perchè la guerra registrava i mutamenti in tendenza negli equilibri e li rendeva attuali, li attualizzava. La storia, però, si alimenta di paradossi e la guerra imperialista ebbe come causa immediata l'arretratezza dei rapporti di dominazione capitalistica in Europa, ma quello che accadde nel corso del conflitto ne rende manifeste le caratteristiche imperialistiche. Durante la guerra si evidenziò che i rapporti capitalistici erano divenuti mondiali e proprio grazie al conflitto essi divennero integralmente mondiali, il capitalismo divenne un fenomeno economico e politico mondiale; nessun paese, nessun popolo e nessuna tribù umana potevano sottrarsi alla loro influenza diretta e indiretta e considerarsi, concretamente, estranei al mondo capitalistico.
Il macello della grande guerra gettò nella mischia, però, soprattutto l'uomo che aveva già valutato e pesato, sotto il profilo delle potenzialità economiche e dei comportamenti sociali, quello che aveva già conosciuto abbastanza bene il lavoro salariato e la proprietà privata dei mezzi massificati della produzione, che si era già ribellato a queste cose ma che aveva anche imparato a convivere con quelle: il proletario europeo.
Non sto qui a prendere in considerazione le mistificanti ma unanimi ideologie con le quali le borghesie nazionali, e quasi ovunque anche i partiti socialisti, giustificarono la guerra e l'imperialismo. Va veduto, piuttosto, quello che accadde dal punto di vista dell'antagonismo proletario e della trasformazione capitalistica; antagonismo e organizzazione del dominio, durante la guerra mondiale, cambiarono notevolmente e profondamente. La guerra mondiale fu un catalizzatore di processi storici e sociali.
La guerra generò anche dalla necessità di definire, in Europa, una nuova costituzione di capitale, che superasse le difficoltà dello sviluppo capitalistico nel vecchio continente; poichè, però, il sistema capitalistico era già un sistema, virtualmente, mondializzato, la ridefinizione dell'organizzazione del dominio capitalistico europeo comportava una sua riscrittura a livello mondiale. La guerra non fu certo decisa a tavolino, la guerra si presentò alla storia, all'immaginario collettivo e all'armamento ideologico, come il prodotto di interessi contrapposti, come una agone tra borghesie nazionali; ed è vero fu così. Ma sui fronti contrapposti era, comunque, una comune coscienza: solo una globale riscrittura delle relazioni tra le borghesie europee avrebbe permesso lo sviluppo delle forze produttive, altrimenti rallentato. Esisteva una strategia generale, una filosofia, che oltrepassava i singoli interessi delle borghesie nazionali.
Questa strategia generale, pur esistente, non fu presa in carico, però, del tutto.
La trasformazione nelle relazioni tra le borghesie europee, uscita da Versailles, fu un aborto, dal punto di vista della strategia generale, dell'impianto complessivo del capitale, della filosofia capitalistica. La pace fu gestita politicamente da forme - stato ibride, incapaci di esprimere la ricchezza e la dinamicità del capitalismo che, alla fine, erano state le vere cause del conflitto; forme - stato orrendamente legate alla nazionalità e alla riproposizione, abbastanza cieca, del mito della nazione dentro un contesto mondializzato.
Fascismo, Nazismo, Franchismo e secondo vie molto originali lo Stalinismo furono i prodotti della prima grande guerra mondiale, di un capitalismo mondializzato che non riesce a perdere la dimensione nazionale e ad ottemperare alla sua vera filosofia. L'Europa rimaneva terreno debole per lo sviluppo pieno del processo di capitale, mentre gli Stati Uniti ingranavano la marcia della piena velocità e della mondializzazione dell'economia.
Eppure, secondo un'anomala applicazione in politica della 'legge dello sviluppo diseguale', l'Europa, proprio in ragione di questo suo limite, preconizzò una forma di dominio totalizzante sulla società che con modalità mature, cioè capitalistiche in forma chimicamente pura, si affermerà quaranta anni dopo, in seguito alla seconda geurra mondiale. Decisamente la 'legge dello sviluppo diseguale' va applicata anche alle forme del dominio politico,

6.2. L'internazionalismo totalitario del capitale

La società del capitale, al contrario delle società precedenti, ha caratteri intrinsecamente totalizzanti perché è incapace di recepire diversità nell'organizzazzione della proprietà e del mercato, nella concezione stessa di proprietà e di mercato; il capitalismo è totalizzante e totalitario in quanto si propone, per sua stessa natura, di cancellare ogni forma sociale diversa dalla sua.
Il capitalismo fa questo perchè, al contrario della società feudale o servile della classicità, ha una base di dominio estremamente debole sotto il profilo etico ma forte sotto il profilo economico ed è costretto a traslare l'economia nell'etica e nella morale per fondarsi idealmente e ideologicamente; è per questo che l'economia capitalistica, al contrario di quella feudale o classica, è incapace di svilupparsi in un ambiente che non sia esclusivamente il suo, è incapace di convivere con altre forme economiche e sociali: il capitalismo ha bisogno della sua forma economica e la sua forma economica non ammette compresenze.
L'economia capitalistica non giustifica questo, l'economia capitalistica potrebbe, presa come economia, analizzata sotto il profilo economico, convivere anche con altre forme economiche, però, il capitalismo è anche e nasce come discorso di potere sull'uomo, come nuova forma etica e morale e quindi, per alcuni aspetti, il dominio, nel capitalismo, viene prima dell'economia, il che è un paradosso notevole per una struttura sociale che ama dirsi fondata sulle leggi naturali dell'economia, anzi che ha inventato il concetto di economia naturale per l'uomo. Il capitalismo, così, costruisce immediatamente, il feticcio di sè medesimo, nella sua pietra angolare che è la proprietà privata, che da fatto comune a molte parti della storia umana, diventa la storia umana. La proprietà privata diventa il valore umano par excellence, e l'uomo è uomo, nel capitalismo e nella socialità conscia e inconscia del capitalismo, se è capace di intendere i valori della proprietà e le assiomatiche e normative che le sono connesse.
La proprietà privata nel capitalismo, al contrario di quella classica e feudale, non è regolata e strutturata su relazioni personali che comprendono una personalizzazione della proprietà; è invece un'istituzione esclusiva, autofondata, fondata al di là delle relazioni umane, in un contesto astratto. Poichè rende qualcosa che è estraneo all'uomo il valore umano assoluto e su quello appiattisce l'organizzazione sociale, la società del capitale è la prima società che riesce a farsi immaginare dall'uomo come se fosse una cosa o una materia; come per ogni ente materiale, oggetto di studio della scienza, le sue norme non sono istituzioni soggettivamente determinate ma rigidi limiti materiali, l'organizzazzione sociale si presenta come qualcosa che esiste indipendentemente dall'uomo.


6.3. Il socialismo bellico

Vediamo, ora, le posizioni che assunsero le organizzazioni ufficiali del proletariato, le sole che avevano la possibilità di cogliere il problema che stava dietro alla guerra. È proprio in tali casi che sarebbe dovuto emergere limpida e chiara la funzione del partito proletario, quella che competeva l'analisi dell'esistente e che, per forza di cose, non poteva appartenere all'analisi spontanea dei proletari. La socialdemocrazia si dimostrò del tutto impreparata all'evento e apparve inatteso quello che maturava in forme evidente da un decennio e in maniera sotterranea da molto tempo in più.
L'atteggiamento della socialdemocrazia è il corrispettivo negativo di quello delle singole borghesie nazionali europee. Nella contingenza, facendosi cogliere impreparata all'evento bellico, la socialdemocrazia finì per farsi trascinare dalla marea nazionalista e votò, quasi in ogni paese, i crediti di guerra al governo; in generale, avendo rinunciato a un'analisi di classe riguardo allo sviluppo capitalitico europeo, declinò ogni capacità di previsione e di anticipazione. Fu il naturale risultato storico di un modo di fare politica che aveva posto l'antagonismo proletario, l'analisi rivoluzionaria della società, in secondo piano, mettendo nel cassetto la componente rivoluzionaria del movimento di classe. L'ipotesi di uno sviluppo graduale verso il socialismo determinò una sempre maggiore attenzione verso gli aspetti istituzionali della vita politica, verso la composizione tecnica dei governi, piuttosto che al loro ruolo.
La socialdemocrazia aveva sviluppato un attitudine al controllo, attraverso gli strumenti sempre più raffinati dell'ideologia socialista e del pensiero di Marx, divenuto scuola e scolastico, delle lotte proletarie. Quello che inizialmente era stato un elemento tattico, la necessità di confrontarsi con le istituzioni politiche della borghesia, e quindi darsi una dimensione e un'organizzazione politica, divenne, negli ultimi due decenni del secolo scorso, una idea strategica, divenne strategia. Alla fine di questo processo, la mediazione fu il supremo valore del movimento socialista organizzato, rispetto alle aspirazioni che il movimento operaio, organizzato e non, esprimeva.
La socialdemocrazia, nel nome di uno sviluppo equilibrato e razionale della società verso il socialismo, diventò un'istituzione finalizzata alla mediazione tra gli interessi del capitalista e quelli dell'operaio.
Durante la grande guerra, analogamente al capitale, i partiti socialisti nazionali rinforzarono i loro processi formativi e prefigurarono un ruolo più stabile per epoche più stabili; anzi la grande guerra fu un processo di immensa stabilizzazione del pensiero socialista egemone, che produsse, inevitabilmente, una fuga di sette ereticali, ma, proprio per questo, chiuse, in realtà, con la parte più importante del suo passato. La frantumazione della seconda internazionale fu il segno della fine del pensiero socialista come pensiero rivoluzionario e dell'impossibilità di rinnovarlo dall'interno.
Fu un segno molto concreto, niente affatto ideologico, ci fu, insomma, partecipazione concreta, reale e fattiva alla guerra e alla produzione della guerra. I socialisti accettarrono la leva, aborrirono l'obiezione di coscienza, condannandola, accettarono, attraverso una tregua sindacale ferrea, la sottomissione a regime militare della manodopera operaia impegnata nella produzione bellica e in genere alla produzione vitale per la nazione.
L'operaio tradizionale della composizione di classe europea, l'operaio di mestiere e professionalizzato, fu ovunque militarizzato, divenne un soldato della produzione e la produzione posta sotto la legislazione bellica.
I partiti socialisti e i sindacati a quelli legati non si opposero a questa militarizzazione della classe operaia.
La visione della classe operaia cessò di essere definitivamente una visione internazionale e divenne nazionale: l'operaio francese, tedesco, austriaco, italiano, inglese e via discorrendo.
Fu il prodotto di una contingenza estrema, che, però, rivelava una debolezza generale, costitutiva della seconda internazionale e della socialdemocrazia europea. Il definitivo affermarsi di uno spirito nazionale dentro il movimento operaio ufficiale fu, inoltre, gravido di importantissime conseguenze, per certi versi epocali, nello sviluppo stesso del capitalismo: si gettarono i prodromi di un nazionalismo sociale.

6.4. Il taylorimo bellico

Lo Stato dal 1914 entra nella sfera della produzione. Oltre le normative di carattere repressivo e militare imposte alla manodopera industriale, si istituirono strutture pubbliche che prevedevano un diretto intervento dello Stato nel mondo della produzione. Lo Stato si faceva direttamente imprenditore o più frequentemente coordinava e guidava gli investimenti privati. Quest'ultima è la capacità più interessante che gli Stati bellici del 14 - 18 scoprirono in sè stessi: lo Stato della borghesia poteva influenzare potententemente o guidare addirittura l'economia.
Non si trattava più, come nell'ottocento, di uno Stato - polizia che difendeva l'istituto della proprietà privata, ma di uno Stato - regola che definiva i caratteri della proprietà privata.
L'istituzione di commissioni o comitati ministeriali (sia in Europa che negli Stati Uniti) incaricati di controllare la produzione bellica, di determinare investimenti e di decidere normative di assunzione e impiego della manodopera fu provocata dall'emergenza bellica, in maniera indubitabile, dal protezionismo imposto dal conflitto, ma anche dalla formazione, seppur ancora occasionale, di una nuova composizione di classe nel capitale e nella classe operaia.
Si anticipano i due decenni a venire nei termini di una nuova composizione di classe per una nuova costituzione di capitale. Negli anni venti e trenta, questi nuovi termini nello sviluppo delle forze produttive faranno parte di un fenomeno organico e complessivo, capace di disegnare e strutturare una nuova intelaiatura dei rapporti politici e sociali tra le classi, mentre negli anni bellici sono quasi un elemento isolato, un escomatage transitorio, ma rispondente in maniera perfetta alle esigenze belliche. Le esigenze belliche rivelavano al capitalismo i suoi nuovi orizzonti e funzionarono da catalizzatrici dei processi e come autentici laboratori, scenari di laboratorio politico - sociale.
Tanto negli Stati Uniti, quanto in Europa, le necessità della produzione bellica posero il problema, non del tutto nuovo, di massificare i processi produttivi. Per realizzare questa prima produzione di massa nelle merci, si pianificò una semplificazione del processo di produzione. La produzione doveva essere semplificata per due motivi, uno interno alle sue logiche e uno esterno. Da una parte andava costruito un flusso produttivo uniforme, fatto di operazioni semplici messe in linea, capaci di valorizzare il tempo di lavoro operaio; dall'altra parte, proprio per l'assorbimento di materiale umano da parte degli eserciti, era necessario far entrare nei posti di lavoro giovani e donne e quindi uno strato operaio a bassa qualifica o totalmente dequalificato. Gran parte degli operai qualificati e di mestiere sono al fronte, esclusion fatta per alcuni settori vitali e nei quali la professionalità del lavoro è indispensabile, mentre le esigenze produttive crescono vorticosamente. L'introduzione di metodi di lavoro già sperimentati negli ultimi decenni negli Stati Uniti è, quindi, inevitabile, almeno nell'industria bellica. Questo settore, che lavora su commesse statali o sotto il diretto finanziamento dello Stato, sviluppa rapidamente nuove forme nell'organizzazione del lavoro: il lavoro diviene semplice, ripetitivo, di rapido apprendimento.
Negli Stati Uniti si confermò definitivamente l'egemonia dell'organizzazione del lavoro scientifica, come veniva  detta dagli economisti americani; il lavoro si oggettivava in una misurabilità precisa e cronometrica, diventava un oggetto scientifico tra gli altri, una realtà fisica e materiale, un fenomeno scientificamente ponderabile. La produzione diventava una scienza. In Europa l'oggettivazione del lavoro non riuscì in molte nazioni ad affermarsi con altrettanta chiarezza.
In Germania, ad esempio, il sistema di comando aziendale continuò a svolgersi intorno al tradizionale paternalismo che usava gli operai con qualifica, gli operai di mestiere, come elemento fondamentale per tradurre a tutto il resto della classe le logiche e le ideologie dello sfruttamento, anche all'operaio dequalificato e a mansione semplificata. In quel contesto l'operaio professionalizzato, pur avendo perduto la centralità nella produzione, manteneva centralità nella retribuzione, nella valorizzazione del lavoro operaio.
In Italia, invece, i meccanismi di costruzione del salario e della retribuzione operaia iniziano a calibrarsi sul nuovo strato di operai dequalificati, con la valorizzazione del cottimo, degli straordinari, fino al punto che, esattamente come negli Stati Uniti, nel nostro paese durante la guerra l'operaio dequalificato dell'industria bellica guadagnerà di più del vecchio operaio di mestiere.
Ovunque, comunque, nel mondo capitalistico declina una figura storica del capitale di metà ottocento, del capitalismo della seconda rivoluzione industriale, l'operaio di mestiere. E ovunque, le organizzazioni politiche ufficiali del movimento operaio, che avevano organizzato questo strato operaio, avevano costituito la loro base sociale su di quello e avevano costruito la loro identità sulle aspirazioni, i desideri e la visione del lavoro di questo strato proletario, persero la loro fonte organizzativa, ideologica e la base della loro forza e contrattualità: la classe operaia era cambiata e sfuggiva alle organizzazioni tradizionali del proletariato. Non casualmente, in tutti i paesi europei, dal 1916 si apre una fase estremamente delicata, confusa e contraddittoria del conflitto di classe. Le componenti storiche e tradizionali del movimento socialista e sindacale denunciano una fortissima crisi di controllo e di comprensione delle lotte.
In quasi tutti i paesi la nuova fenomenologia delle lotte dei dequalificati mette in crisi l'egemonia delle frazioni riformiste tra i socialisti (in Italia, in Germania e soprattutto in Russia) e premia la frazione massimalista che, spesso ma non sempre, aveva avuto il coraggio di non votare i crediti di guerra; fu facile politica per massimalisti e anarco - sindacalisti italiani, per i futuri spartachisti tedeschi e per i bolscevichi russi denunciare i patteggiamenti e i cedimenti dei vertici della socialdemocrazia sulla guerra imperialista e cavalcare la nuova e inedita ondata di lotte operaie.
Ma la critica della nuova 'estrema sinistra' offriva solo una sponda al nuovo antagonismo, dava a quello una rappresentazione ideologica, ma non lo interpretava, non interpretava la nuova estraneità che l'organizzazione scientifica del lavoro produceva negli operai. Si trattava, alla fine, di far riferimento alla ideologia dell'operaio di mestiere, rivificandola con riferimenti esclusivamente ideologici a una politica rivoluzionaria che, per forza di cose, coinvolgeva anche i dequalificati, i protagonisti delle nuove lotte e delle nuove forme di lotta.
Questo ha fatto l'inadeguatezza di tutte, nessuna esclusa, le organizzazioni politiche del proletariato del primo dopoguerra e questa inadeguatezza ha lasciato un grande spazio alle manovre politiche del capitale, che generava produzione di massa e consumo di massa e che aveva in mano quel nuovo modello sociale dove il lavoro perdeva la sua professione e il suo mestiere e si valorizzava solo ed esclusivamente attraverso il tempo di lavoro. Dove il tempo di vita iniziava ad essere il vero campo di battaglia tra le classi.
Fascismo e Nazismo saranno una risposta di parte capitalista al nuovo problema del tempo di lavoro come materialità, come parte del tempo di vita e del tempo della vita come nuovo orizzonte della lotta tra le classi.

6.5. Produzione, Stato e mercato tra 1914 e 1929

6.5.1. Produzione

La nuova figura operaia, l'operaio senza qualifica e sottoposto a operazioni semplificate, non assunse un ruolo centrale in maniera omogenea. In Europa si unisce, aggiungendosi, a quella dell'operaio di mestiere, negli Stati Uniti, invece, determina una nuova configurazione nella composizione della classe. Si tratta, però, in entrambi i casi di un processo che potrebbe essere detto additivo: se il ruolo nella produzione dell'operaio professionalizzato era diminuito, non emergeva una nuova centralità operaia.
Gli investimenti industriali che puntano a una massificazione della produzione non contengono ancora un'intensità tecnologica tale da introdurre mutamenti sostanziali, una chimica nuova, nell'organizzazione del lavoro. In parte essi sono la prefigurazione dell'organizzazione scientifica del lavoro, del taylorimo o del fordismo, come l'interventismo statale diretto o indiretto sul mercato del lavoro, sugli investimenti e sul mercato in genere è anticipazione di un assetto nuovo dei rapporti sociali complessivi. È, comunque, in quest'epoca che si fanno strada progetti pubblici volti a disciplinare e selezionare il mercato del lavoro, a preparare il lavoro di fabbrica al di fuori della fabbrica, a curare l'aspetto scientifico del lavoro e farne una disciplina di studio, come si sviluppano disegni volti a subordinare al controllo dello Stato l'attività creditizia e a porre in atto un controllo sui prezzi dei generi di prima necessità attraverso politiche di calmiere. Sia, però, nella produzione che nella riproduzione di capitale si tratta di interventi aggiuntivi, di azioni collaterali, su una realtà preesistente che non è quella della produzione di massa e del consumo di massa; la nuova forma di produzione emerge e in alcuni casi diventa egemone tra i fattori dell'accumulazione capitalistica, ma non riesce ancora a donarle una nuova qualità, a qualificarla.
L'introduzione della produzione di serie, della parcellizzazione delle operazione lavorative, del lavoro cottimizzabile al singolo pezzo, sono ancora espedienti per un'economia di guerra o, quantomeno, vengono sentiti come tali. La mentalità generale intorno al lavoro, la mentalità produttiva, ha ancora in mente il lavoro complesso dell'operaio qualificato e anche le forme retributive fanno spesso riferimento a quello.

6.5.2. L'economia di guerra

La guerra del 1914 fu qualcosa di completamente nuovo, non tanto perché coinvolgeva un gran numero di nazioni, perchè questo in verità era già avvenuto nel XVII e XVIII secolo europeo, non tanto perché i suoi obiettivi interessavano più continenti, anche questo era già accaduto nella storia europea, ma perché le sue dinamiche riguardavano e interessavao l'intera economia mondiale, anzi creavano il concetto stesso di sistema economico mondiale. Contemporaneamente, questa mondializzazione dello scenario di fondo della guerra comportava un impatto del fatto bellico sconosciuto in precedenza: era infatti in gioco il ruolo mondiale, il successo planetario, di ogni singolo Stato nazionale coinvolto nel conflitto, erano, secondo retorica diffusa, in gioco i destini della nazione.
La mobilitazione e militarizzazione della classe operaia fu, in gran parte dell'Europa, la componente fondamentale della nuova organizzazione del lavoro: la fabbrica veniva percepita come una caserma, gli operai come soldati, i capi squadra come sottufficiali e ufficiali, la linea di produzione come trincea e le operazioni di lavoro come il fuoco continuo sul nemico. La mobilitazione e militarizzazione del lavoro facevano riferimento a un fenomeno ideologico ancora più vasto: la fidelizzazione dell'intero corpo sociale verso gli obiettivi e lo sforzo bellico.
Per la prima volta la società venne percorsa integralmente da un'energia ideologica e propagandistica capillare e diffusa capillarmente: la vittoria era un obiettivo di massa, la vittoria un obiettivo popolare. Si istituì una nuova rete comunicativa attraverso i giornali di propaganda diffusi al fronte e le testate tradizionali che furono sottoposte a un regime censorio e cooptate nelle operazioni di propaganda bellica, prima sconosciuto.
Durante la guerra si sperimentò la possibilità di fortificare i rapporti di produzione esistente attraverso un'azione propagandistica che seguisse tutte le componenti della società e annullasse le contraddizioni e gli antagonismi che quelli portavano con sé.
La prima guerra mondiale fu un nuovo tipo di guerra, una guerra integralmente moderna, dove la vittoria non la danno solo gli eserciti e le risorse belliche strictu sensu ma le potenzialità dello sforzo produttivo volto alla guerra nella nazione. La guerra si vince anche e soprattutto all'interno, sul fronte interno.
Il fronte interno è, nella prima guerra mondiale, ancora più importante di quello esterno. È la solidità dell'apparato produttivo a fare di una nazione il vincitore del conflitto. L'apparato produttivo va valutato in tutte le sue caratteristiche, che entrano anche nelle ragioni stesse della guerra, come quelle che ineriscono alla collocazione internazionale dell'economia di un paese, cioè i rapporti con i paesi produttori di materie prime, la presenza di materie prime sul proprio territorio e il controllo dei punti - chiave geografici; ma la valutazione passa, durante e dopo la grande guerra, attraverso i caratteri interni dell'apparato di produzione, quali la capacità di esercitare una presa propagandistica sulle classi subalterne e sul mondo dei produttori, come anche e soprattutto la solidità della classe dei capitalisti, che diventa una classe collettiva cioè una classe capace di esprimere una coscienza e intelligenza collettive, una potenza unitaria e univoca da esercitare sul resto del corpo sociale.
Certamente gli strumenti utilizzati per controllare il fronte interno furono, nella prima guerra mondiale, frammentari, sperimentali e spesso inadeguati ma si configura la tendenza a inventare un immaginario, una coscienza e una propaganda di massa, che caratterizzerà in forme scientifiche la seconda guerra mondiale.

6.5.3. Lo Stato produttore

La scoperta del ruolo attivo dello Stato nel mercato è del 1914, così come quello di una connotazione politica degli interessi capitalistici privati, anzi del fatto che il vero capitalismo è una potenza collettiva e pubblica, non privata. Si delinea, quindi, la figura del capitalista collettivo che lo Stato riassume e interpreta; non solo il capitalismo ha bisogno dello Stato, ma lo Stato diventa interprete dell'economia capitalistica. È una sperimentazione magmatica che sarà confermata e riscritta in seguito a un secondo evento traumatico della storia moderna, la crisi del '29.
Lo Stato scopre che l'economia di mercato non gli è indifferente, non è indifferente ed estranea  ai suoi scopi e motivi, scopre, quindi, l'essenza della sua coabitazione con il capitalismo, che non si riduce affatto a fornire polizia, prigioni ed esercito, ma è una collaborazione, programmazione e coordinamento dello sviluppo delle forze produttive e della riproduzione del capitale.
Facendo ciò, lo Stato non diventa produttore, non diventa capitalista  e il capitalismo pubblico e statale non è l'elemento decisivo di questa nuova maturità; lo Stato rimane Stato, cioè una struttura parassitaria che nasce al di fuori del campo della produzione, ma la produzione, senza questo sistema improduttivo, non può darsi. È la novità delle prima guerra mondiale: il capitalismo non ha bisogno dello Stato per la sua polizia e magistratura, per le sue leggi e per la protezione della proprietà e della privatizzazione della ricchezza sociale, ma il capitalismo ha bisogno dello Stato per creare la ricchezza sociale.
Le istituzioni belliche segnano un nuovo sviluppo dello Stato, lo indicano e lo prefigurano, quando non lo hanno tracciato concretamente.
Va sgombrato il campo da una affermata interpretazione relativa al nuovo ruolo dello Stato dopo il 1914 e segnatamente dopo il 1929: lo Stato della borghesia non divenne uno Stato produttore, uno Stato capitalista, un creatore di profitto, ma rimane un istituto parassitario, sotto il profilo economico, come in tutta la tradizione economica dello Stato, come in tutta la sua storia economica. Lo Stato rimane una struttura in perdita, sotto il profilo economico e finanziario, che però garantisce la produzione generale di valore, della ricchezza sociale e interviene a mediare e conciliare gli antagonismi sociali non in quanto istituzione militare e giudiziaria, ma in quanto meccanismo economico e finanziario: il potere pubblico prende le parti del capitalismo e della borghesia, prendendo parte al sistema economico del capitalismo e della borghesia. Lo Stato, quindi, esce dalla politica militare e di polizia, entra nella politica economica, investe, facendo ciò, con la sua azione tutta la sfera della socialità e diventa tout cour, nel suo complesso, uno strumento, un meccanismo del capitale, non semplicemente uno strumento in mano al capitale.

6.5.4. Lo Stato collettivo e il capitalismo 'maturo'

Lo Stato capitalistico negli anni dieci e venti, quindi, si trasformò in maniera radicale e divenne qualcosa di diverso dallo Stato ereditato dall'ottocento e dalla fase protocapitalistica europea. Questa trasformazione pare seguire da vicino ed essere omologa a quella avvenuta all'interno dell'organizzazione del lavoro, che diviene scientifica e astratta, e pose anche culturalmente (oltre che materialmente) il lavoro in una nuova tipologia dei rapporti sociali. Il lavoro diventava astratto e le relazioni sociali basati sull'astrattezza.
Questo legame, indubitale, tra organizzazione del lavoro e Stato non va letto in maniera automatica e meccanicistica. Proprio perchè l'organizzazione del lavoro si fonda su principi astratti e 'scientifici' e si realizza astrattamente, cessa di essere una specificità, di determinare professionalità, mestieri e specificità produttive e diventa una forma sociale in senso proprio. Lo Stato, parimenti, tende ad assumere caratteri astratti e generali, a essere assoluto in quanto sciolto da una specificità, a essere un'istituzione che opera sulla generalità della società, esattamente come l'organizzazione del lavoro tende ad assumere una generalità che travalica il lavoro concreto. Il cammino accoppiato di Stato e organizzazione del lavoro li separa, paradossalmente.
Lo Stato, allora, nel capitalismo degli anni dieci e venti, nel capitalismo che inizia a essere 'maturo', è maggiormente influenzato dall'organizzazione sociale nel suo complesso che non dall'organizzazione del lavoro, e cessa di essere l'immagine speculare degli antagonismi che l'organizzazione del lavoro provoca; non si limita più a essere l'espressione politica, in senso deterministico, della classe al potere, ma pretende, in forma cosciente e ideologicamente giustificata, di presentarsi alla società come se non fosse percorsa da antagonismi, di introiettare le contraddizioni sociali, farle sue e rielaborarle, di essere la sintesi degli antagonismi e di riassumere in sè l'intera organizzazione sociale.
Lo Stato del capitalismo maturo, quindi, può per certi versi recuperare meglio la tradizione storica degli istituti pubblici, una sua tradizione, una sua tempistica, suoi presupposti. Cerca di riassumere e rappresentare la storia di una 'nazione' e di un 'popolo'. Gli Stati nazionali, così, trovano fattori di autoctonia, di differenza e originalità. Non è elemento secondario, per esempio, il plurilinguismo austriaco, la forza della corona sull'esecutivo nel differenziare lo Stato austriaco da quello di altre monarchie nazionali e monolingue o di repubbliche.
Non si tratta, neppure, di dati sovrastrutturali privi di fondamento reale, ma si tratta di strutture che istituiscono il carattere del dominio e del potere in ogni singolo Stato nazionale. Lo Stato capitalista, proprio perchè cerca di riassumere l'organizzazione sociale, è costretto a riassumere e fare i conti anche con la storia di quell'organizzazione sociale.
In realtà, e con vero paradosso, proprio lo Stato borghese della maturità, dell'epoca industriale pienamente sviluppata, cioè quello che si accosta al dominio secondo astrattezza e lo rappresenta come un dominio e potere astratto e naturale e che quindi dovrebbe presentarsi alla storia come un fatto omogeneo è, forse, più differenziato che in altre epoche storiche. Questo iato tra omogeneità e specificità, genera un contrasto che è tipico di quello che esiste tra due strutture che presentano diversa elasticità e un diverso modo di vivere gli elementi che li compongono; gli elementi che li compongono sono, comunque, va sottolinerato, gli stessi.

6.6. Il laboratorio sociale ed economico

6.6.1. Monarchia e repubblica: verità effettive

Le varie borghesie manifestarono, comunque, un elemento comune nella forma espressiva del loro dominio, singolo e particolare dominio, come, corrispettivamente, nell'organizzazione del lavoro e nell'impostazione, ancora più in generale, del dominio sociale e culturale. Questo illustra un altro aspetto del carattere internazionale del conflitto e la causa stessa della sua estensione planetaria.
Certamente il conflitto può essere letto come il risultato degli squilibri determinati dai diversi livelli di sviluppo che nei singoli paesi aveva raggiunto lo Stato capitalistico: gli Imperi centrali potevano venir considerati come paese arretrati e il fronte dell'intesa come rappresentativo della componente più evoluta e sviluppata del capitale. Fu un'ideologia molto forte che percorse il fronte bellico e che venne usata da entrambe le parti in conflitto, confortata, rafforzata, quando addirittura non direttamente generata dalle socialdemocrazie nazionali. In verità arretratezza e sviluppo furono assolutamente trasversali al fronte e forse furono intrinseche a quello, riguardando alla fine tutto il capitale europeo e le sue diverse espressioni di dominio. L'Europa non garantisce condizione lineari alla riproduzione e circolazione del capitale e ovunque persistono, in forma residuale ma importante, rapporti di produzione tardo - feudale o neo feudali nell'agricoltura e nell'artigianato rurale e spesso ancora in quello urbano e, soprattutto è diffusa una vasta resistenza culturale, esistenziale all'affermazione della nuova mentalità economica e politica che il capitale comportava e richiedeva. Questo si concretizza, istituzionalmente, nella permanenza (in Germania, Austria, Italia, Russia, ma anche nella evolutissima Inghilterra) della Corona alla sommità del potere simbolico e legislativo.
La grande guerra fu, anche, la risposta a questo tipo di problemi, al problema di una resistenza interna al capitale e alla trasformazione in senso integralmente capitalistico della società.
Le resistenze, le zone d'ombra, i relitti sociali delle epoche precedenti catalizzarono, negli stati - nazione europei, la tendenza a trasporre all'esterno le contraddizioni inerenti allo sviluppo, proprio perchè i relitti sociali ed economici non erano affatto estranei ormai all'attualità del capitalismo: esemplare il caso del latifondo proto capitalistico che sopravvive nel mezzogiorno europeo donando il volto ai rapporti di produzione agrari del capitalismo.
Non è affatto casuale che l'Europa, entrata in guerra con una monarchia e due imperi, ne uscirà con  e tramite la loro rovina: la fine della monarchia imperiale asburgica, multinazionale e multiculturale, di quella russa e di quella tedesca non vanno solo analizzate per quello che sono, le reazioni fisiologiche alla sconfitta militare, ma per quello che possono essere, il trionfo del potere repubblicano, il potere distribuito in simbologie anonime.
Il capitalismo diventa anche quello che lo ha preceduto e in parte la prima grande guerra globale, il prodotto bellico coerente con il nuovo sistema economico astratto e internazionalizzato, si presentò come una riedizione del conflitto dinastico della prima modernità e del tutto estraneo all'assetto del capitale. Gli elementi culturali, sociali ed economici che precedono la storia del capitalismo e costituiscono una sorta di archeologia, tornano vitali e attuali ed egemonizzano l'ideologia bellica e il nazionalismo in Europa. Il capitalismo usa la storia come una miniera di simboli ed elementi ideali, anche perché non ha interrotto affatto l'esplorazione di alcune vene e correnti sotterranee e, per certi aspetti, gli appartengono.
Le incrostrazioni di origine feudale, senza essere determinanti nei rapporti di produzione, mantengono la loro vitalità nella rappresentazione sociale che il capitalismo dà di sè stesso e nella genesi della sua idea di popolo e nazione. Il rapporto tra capitale e lavoro, l'economia, è alla base del sistema, ma in Europa esso non si manifesta direttamente, non si offre come chiave di lettura univoca, ma consente la sopravvivenza di altri rapporti sociali nella misura in cui essi ruotano intorno al rapporto principale e costitutivo. I vecchi rapporti sociali arricchiscono quello nuovo e non lo negano, anzi lo confortano e rafforzano.
Gli squilibri di sviluppo e i ritardi ci furono, ma non sono alla base del conflitto mondiale, sono solo elementi di catalizzazione, occasioni per accelerazioni, e non la causa. Le contraddizioni costituzionali tra repubblica e monarchia non spiegano la guerra, e solo in parte la composizione dei fronti bellici, spiegano, invece, ideologie e precipitazioni contingenti. Sicuro  è e va ribadito che sotto il profilo della regostrazione squisitamente storica scomparvero tre istituzioni provenienti dal medioevo europeo, un vero pezzo costituzionale del medioevo dentro il mondo moderno.


6.6.2. Monarchia e repubblica: verità simboliche e ideologiche

Va ribadito questo carattere pienamente capitalistico del conflitto, poiché ci fu allora e esiste ancora oggi una lettura della prima guerra che pone al centro della sua origine gli squilibri nello sviluppo del sistema politico e istituzionale dei paesi europei. È una teoria che ha due volti; il volto disegnato dai vincitori che tende, perché tale, a essere assolutizzato e identificato con la verità storica e quello disegnato dai perdenti che, ovviamente, è caduto subito dopo la fine del conflitto. Da una parte si enfatizzava la modernità delle istituzioni politiche e democratiche dell'intesa, contrapposta all'arretratezza semi feudale e autoritaria degli Imperi centrali; la guerra allora era ed è ancora vista come lo strumento di soluzione dei ritardi e di emancipazione dell'Europa dal suo 'polo arretrato'; la guerra viene inquadrata come mezzo per la riforma politica e democratica dell'Europa, come il prodotto di una grande mobilitazione ideale.
Sul fronte opposto si metteva l'accento e si sottolineava il livello avanzato delle forze produttive, la modernità dell'apparato industriale e la cooperazione politica e sociale realizzata tra le classi e il fatto che una vittoria degli Imperi centrali sarebbe stata anche la vittoria della classe operaia tedesca ed austriaca ma non solo. Poichè il "modello produttivo e sociale tedesco" sarebbe diventato egemone in Europa e nelle colonie europee, quella sarebbe stata non solo la vittoria dell'operaio tedesco ma anche quella di tutti gli operai. La dimensione planetaria della guerra trovava addirittura una giustificazione non nella concretezza delle contraddizioni capitalistiche ma nell'emancipazione dal capitalismo stesso. L'ideologia della grande guerra fu un'ideologia che pensava, in termini storici, all'intero pianeta. Forse già nell'illuminismo era accaduto, ma era la prima volta che un'ideologia mondializzata diventava fatto di massa e giustificazione ideale per la mobilitazione di decine di milioni di uomini.
Mentre, dunque, lato Intesa, la guerra era inquadrata come strumento per la riforma politica, sul lato degli Imperi centrali lo era come mezzo per la riforma sociale. Incredibilmente al centro di queste teorizzazioni, al di qua e al di là del Reno, era la socialdemocrazia. Su entrambi i fronti dalla consapevolezza della vera natura della guerra non esisteva.
Anche l'entrata degli Stati Uniti in guerra offrì l'esca a letture opposte. Era l'intervento di una grande forza democratica a favore delle democrazie sorelle, oppure era l'intervento di un capitalismo cinico e privo di valori.
L'ottica era chiara: giustificare la suddivisione in blocchi contrapposti dell'intero pianeta, partendo da motivazioni ideali.
È sicuramente, comunque, stato corretto tenere ben presenti le divisioni e differenze tra i vari Stati che parteciparono al conflitto, differenze e divisioni che spiegano in parte i caratteri e la composizione dei fronti avversi, e sarà inevitabile tornarci sopra in futuro perché tali separazionie squilibri produrranno ancora effetti, manterranno una radiazione di fondo storica, ma è fondamentale individuare la tendenza omogenea verso la guerra che è l'autentica spiegazione del fenomeno.

6.6.3. Lo sviluppo del capitale nella grande guerra

La tendenza omogenea e come tale essenziale verso la guerra mondiale implica alcune cause di fondo: 1) la necessità di definire un nuovo ruolo dello Stato nella vita politica; 2) la statuizione di un rapporto più stretto tra capitale sociale (banche), grandi imprese monopolistiche e Stato; 3) un nuovo inquadramento del ruolo politico e sociale delle organizzazioni storiche del movimento operaio. Ovunque, le strutture di coordinamento economico funzionali alla produzione bellica determinarono una nuova centralità dello Stato nella definizione di tattiche e strategie.
Lo Stato si trasforma in un pianificatore dello sviluppo, seppur in un settore di mercato particolare, perché vincolato dalle stringenti esigenze belliche e nel quale il committente e il cliente si identificano. Questo è, però, il primo caso di pianificazione collettiva e approfondita. In secondo luogo, sempre ovunque, lo Stato interviene con strumenti legislativi al fine di stabilire i rapporti sociali direttamente e controllare l'andamento del reddito da lavoro; nelle industrie belliche, infatti, il legislatore stabilisce le voci del salario operaio e la stratificazione salariale. In terzo luogo lo Stato svolge una funzione sociale generale con il controllo sui prezzi delle merci al dettaglio e sui generi di prima necessità.
Non si tratta, anche qui, di assolute novità, un ruolo attivo sui prezzi è una sperimentazione dello Stato giacobino, il coordinamento sulle attività produttive era già stato provato in U.S.A.  e un intervento diretto del potere pubblico sulla produzione nell'Italia giolittiana, ma ora emerge una volontà di azione globale. Il conflitto richiede uno sviluppo produttivo calibrato e misurato sul suo obiettivo, che è un obiettivo generale, che riguarda l'intera nazione e tutto il corpo sociale, che impone soluzioni nuove e generali di controllo economico e sociale.
Sebbene limitatamente a un mercato chiuso e protetto come quello bellico, le esigenze storiche richiedono una capacità sintetica maggiore che in passato. La massificazione della produzione bellica non riesce a determinare un nuovo soggetto operaio e neanche una nuova costituzione di capitale, ma rafforza quantitativamente uno strato operaio e un sistema produttivo che da marginale diventa pesante e percepibile
socialmente.
Il lavoro si trasforma, il concetto di lavoro si trasforma; l'esperienza professionale serve sempre meno, l'operaio professionalizzato perde centralità nel ciclo produttivo, anche se sepesso gli viene resituita sotto forma di partecipazione al controllo del lavoro altrui e della manutenzione dei macchinari. Qua e là, addirittura, vede indebolito il suo privilegio salariale. Di contro, entrano nella produzione giovani e donne, contadini, che svolgono le nuove mansioni che non richiedono particolare preparazione ma che sono il cuore del ciclo produttivo. Il vecchio operaio professionale, ridotto a quadro dequalificato dentro una massa di lavoranti dequalificati, vive malamente questa intromissione, la sente, e con ragione, come un attacco al suo ruolo, come un potenziale ricatto alle sue posizioni e alla sua contrattualità, tanto che spesso, per non dire sempre, si rifiuta di considerare operaia questa nuova figura.

6.7. L'operaio qualificato e dequalificato

6.7.1. Una nuova stratificazione operaia

Si era aperto un dualismo nella classe operaia, provocato dalla compresenza all'interno dell'apparato produttivo di diversi soggetti produttori di plusvalore. Il lavoro dequalificato aveva caratterizzato anche le composizioni operaie precedenti, non era affatto uno sconociuto, anzi l'abbattimento del contenuto professionale del lavoro nella manifattura era stato il carattere centrale del passaggio dal modo di produzione artigianale a quello industriale. Nel corso dello sviluppo del capitale, però, la componente professionale del lavoro operaio era stata recuperata, per certi versi l'artigiano rientrava in fabbrica, spogliato degli abiti della sua bottega, ma non privato della sua attenzione e precisione nell'esecuzione del lavoro. Per le tecnologie ottocentesche il pezzo, il prodotto industriale, era il risultato del lavoro del singolo che, con l'aiuto della macchina, lo costruiva in serie. La serialità riguardava il prodotto e la merce, mentre il lavoro operaio si misurava con la complessità del pezzo da produrre; il tornio è il paradigma di questo agire industriale: si produce con serialità e precisione industriale utilizzando una mentalità artigianale. L'operaio professionale è responsabile individuale del suo lavoro e della qualità del suo lavoro. La produzione non si era serializzata, solo il mercato e le merci lo erano. In questa fase il lavoro dequalificato in fabbrica o era riservato ad alcuni comparti produttivi (il tessile) particolarmente votati alla meccanizzazione del processo di lavoro, oppure negli altri comparti (metallurgico, meccanico, elettromeccanico e anche minerario) aveva un ruolo marginale, era un servizio e un'assistenza offerta all'operaio produttore di valore, all'operaio di mestiere.
Ora, negli anni dieci del secolo, emerge il lavoro a basso contenuto specialistico come elemento di creazione di plusvalore. La produzione serializzata, il lavoro in serie, viene esportato in comparti fino ad allora immuni.
Questo dualismo di un doppio produttore di plusvalore non si scioglierà tanto facilmente in Europa; la compresenza significò un limite, una incapacità. La produzione in serie era possibile, ma l'assetto economico generale necessario alla produzione in serie, un'ulteriore astrattezza delle merci e del prodotto e alla fine del plusvalore, non era ancora amministrabile a livello economico e sociale generale e, probabilmente, anche a livello politico.
La produzione in serie, in Europa, si afferma durante il conflitto e nella metallurgia e metalmeccanica allo scopo di far fronte a un'esigenza precisa, la produzione di armi, di mezzi e di strumenti per l'esercito. Negli Stati Uniti, dove le esperieze di semplificazione e fluidificazione del processo produttivo erano avanzate già nell'ultimo decennio del secolo precedente, la guerra incontra un apparato industriale con un bagaglio tecnologico più ricco, adatto ad automatizzare alcune mansioni operaie, e maggiormente pronto anche dal punto di vista del controllo dei comportamenti sociali.
La stratificazione del lavoro operaio determina una stratificazione sociale dentro la classe operaia. Una nuova categoria emerge, quella dei tecnici che sostituiscono parzialmente la manodopera qualificata, necessaria a dotare la fabbrica di nuovi servizi interni e alla produzione. Figure che controllano il lavoro della linea e i suoi tempi, computano cottimi e la necessità del lavoro straordinario. Il lavoro, precisamente come la merce che si oggettiva sul mercato, si oggettiva nella linea di produzione della serie ed è computabile attraverso un'idea resa ora assolutamente astratta: il tempo di lavoro. Il tempo di lavoro si oggettiva con scientificità nel prodotto di lavoro, secondo proporzioni matematiche e geometriche, secondo legami astratti che assumono una vera concretezza. A garantire l'astrattezza del lavoro operaio non è più la realtà del mestiere operaio, ma il tempo astratto, privo di contenuti differenziabili, della linea di montaggio.
Si viene così a creare uno strato di lavoratori salariati e una nuova maniera di concepire il lavoro; i tecnici e il lavoro intellettuale dentro il processo produttivo formano un apparato di controllo non più funzionale, che non nasce più dalla professionalità del lavoratore, dal suo essere esempio per tutti compagni, ma che genera da una realtà che nulla ha a che vedere con la produttività iintesa in senso stretto. Si forma una gerarchia di fabbrica che ricorda e richiama quella militare. La nuova gerarchia non ha più nessuna funzione dentro la produzione delle cose, nella creazione dell'essere, ma è un'astrazione che le comanda.

6.7.2. La terza rivoluzione industriale

La nuova stratificazione sociale porta con sé una nuova ideologia e mentalità sociale, anzi le richiede e negli Stati Uniti iniziano a strutturarsi un terziario di tipo nuovo, volto a offrire assistenza sanitaria e mutualistica, perché il lavoro non si risolve più nel lavoro ma fuori dall'ambito lavorativo. Il lavoro produttivo, divenuto astratto, e il suo tempo divenuto lineare, matematico e geometrico hanno bisogno di ricreare una valorizzazione altrimenti impossibile dentro il recinto della fabbrica. Allo squallore di un tempo di lavoro svuotato di contenuti professionali, corrisponde un'attenzione verso il tempo di vita speso al di fuori del lavoro.
La situazione degli anni dieci è contraddistinta da rapidi e radicali mutamenti, ovunque, sia in USA che nella vecchia Europa; in Europa, però, l'utilizzo di un'organizzazione del lavoro fluida, che semplifica le mansioni operaie, è ancora episodica e limitata alla produzione bellica. La nuova classe operaia appare così precaria, instabile e contingente e quindi non se ne considera fino in fondo la natura produttiva e il suo essere classe operaia. Gli operai di mestiere dimostrano disprezzo e diffidenza non solo verso il nuovo modello produttivo ma anche verso questi nuovi acquisti alla produzione. Le organizzazioni sindacali europee non riconoscono come autenticamente operaio questo nuovo soggetto e, indipendentemente dalla loro posizione politica, continuarono a fare riferimento all'operaio di mestiere in quanto soggetto maturo e affidabile, in quanto espressione della  autentica cultura operaia, che era quella che poneva la professione al centro del lavoro e dell'affermazione del lavoro, tanto individuale quanto collettiva.
Le organizzazioni legate alle componenti riformiste dei partiti socialisti, inoltre, avendo accettato l'economia di guerra e la conseguente pace sociale richiesta, lungi dal riconoscersi nel nuovo soggetto che proprio lo sforzo bellico contribuiva a far emergere, e pur accettando di partecipare alla pianificazione congiunta che gli Stati richiedevano, continuarono a considerare l'operaio professionale il riferimento organizzativo e a farne una sorta di guida politica e ideologica di tutti i lavoratori di fabbrica. Il senso di responsabilità, l'attaccamento al lavoro si traducevano in una dote politica e strategica: saper comprendere le necessità del momento, evitare rivendicazioni e accantonare i propri interessi in funzione di quelli generali della nazione. Fu naturale usare la spontanea diffidenza dei qualificati contro i dequalificati per ottenere dentro la classe operaia una cinghia di trasmissione delle scelte strategiche del partito.
L'insofferenza dei giovani, delle donne e dei contadini, impiegati in massa nella produzione bellica, venne circondata, così, da un notevole cordone sanitario ideologico e politico. Ancora di più che con la fiducia ai crediti di guerra, i partiti socialisti europei parteciparono alla mobilitazione bellica con il quotidiano controllo che l'operaio qualificato esercitava su quello dequalificato, sul parvenu, sull'analfabeta politico.
Anche negli Stati Uniti, il locale Partito Socialista fece propria questa impostazione e qualificazione dei comportamenti operai.
I timori verso questo nuovo genere operaio non attraversavano solo il campo del movimento operaio storico e tradizionale, ma anche il fronte padronale. Sono suffcientemente chiari i rischi che possono generare da questa nuova categoria operaia, che sono rischi intrinsechi alla stessa organizzazione del lavoro, allo stesso concetto e rapporto di lavoro: il tempo di lavoro diventa, privo di qualifiche e di punti e momenti diversificati, un tempo anonimo, un tempo astratto che può produrre alienazione e quindi soggezione passiva ma anche, al contrario, estraneità. Il tempo di lavoro può diventare la materializzazione di un furto di parte della vita che non ha altri scopi che il furto stesso, che non si giustifica che nel furto stesso e non, come accadeva per il lavoro operaio professionalizzato, con la realizzazione di quel tempo nella generazione di qualcosa escluso da quel tempo stesso, di qualcosa di individuale e di creativo. Il lavoro di fabbrica non esige più contributi, ma solo attribuzioni di tempo. Il tempo, allora, diventa nemico, diviene odioso.
Inoltre, la natura di quei nuovi soggetti, spesso di origine contadina e di recentissima proletarizzazione, accentua le potenzialità di una radicale estraneità al lavoro. Quello che era accaduto durante la prima rivoluzione industriale e messo sa canto dalla seconda, viene richiamato nella terza: l'operaio di linea è, per la seconda volta e in maniera esponenziale, la negazione dell'artigiano. Il lavoro si presenta come tempo puro, perfettamente misurabile, inserito in un rapporto di dominio e non in un rapporto produttivo: il lavoro diventa, negli anni dieci, strumenti di dominio prima ancora che essere mezzo di produzione e la gerarchia e l'autoritarismo sostituiscono, nel comando di fabbrica, la sapienza tecnica degli operai 'fatti' e il paternalismo del datore di lavoro. 

6.7.3. Il linguaggio comune tra capitalismo e operaismo professionale: l'etica del lavoro

L'operaio qualificato rimane in fabbrica come un simulacro  vivente di un tempo di lavoro che non esiste più ma che serve ancora, come un relitto di una mentalità che non ha più alcun fondamento ma che è utile rifondare artificiosamente. Dentro la nuova realtà produttiva, dove il comando è autoritario e politico, l'etica del lavoro operaia non può fondarsi e non può che generarsi un anti-etica del lavoro, un rifiuto del lavoro o una soggezione militare al comando di fabbrica. Dietro questi due atteggiamenti, nascosto in questi, è una separazione dicotomica tra lavoro e operaio, tra impresa e operaio.
L'etica del lavoro dell'operaio di mestiere era stata veicolo di ipotesi di autogestione e autoorganizzazione della produzione, di autodisciplinamento dei produttori e di ipotesi quando non apertamente rivoluzionarie  comunque radicali e sovversive. Questa prospettiva progressiva si interrompe: l'oggetto del contendere non è più il lavoro e la qualità del modo di produzione, ma il tempo di lavoro e la produzione stessa. Chiunque faccia riferimento ai valori nel lavoro e nella produzione rientra, automaticamente, nel quadro della compatibilità con l'esistente e la rivoluzione dell'operaio di mestiere cessa di essere una rivoluzione.
L'etica del lavoro e l'affermazione dell'autogestione operaia diventano l'ideologia del comando di fabbrica, conformano le scale della gerarchia produttiva, diventano l'ideologia 'operaia' sulla produzione: disciplina, amore per la mansione, valorizzazione del tempo di lavoro proprio in quanto tempo controllato. L'operaio di mestiere perde il suo mestiere ma diventa il tecnico e il controllore, il responsabile, della produzione astratta. La prospettiva rivoluzionaria del tecnico diventa una prospettiva che non riguarda più la fabbrica, ma ciò che avviene fuori della fabbrica, che riguarda il partito politico: dentro la fabbrica l'antagonismo è riducibile a un maggior controllo operaio sulla produzione contrapposto alla svalorizzazione immessa dal capitale. Per il relitto dell'operaio di mestiere l'antagonismo era tra valorizzazione operaia e svalorizzazione capitalistica del lavoro operaio. La valorizzazione operaia intendeva recuperare il lavoro alla sua dimensione professionale, qualificata e cosciente, mentre la svalorizzazione capitalistica puntava alla sua definitiva alienazione. In tal maniera, però, l'operaio di mestiere forniva, in forme critiche, un puntello notevole all'ideologia del lavoro del capitale: il lavoro rimane un valore operaio, nonostante ogni svalorizzazione. Insomma bisognava pur sempre amare il lavoro.
La nuova gerarchia di fabbrica si armò e fu armata di questa ideologia della valorizzazione del lavoro, alla quale corrispondeva perfettamente
sul terreno della strategia politica il gradualismo riformista o l'evoluzionismo massimalista: l'attesa della socialismo e dei tempi per quello maturi. E in perfetta corrispondenza le organizzazioni socialiste e sindacali affidarono all'operaio qualificato (l'unico soggetto che avesso il senso e la responsabilità autentica del lavoro) il ruolo di stella polare nelle strutture organizzate. Il nuovo comando del capitale e le organizzazioni tradizionali del proletariato parlavano dunque lo stesso linguaggio.
L'etica del lavoro divenne così il vero terreno di reciproca comprensione e il fondamento di ogni scambio contrattuale tra il movimento operaio e l'organizzazione del lavoro capitalistica. La dirompenza dello sviluppo capitalistico richiedeva proprio l'occultamento del suo carattere dirompente, del fatto che il lavoro diventava, in realtà, il termine di una relazione di subordinazione assoluta e che, al di fuori di quella, non aveva alcun valore e significato sociale. Lo spettro di una dittatura assoluta nella produzione prendeva corpo, in quanto il governo sulla produzione non poteva essere contrastato da ragionamenti sulla produzione ma semmai dalle prime critiche alla produzione, dalle prime rivendicazioni antiproduttive. Non casualmente l'acronimo della prima organizzazione americana di operai unskilled, gli IWW, veniva sciolto, con disprezzo, dalla stampa conservatrice come I wont work, io non voglio lavorare. 

6.7.4. Nuovi linguaggi

Il declino della vecchia composizione di classe e l'emergere di una nuova non determinarono solo conflitto ma anche contaminazione. A partire dal 1916 si sviluppò un ciclo di lotte sul salario al cui centro erano gli operai di mestiere, gli skilled, e le organizzazioni sindacali legate e affini alle componenti massimaliste dei partiti socialisti; l'anno seguente, quel ciclo di lotte si allargò anche ai dequalificati. Questo allargamento, però, determinò un cambiamento nelle forme di lotta: si verificarono sabotaggi alle macchine, capaci di fermare la produzione e favorire l'adesione agli scioperi, come pure esplose il fenomeno dell'assenteismo pre e post festivo. Tutte cose del tutto estranee alla tradizione sindacale corrente.
Se poi l'operaio di mestiere affidava al partito e alla sua coscienza organizzata la gestione dei fatti sociali e politici generali, gli scioperi del 17 ruppero questa delega: spessissimo le agitazioni si trasformarono in azioni dirette contro il carovita (più o meno ovunque), dove la componente femminile era preponderante. Ci furono manifestazioni di donne e operaie in Italia e in Germania  e, addirittura, l'inizio della rivoluzione di febbraio in Russia fu segnato da una imponente manifestazione di operaie a Pietroburgo. Le rivolte per il prezzo politico del pane furono scambiate dai partito socialisti, con una certa sufficienza e una sicura malafede, con un arretramento alle jacquerie medioevali,  con un ritorno all'inconsapevolezza. In realtà, come era già accaduto negli Stati Uniti nel 1910, gli operai dequalificati, la categoria salariale più povera e meno coinvolta nel valore del lavoro, pretendeva di esprimere un controllo diretto sulla vita sociale, sul tempo libero dal lavoro. Il carattere diretto di questa azione escludeva la mediazione politica offerta dalle organizzazioni operaie esistenti, richiedeva il controllo diretto dei quartieri, la contrattazione su affitti e pigioni, sul prezzo del pane e della carne, la contrattazione sulla vita quotidiana.
Il terreno della riproduzione del capitale veniva investito direttamente dalle nuove lotte operaie, proprio perché la produzione perdeva il significato sociale che fino ad allora aveva avuto.
Le organizzazioni operaie, legate analiticamente alla precedente costituzione di capitale, stentavano a capire o rifiutavano di capire quale fosse il senso delle lotte operaie contro la 'razionalità economica' e bellica del 1916 e 1917. Era, in realtà, la critica a quella razionalità da loro stessi condivisa e tenuta presente anche per il potenziale processo rivoiluzionario seconda la quale le lotte non dovevano introdurre rottura nel meccanismo della produzione e nella gestione del tempo di lavoro, ma continuità, in una ulteriore razionalizzazione.
L'intelligenza del capitale, al contrario, non interpretò quei fatti come una regressione alla fase 'anarchica' e pre-moderna della storia del proletariato, ma intese subito i caratteri nuovi dell'antagonismo che il suo stesso sviluppo contribuiva a delineare e che non era riassumibile, come il precedente, sul terreno della dialettica valorizzazione / svalorizzazione del lavoro, quanto su quello più generale della valorizzazione / svalorizzazione della riproduzione di capitale, della valorizzazione / svalorizzazione sociale. Lo Stato era lo strumento per governare questa dialettica e l'interventismo pubblico sperimentato durante la guerra era la base di partenza per questa nuova avventura e la linea da percorrere verso il nuovo scenario.

7. Tra guerra e dopoguerra

7.1. Le strozzature europee

Lo Stato si era dotato della strumentazione adeguata a intervenire sui rapporti sociali generali e non più come forza esterna ma interna e implicita. L'antagonismo operaio degli anni '16 e '17 aveva investito, per la prima volta, partendo dalla fabbrica la società, aveva dimostrato e rivendicato la permeabilità tra fabbrica e società, produzione e riproduzione del capitale. Questa nuova emergenza imponeva alla Stato nuovi compiti e nuovi orizzonti operativi. I cicli di lotte di questi anni di fine guerra sono fondamentali nel provocare l'evoluzione dello Stato negli anni venti e trenta. Lo Stato deve farsi sociale.
In alcuni paesi questa trasformazione statuale non potè realizzarsi; questa corsa verso il sociale in forme implicite e interne, come elemento interno ai rapporti di produzione e sociali, e non potè realizzarsi per vischiosità endogene che dipendevano da una struttura di potere arretrata, legata a concrezioni istituzionali pre borghesi e protoborghesi, a forme monarchiche autoritarie e a una debolezza politica del capitale nelle istituzioni o esogene che provenivano dai rovesci militari, dalla perdita dell'influenza coloniale. L'inceppamento di questo processo di socialità statuale comportò la crisi rivoluzionaria, la Russia del 1917, la Germania e l'Austria del novembre '18, l'Ungheria del 1919 e l'Italia del biennio '19 - '20. La sconfitta degli imperi centrali può anche essere letta come il prodotto di questa incapacità a determinare una socialità statuale e anche, in un effetto che rincorre la causa e si confonde con quella, che interagisce con quella, come il motivo per il quale Germania e Austria non poterono evolvere lo Stato in una dimensione sociale.
L'esito della guerra e, in generale, le dinamiche belliche, la storia della grande guerra, rendono palese che negli imperi centrali, ma anche in Italia e Russia la necessità della pianificazione economica e sociale era una necessità bellica, un episodio contingente, mentre, al contrario, la classe operaia aveva scoperto proprio attraverso la socialità della produzione bellica il suo ruolo decisivo nelle relazioni di potere sociale. In quei paesi, il capitalismo ragionava per episodi, mentre la classe operaia ragionava secondo strategie universali che la univa al resto della classe operaia internazionale. In Germania, Austria, Ungheria, Russia e Italia, il capitalismo scelse la socialità in ragione della militarizzazione della produzione e della società, mentre la classe operaia sceglieva la socialità per la demilitarizzazione e denazionalizzazione dell'economia.
È un dato di fatto che la caduta di tre monarchie storiche europee al termine della guerra fu conseguente a crisi rivoluzionarie. In Russia, la crisi rivoluzionaria comportò il decadimento del capitalismo e la sua sospensione, almeno nelle forme nelle qualo si era espresso fino ad allora, e l'avvio di una fase politica ed economica tendenzialmente comunistica che durò fino al '20; in Germania, la borghesia fu costretta a sacrificare l'istituzione monarchica e a fare della repubblica l'obiettivo del movimento operaio in ragione di un riequilibrio, a lei favorevole, dei rapporti politici e sociali. Il movimento operaio tedesco si spaccò di fronte alla trappola repubblicana e l'illusione di una repubblica sociale. Gli eventi tedeschi, però, disegnano una strozzatura della dialettica politica, uno spostamento della sua focalizzazione dal terreno dello stato sociale a quello dello stato democratico e partecipato; invece che un allargamento degli spazi di intervento dello Stato, si fa avanti un allargamento delle istituzioni politiche dello Stato.
L'impulso strategico proposto anche al capitale dall'operaio astratto e comune, che era stato protagonista delle lotte di fine guerra e della 'rivoluzione repubblicana', venne sostituito e obliterato - rimarcato - da un impulso verso una partecipazione democratica allargata.
Negli Stati Uniti si praticava la pianificazione della mediazione sui conflitti sociali, invece, da almeno un ventennio. Questo non significa affatto che la nuova ed emergente composizione di classe operaia, l'operaio comune e dequalificato, trovasse una diretta rappresentanza sindacale o che lo Stato sia andato sempre direttamente incontro ai nuovi scenari di intervento che le lotte sociali implicavano, ma, pur mantenendo l'intelaiatura professionale e la divisione per mestieri le rappresentanze sindacali si danno una forma di categoria, una forma industriale, cosicché, ancora sotto la guida della vecchia leadership e sotto l'egemonia politica delle vecchie e nuove aristocrazie operaie, la spinta del nuovo soggetto ottiene accesso alla contrattazione.
In Europa questa trasformazione inizia solo dopo il 1917, solo dietro l'esempio o la grande paura della rivoluzione russa, e caricata da urgenze e valenze politiche specifiche. Anche perchè in Europa i comportamenti autonomi operai erano egemonizzati dalla classe operaia qualificata e professionalizzata; qui l'ideologia ufficiale del movimento operaio, il socialismo riformista, contribuì a recuperare la spinta dal basso.
È  certo che dopo il 1916 la socialdemocrazia entrò in crisi: in primo luogo la ristrutturazione della produzione che l'economia di guerra impone, indebolisce la sua base sociale, in secondo luogo la politica di accettazione attiva della guerra, ma anche quella passiva, secondo il modello pacifista uscito da Zimmerwald, determinarono una grave crisi di credibilità e popolarità. Questa crisi tocca, in realtà, tutto il fronte socialdemocratico, anche quello massimalista e rivoluzionario che non ebbe la capacità e il coraggio di slegarsi dal progetto, dal tessuto organizzativo e ideologico della socialdemocrazia riformista. Le alternative che i massimalisti proposero erano tutte fondate su un terreno ideologico e finivano per essere socialmente e politicamente deboli.
Quel terreno ideologico, infatti, fondava gran parte delle sue teorizzazioni sui comportamenti e atteggiamenti degli operai di mestiere e qualificati, precisamente come nella fondazione riformista, e non riprendeva la profonda critica all'organizzazione del lavoro che i nuovi soggetti avanzavano: il lavoro rimaneva neutro, solo il governo del lavoro aveva una parte sociale. Era naturale che i massimalisti restassero all'interno delle organizzazioni della seconda internazionale.
In entrambe le componenti del fronte socialista non si vedeva l'emergere delle nuove esigenze operaie e della nuova critica operaia alla produzione e si rispettava la dicotomia e la stratificazione che lo sviluppo capitalistico aveva introdotto nella classe operaia. La nuova fase del lavoro operaio sfuggiva alla comprensione delle istituzioni storiche degli operai. Il fatto che la scissione tra socialdemocrazia tedesca e comunisti tedeschi avvenga, in Germania, solo nel '19 e dopo l'insurrezione di novembre 1918 e che in Italia la separazione avvenga nel 1921 e dopo il biennio rosso descrive molto chiaramente questa incapacità di comprendere il movimento reale degli operai. Fu uno strappo ideologico solo indirettamente  - e la cronologia rispecchia questa mediazione - provocato dai nuovi e dirompenti contenuti delle lotte del primissimo dopoguerra.

7.2. La rivoluzione russa e le lotte internazionali 

7.2.1. L'autocrazia e il capitalismo

Questa capacità di intendere la nuova fase operaia non si realizzò neppure nelle organizzazioni del movimento operaio russo, bolscevismo e menscevismo furono lontanissimi dal leggere la nuova composizione di classe in maniera diretta, ma la nuova fase operaia fu aiutata piùttosto che dalla progressione del pensiero socialista e poi comunista russi , dall'arretratezza dello sviluppo capitalistico in Russia, che generò nuove contraddizioni senza avere il tempo di isolarle e separarle da tutte quelle ereditate da un passato e presente ancora semifeudale. Si determinò una combine disastrosa per la monarchia zarista e per il suo parlamento a base ristrettissima, la duma di Stato. La Russia era certamente un paese capitalistico, con una trentennale industrializzazione, ma un'area di sottosviluppo capitalistico, cioè egemonizzata dagli investimenti esteri nel settore industriale. In questo contesto le lotte operaie si traducono, immediatamente, come motore e volani non solo dello sviluppo economico ma anche di quello politico e istituzionale. Nella moltiplicazione degli attori sociali, che affianca il conflitto tra capitale e lavoro, aristocratici, redditieri agricoli, mezzadri, fittavoli, proprietari agricoli comunitari e, infine, coltivatori diretti, artigiani, la lotta tra capitale e lavoro assume spesso il ruolo di avanguardia nella più generale lotta per una democratizzazione dello Stato russo, avanguardia che si porta dietro il variegato mondo della campagna russa. La proprietà privata, in Russia, ha così due facce: è già dominio, nel settore della produzione industriale, ma è ancora liberazione nelle campagne di fittavoli, mezzadri e coloni a diverso titolo. In Russia la proprietà privata dei mezzi di produzione è la forma egemone nei rapporti economici ma non è ancora una forma generale compiutamente socializzata.
Mancò così allo sviluppo capitalistico un saldo retroterra sociale e culturale e soprattutto, conseguentemente, uno Stato istituzionale capace non solo di dare risposte dirette e lineari a questo sviluppo, ma di comprendere veramente i nuovi orizzonti nei quali doveva imparare a muoversi. La monarchia zarista, legata alla sua autocrazia e legata alle ascendenze dell'aristocrazia, non era capace di vedere chiaramente il borghese di campagna e non vedeva il borghese di città, se non come avventuriero tecnologico e divertente episodio del costume.

7.2.2. Lo strano operaio, contadino e soldato russo

7.2.2.1. Il contro - Stato

Dal punto di vista proletario, la Russia combina due elementi diversi, un operaio qualificato e un soggetto dequalificato, ma per la costituzione di capitale il soggetto dequalificato pare assolutamente maggioritario, non tanto in ragione della automazione, quanto in ragione della basso livello di quella. Quello che tiene unita questa classe operaia è soprattutto la comune e universale origine contadina. Gli operai russi sono quasi tutti classe operaia di prima generazione.
Il lavoro salariato in genere, in Russia, era un fenomeno di prima generazione. L'attivazione di sistemi di pagamento del lavoro tramite il salario nella campagna era recente e conviveva con relazioni di dipendenza extraeconomici. Il corrispettivo in campo militare della disciplina industriale si applicava in Russia attraverso una gerarchia militare che faceva perno sui lignaggi aristocratici. Alla produzione industriale rispondeva una classe appena inurbata, alla razionalizzazione agricola una massa sottoposta a prestazioni tradizionali ed extraeconomiche, ad un esercito moderno un comando, una disciplina e un'organizzazione gerarchica pre - moderna. La Russia era l'incarnazione della legge  dello sviluppo diseguale.
In una tale situazione il conflitto tra capitale e lavoro tende a politicizzarsi subito, a diffondersi nella società per osmosi, perchè si verifica uno spontaneo riconoscimento tra soggetti diversi sulla base della loro comune condizione di subordinati. L'operaio di fabbrica si immedesima nel contadino sottoposto ad alcune servitù, come il mezzadro si riconosce nell'operaio ed entrambi nel soldato contadino - operaio che combatte al fronte.
Il fronte proprietario, invece, non è così solidale: la nuova borghesia fatica a riconoscersi nella vecchia rendita agraria, la rendita agraria fatica a comprendere lo spirito imprenditoriale e lo censura ed entrambe criticano la monarchia zarista. Lo Stato dello Zar non riesce a istituire un blocco di potere.
Le risposte alle lotte operaie e contadine sono quasi sempre di tipo militare e ricalcano, quindi, solo la funzione primigenia dello Stato capitalistico, funzione dentro la quale l'autocrazia zarista si trova perfettamente a suo agio, rimanendo una monarchia in larga parte assoluta; innegabilmente si procede a qualche timida concessione verso la democrazia rappresentativa e politica, quasi che fosse solo quello l'oggetto dello scontro, concessioni del tutto insufficienti a seguire la situazione e tanto meno ad anticiparla.
Lo Stato e l'organizzazione statuale dello Zar lasciava al contrario vuoti di intelligenza e progettazione politica gran parte degli spazi della società, che diventarono delle vere e proprie terre di nessuno dove l'intelligenza o la semplice intraprendenza politica dell'antagonismo proletario (operaio e contadino indifferentemente) si insediava, riempendoli. In tal maniera, i partiti storici del movimento operaio e contadino russo, la socialdemocrazia divisa nelle sue due frazioni menscevica e bolscevica, e i socialrivoluzionari si trovarono davvero a poter utilizzare un progetto configurato dal basso, un progetto della spontaneità, operaia e contadina.
Il primo esempio di questa intraprendenza proletaria e genericamente 'popolare' fu lo sciopero generale del 1905, al quale seguì l'insurrezione operaia e popolare a Pietroburgo e la formazione di un'assemblea rivoluzionaria, eletta per mandato imperativo e secondo procedimenti consiliari. Il soviet di Pietroburgo del 1905 riempì la società di progettualità politica, dando ai settori sociali più disparati rappresentanza diretta.
Il soviet di Pietroburgo rimase, anche per il riferimento propagandistico costante di bolscevichi e menscevichi a quello, lo spazio politico ideale per operai e contadini, l'istituzione capace di dare un senso alla società: un nuovo e possibile Stato. Esisteva in Russia, oltre, dietro e al di là dei partiti tradizionali di operai e contadini, un'organizzazione spontanea, una rete di comunicazione potente e orizzontale, il basamento concreto di un contro - Stato.

7.2.2.2. Socialrivoluzionari, menscevichi e bolscevichi

I partiti tradizionali del movimento operaio e contadini non avevano alle spalle, come nel resto dell'Europa, una storia riformista; il riformismo era un'importazione dalla seconda internazionale, ma non era nutrita da una elaborazione locale. Questo è comprensibile anche per la natura del movimento operaio e proletario della Russia.
La scissione di gran parte dei partiti socialisti russi dalla socialdemocrazia e la loro effettiva indipendenza è un prodotto di un accentuazione nazionalista e panslavista nei socialrivoluzionari e nei bolscevichi e nei menscevichi della constatazione della inattualità, in Russia, del riformismo europeo, ma alla base di entrambe le opzioni è anche questo carattere diffuso e di massa dell'antagonismo proletario che sogna un contro - Stato. La scissione dalla socialdemocrazia fu naturale, un risultato spontaneo, paradossalmente là dove gli elementi arretrati della società russa avrebbe potuto collaborare a un rafforzamento della dialettica riformista.
Le ipotesi gradualiste della socialdemocrazia, se potevano essere recepite sul terreno della lotta politica e istituzionale, non lo potevano su quello della lotta sociale ed economica, in quanto tutte legate a una teoria dello sviluppo lineare del capitalismo che in Russia non era credibile. La rivoluzione, o meglio anche la riforma, in Russia si può realizzare come affermazione di una nuova società, non come un'azione che parta dall'alto, dal concerto tra élite e dal compromesso tra quelle e i rappresentanti del proletariato.
Per i bolscevichi e i menscevichi di sinistra, la borghesia russa non ha la capacità di produrre il suo Stato e di abbattere la monarchia, mentre  i socialrivoluzionari  non pensano a un stato politico - sociale intermedio gestito dalla borghesia ma immaginano una rivoluzione contadina che chiuda anche con l'occidente e con il capitalismo in quanto fenomeno occidentale. Solo la frazione della destra menscevica pensò a una fase intermedia di democrazia parlamentare e suffragio universale, gestito dalla borghesia con l'appoggio attivo del proletariato.
I bolscevichi, dopo il ritorno di Lenin nell'aprile 1917, teorizzarono l'organizzazione politica comunista come il momento più alto della consapevolezza sulla fase storica, proprio perchè coordina e organizza le esigenze  proletarie che stanno comunque avanti, che anticipano l'organizzazione: il proletariato russo, secondo Lenin, sta davanti, indica la strada, la consapevolezza comunista la segue.

7.2.3. L'Europa nel cortocircuito

L'impatto della rivoluzione russa sarà fortissimo e profondo. Gli anni venti sono stati quelli che abbiamo conosciuto, in gran parte per conseguenza di questo impatto che si giocò su moltissimi livelli.
In primo luogo, la rivoluzione chiuse un ciclo di lotte operaie per aprirne subito un altro. In secondo luogo, la rivoluzione determinò un ripensamento sul progetto capitalistico e una crisi seria in quello. La guerra internazionale finiva, si risolvevano le contraddizioni per le quali era nata, ma i fatti russi ponevano una serissima incognita sulla possibilità di realizzare compiutamente il nuovo assetto geo - politico.
In terzo luogo, la sconfitta degli Imperi centrali aveva, infatti, comportato la scomparsa di uno dei protagonisti dell'intesa e dei paesi in vista dei quali si era organizzata la pace e la riorganizzazione post bellica. La vittoria dell'intesa finì per essere una mezza - vittoria, una vittoria mutilata di un alleato. La prima guerra mondiale, così, non riesce a sancire nuovi equilibri di capitale: vincitori e sconfitti si assomigliano, non avendo saputo trasformare la composizione di capitale se non in relazione e in proporzione delle necessità di comandare la produzione bellica e la macchina militare. La guerra non aveva risolto i problemi statuali interni a ciascun paese belligerante e l'umiliazione della Germania a Versailles va spiegata in questo modo: una compensazione a una incapacità interna, una compensazione alle difficoltà di progettazione capitalistica in Francia e Gran Bretagna.
Questa situazione di economia politica ha un suo fondamento / rappresentazione in un dato di volgare economia: Francia e Inghilterra avevano usufruito di prestiti americani per finanziare il loro sforzo bellico, erano, quindi, indebitate con il loro alleato. La strozzatura nello sviluppo del capitalismo europeo si rappresentava concretamente con un elemento contabile, con un debito contratto, e contratto non casualmente con chi poteva garantire invece allo sviluppo capitalistico un'autentica linearità.
Dall'alto del loro credito e dall'alto della superiore costituzione di capitale - che sono quasi sinonimi - gli Stati Uniti potevano presentarsi - ed essere veramente - come l'unico paese in gradi di esercitare una mediazione internazionale, una mediazione post bellica, e il paese - guida della pace. Poi Wilson, il presidente dell'epoca, non poté, per svariate ragioni, raccogliere i frutti che naturalmente cadevano da quest'albero.
Ad aggravare la situazione per i vincitori europei del conflitto mondiale furono i tentativi insurrezionali in Germania nel novembre del '18 e soprattutto la formazione di repubbliche autonome e socialiste, per certi versi 'sovietiche', in Turingia e Baviera, oltre che la rivoluzione socialista in Ungheria. Gli Imperi centrali, sconfitti, non parevano capaci di sopportare la sconfitta all'interno delle compatibilità e delle regole dell'economia capitalistica, ma sposare vie di fuga bolsceviche da quella. Wilson, tutt'altro che filantropicamente, denunciava la logica della vendetta e della rivalsa di francesi e inglesi, in quanto incapace di far vincere la pace a questi e soprattutto in quanto capace di rendere il debito contratto con gli americani durante la guerra più facilmente ripagabile. In un tal contesto gli Stati Uniti perdevano la possibilità di amministrare il dopo guerra europea e quindi di vincere la loro parte di pace, che era quella più cospicua.
Accadde comunque proprio così: tutti, USA compresi, persero la pace, mentre gli imperi centrali continuarono a essere gli sconfitti di una guerra che, alla fine, sotto il profilo dell'economia politica, non aveva avuto vincitori.
Maynard Keynes criticò, considerandolo come un portato soggettivo, l'atteggiamento dei paesi vincitori, ma in realtà questo atteggiamento fu determinato da fatti oggettivi e forse ineluttabili.
La prima guerra mondiale, sotto molti punti vista e soprattutto dal punto di vista dell'economia politica, fu un vero fallimento della Storia; l'Europa si dibatté sotto il profilo della economia politica e dell'organizzazione del potere statale nelle aporie lasciate aperte dal conflitto per tutti gli anno venti, mentre le aporie generali, i disequilibri internazionali, che la guerra aveva lasciato aperti, arricchiti dall'effetto della rivoluzione russa, porteranno alla grande crisi economica del '29 - '33.
L'arretratezza della costituzione di capitale in Europa che comportava l'arretratezza dello Stato si inserì nell'economia mondiale come una mina vagante: la rivoluzione russa rappresentava la pericolosità di questa mina, la sua potenza deflagrante. Il mantenimento, nei paesi europei, di un sistema di dominio del sottosviluppo di tipo coloniale, che si accoppiava, con perfezione e naturalezza, alle vischiosità di tipo protocapitalistico nella composizione dello Stato tendevano a generare anziché sviluppo, cortocircuiti nello sviluppo.
La rendita fondiaria ed atteggiamenti redditieri erano prevalenti nell'economia agricola, la piccola borghesia era in crisi di identità dentro il nuovo sistema industriale, che puntava a una progressiva dequalificazione del lavoro in generale, ad eliminare le componenti artigianali e creative in quello, ma funzionava ancora come classe di supporto alla produzione, senza aver un preciso ruolo nella riproduzione del capitale. Paure e mentalità nuove assumono, in Europa, le vesti di paure e angosce antiche. Nel complesso dell'ecologia mondiale del sistema capitalistico, nonostante il fallimento del globalismo del presidente Wilson, gli Stati Uniti fanno da contrappeso, per tutti gli anni venti, all'arretratezza europea, funzionano come calamita, come polo calamitante.
Ma, analizzando la situazione mondiale, si riproduce un meccanismo di dominio sociale vecchia, che si basa su valori sorpassati concretamente dalla costituzione di capitale, che affronta o cerca di affrontare esigenze sociali nuove, una nuova composizione operaia che usa non solo la fabbrica ma anche la società, ed esigenze politiche inedite, la rivoluzione russa, una sorta di comune di Parigi su scala internazionale.
La radice, o meglio una delle radici del fascismo e poi del nazismo, è la necessità di affrontare questa novità facendo il verso di rinnovarsi, fingendo il rinnovamento o meglio amministrando la necessaria socializzazione dello Stato in maniera autoritaria.

7.3. Un grande ciclo di lotte 

7.3.1. La riconversione post bellica

Non è un caso che, in tutti i paesi europei, l'esperienza di pianificazione industriale venga liquidata subito dopo la fine del conflitto e che l'amministrazione della riconversione produttiva sia affidata a capitalisti privati. In Europa, gli schemi della produzione massificata, ripetitiva e uniforme, fuori dal conflitto, non valgono: l'economia capitalistica europea rimane ancorata a un modello di sussistenza, di decorosa riproduzione della manodopera, di domanda depressa: il salario rimane solo un costo, non una ricchezza, non una fonte di domanda. Una certa porzione di lavoro dequalificato, però, si mantiene centrale e in alcuni settori industriali (minerario e metalmeccanico) si fa tesoro delle esperienze acquisite in guerra. Il processo di riconversione generale restituisce all'operaio di mestiere e qualificato centralità nella produzione industriale e spesso lascia a quello la funzione del controllo operativo dei processi, contemporaneamente il nuovo soggetto dequalificato rimane all'interno della fabbrica.
Erano state proprio le lotte durante la guerra a ottenere una sostanziale parità salariale tra qualificati e non qualificati e i meccanismi stessi di costruzione del salario avvicinavano i due soggetti. In realtà, nella percezione dei capitalisti e nella realtà effettiva, il principale nemico, il soggetto contro il quale si calibrano tattiche e strategie sociali, era ancora l'operaio qualificato, in quanto capace di pesare sul flusso produttivo in maniera determinante, se non ancora decisiva, a causa della struttura stessa del flusso che non prevedeva segmentazione e semplificazione in ogni sua linea.
Il problema che offriva il nuovo soggetto, l'operaio comune e non professionalizzato, era sentito come secondario. Il fatto che il nuovo operaio manifestasse, al contrario di quello di mestiere, un elevato grado di estraneità agli scopi della produzione e un atteggiamento critico nei confronti dell'organizzazione e delle gerarchie di fabbrica, il fatto che fosse tendenzialmente assenteista e che spesso sabotasse la produzione, cioè il fatto che adoperasse forme di protesta del tutto nuove ed interne alla produzione (mentre l'operaio di mestiere lavorava dall'esterno nella sua critica, si limitava a sospendere il lavoro) era sentito come un episodio, anche interessante, della produzione bellica; si spiegavano questi nuovi comportamenti con il fatto che si erano introdotti nel meccanismo produttivo soggetti tradizionalmente estranei alla fabbrica - adolescenti, donne e contadini - e quindi con una tesi sociologica e non economica. Era chiaro che, però, se l'immissione di questo soggetto fosse diventata prioritaria, allora le tecniche di diretta strutturazione delle gerarchia in fabbrica e di altrettanto diretto intervento dello Stato nella produzione, nella contrattazione aziendale e nella gestione del tempo libero sarebbe stato inevitabile. Parve tutto, in Europa, prematuro. Questa valutazione comporterà direttamente il fascismo e il nazismo nei paesi sconfitti e in quelli che maggiormente patirono la mutilazione della vittoria nel conflitto. I tempi nuovi erano già in atto e non alle porte: si rispose, risvegliati dal sogno, con l'affanno, quindi.
La liquidazione dell'esperienza dei comitati ministeriali per la produzione bellica ebbe questo senso: ritornare alla normalità economica.

7.3.2. Il sessantotto della prima metà del nostro secolo

La permanenza, però, di un alta e tradizionale politicizzazione nello strato operaio professionalizzato, messa accanto alla comparsa di un nuovo operaio disposto ad antagonismi impliciti alla produzione non fu priva di conseguenze sociali e politiche.
Il ciclo di lotte che segue la rivoluzione russa e la fine della guerra, un ciclo databile al periodo 1918 - 1922, è leggibile in questa permanenza e apparizione. In Germania, i centri di propulsione del movimento sono duali: l'industria meccanica e chimica del centro sud, dove gli operai senza qualifica sono centrali e protagonisti, i centri siderurgici e l'industria pesante del settentrione. I due fronti si unificano dando vita a un fronte di lotta unitario. Dal 1919 anche l'Italia vive un crescendo di agitazioni che sfociano nell'occupazione delle fabbriche e delle terre. Così pure negli Stati Uniti dove il peso del nuovo soggetto operaio è maggiore e dove lo Stato conserva la sua azione in campo sociale, dal 1919 al 1922 si verifica un crescendo di lotte sempre più radicali e generalizzate.
In gran parte di queste lotte si mette in discussione il potere nella fabbrica, si formano  consigli operai che gestiscono direttamente la produzione, e l'esperienza degli operai qualificati, che si sentono in grado di gestire autonomamente la fabbrica, si coniuga con il radicalismo degli operai comuni, che rifiutano spesso il lavoro di fabbrica. Spesso, tanto in Germania, quanto in Italia e negli Stati Uniti, le agitazioni assumono caratteri insurrezionali, gli stabilimenti vengono occupati dalle maestranze armate (spesso con le armi ereditate dalla grande guerra).
Certamente il dualismo tra qualificati non qualificati è presente. I primi praticano e propugnano l'autogestione della produzione, mentre i secondi richiedono la fine del sistema di lavoro di fabbrica.
In Germania e negli Stati Uniti, il conflitto armato accompagnò il ciclo di queste lotte: ci furono sparatorie tra operai, milizie assoldate dai padroni e polizie municipali. Le fabbriche occupate divenivano la base di un contro - Stato che se non era direttamente sovietico, si ispirava all'esperienza dei Soviet. Ovunque, le organizzazioni tradizionali del proletariato, i partiti socialisti e i sindacati, o furono investiti ed egemonizzati dall'ondata spontanea, o furono scavalcati da nuove formazioni che si ispiravano spesso al partito comunista russo.
Qual'era l'elemento unificante di quest'onda di lotte? Quello di interessare l'intero tessuto sociale. Rivendicazioni salariali cospicue nelle fabbriche e richiesta di una severa limitazione delle gerarchie e autorità di fabbrica, rivendicazioni sugli alloggi e gli affitti, con occupazioni di case e appartamenti (USA e Germania), ma ancora, soprattutto nelle campagne, contestazione all'organizzazione gerontocratica, patriarcale e maschile dei braccianti, in Italia il sistema del capoccia, che pretendeva di controllare e direzionare le lotte contadine: l'adesione alla lotta comportava anche l'eliminazione di vecchi codici di potere ereditati dal passato. Il '18 - '22 mondiale fu una sorta di sessantotto dell'operaio di mestiere e dei contadini: non solo il mondo della produzione ma anche quello della riproduzione del capitale veniva messo in discussione.
L'antagonismo, e non solo quello operaio ma anche quello contadino, si proiettava sul terreno della riproduzione del capitale e del lavoro salariato e gli obiettivi, anche quelli maggiormente legati alla fabbrica e a un particolare strato operaio come quello, diffusissimo, del job control, dell'autogestione del lavoro e degli impianti, o quelli legati a una pre - capitalistica fame di terra contadina, assumevano, rispettando il contesto lavorista dello skilled, il senso e manifestavano il desiderio e la volontà di organizzare in maniera diversa l'intera società e dal basso, partendo dalla fabbrica e dai campi. 

7.3.3. Il sessantotto di inizio secolo e il capitalismo

Le lotte di quegli anni, sicuramente catalizzate ed entusiasmate dall'esperienza russa, gettarono un'autentica tempesta sui tentativi di ristrutturazione del capitale, che si volgeva in principale modo verso l'operaio di mestiere e la sua posizione nella produzione di fabbrica. La ristrutturazione non riuscì a darsi una forma organica e una dimensione strategica, proprio per questa resistenza che coinvolgeva soggetti operai vecchi e tradizionali e nuovi ed emergenti. La ristrutturazione non riuscì a far emergere un nuovo codice sul lavoro salariato e frantumò, limitandolo, il suo sforzo, che si direzionò così in una lotta contro l'operaio di mestiere. Anche negli Stati Uniti questo disorientamento si fece sentire.
Il capitalismo aveva, dentro sé, interessi molto diversificati per riconoscersi in una strategia dello sviluppo che fosse veramente collettiva, per comportarsi come una potenza astratta anche dal punto di vista dell'economia politica.
L'operaio qualificato e i settori produttivi o i segmenti produttivi nei quali era impiegato erano ancora centrali nell'economia europea e anche se si constatava l'enorme contrattualità che questa figura aveva assunto, dall'altra si vedeva chiaramente il rischio connesso alla nuova composizione di classe, a quell'operaio comune che più che essere contagiato aveva esso stesso contagiato l'operaio di mestiere.
L'operaio di mestiere si identificava nel lavoro e nei suoi risultati, perché collaborava al processo produttivo in maniera decisiva, la macchina automatizzata era usata dall'operaio e spesso personalizzata; questo costituiva la sua forza nei confronti del padrone, ma anche la sua debolezza: sul terreno del lavoro e dei suoi significati, il capitalismo e l'operaio di mestiere potevano trovarsi concordi. I terreni per una possibile mediazione tra capitale e questo soggetto operaio erano ampi e la radicalizzazione dell'operaio professionale, pur nascendo in fabbrica e dalle contraddizioni presenti nella fabbrica, non si spendeva nella sua parte fondamentale dentro la produzione ma fuori di quella, nella lotta salariale, nella lotta per gli incentivi o per il controllo e organizzazione della produzione e si spendeva, soprattutto, sul terreno ideologico, su un progetto di una nuova società, di un nuovo potere al quale avrebbe corrisposto un autogoverno della fabbrica capitalistica, ereditata dal capitalismo. Questo era il socialismo dell'operaio di mestiere. Il nuovo soggetto, al contrario, non era affascinato da questa eredità: non si trattava, per quello, del potere sulla produzione o del suo controllo, ma del potere in fabbrica, del fatto che gerarchie e comandi di fabbrica sarebbero dovuti scomparire.
Se la ristrutturazione verso modi di produzione a più alta concentrazione di capitale e a forme di lavoro segmentato, parcellizzato, ripetitivo e dequalificato era necessaria e se, quindi, era necessario sostituire la figura dell'operaio professionale, non era possibile, sia per il capitale europeo che per quello USA, farlo in una situazione come quella del '18 - '22, dove l'operaio professionale attaccato e delegittimato, perdendo il controllo del processo produttivo, finiva per richiamare quello dequalificato in un fronte comune e alla fine per fare sua radicalità di quello. Era necessario rendere l'operaio professionale paradigmatico del lavoro in generale senza che a questo paradigma corrispondesse più la  realtà produttiva: era necessario fare in modo che la rappresentanza istituzionale della classe operaia facesse riferimento a questo paradigma, che divenuto ideologia, egemonizzò la rappresentanza sindacale.
Andava, però, introdotta una ristrutturazione ben più generale per la quale l'ideologia doveva adeguarsi e rappresentare la realtà delle cose, una rifondazione dei rapporti generali alla stessa maniera nella quale quella nuova classe operaia, emergente e collaterale a quella professionalizzata, esprimeva in forme generali i suoi bisogni. Una frase di Gramsci, scritta in quegli anni, apparentemente banale, descrive gli effetti delle nuove forme produttive e  quella che sarebbe diventata la produzione in linea, la catena di montaggio sulla natura e la mentalità dell'operaio; Gramsci afferma che la parcellizzazione del lavoro e il fatto che sempre minore è il coinvolgimento professionale e intellettuale degli operai nella produzione è un fatto, per i comunisti, positivo perché, secondo lui, in quella maniera l'operaio ha la possibilità di ragionare mentre lavora, quando prima era costretto a ragionare sul suo lavoro, a impegnarsi. Gramsci, senza saperlo, scriveva dell'estraneità - e dell'intelligenza che questa estraneità produce - del nuovo operaio rispetto al lavoro.
Il nuovo operaio svolge, quindi, una critica implicita, intrinseca e interna all'organizzazione del lavoro, mette in discussione il lavoro di fabbrica in quanto prodotto del capitalismo e non - come il soggetto precedente - in quanto comandato dal capitalismo: per il nuovo operaio il lavoro ha le forme del potere e non libero ma reso, poi, schiavo e comandato. Per il capitalismo si tratta, allora, di elaborare una ideologia generale che renda la gerarchia, il comando, la disciplina e la tecnologia implicitamente umani, naturali, il risultato dell'autentica natura umana. Mai più senza macchine e automazione, insomma.

7.3.4. La controrivoluzione

Automazione e estraniazione del lavoro vivo dal lavoro era il binario che il capitalismo si apprestava a compiere, ma le vischiosità storiche, le tradizioni, la compresenza di due soggetti operai, i difficili rapporti tra quelli e di quelli con il comando di fabbrica fecero sì che le contraddizioni rimasero, al livello del lavoro e degli stili di vita che orbitavano intorno a quello, sospese tra un'eccezionale premonizione del futuro del capitalismo e dell'umanità come morte dell'intervento professionale e individualizzato nel lavoro di fabbrica e produttivo e la difesa conservatrice della forma del lavoro tradizionale e soprattutto della sua ideologia. Anche qui Gramsci seppe con lucidità chiamare con il suo nome il rischio quando scriveva che il fascismo era, tra le altre cose, il prodotto di una nuova epoca che non sa manifestarsi, di nuovi rapporti di produzione e di potere che non hanno il coraggio di manifestarsi per quello che sono.
Il fascismo sarà, nel 1922, la risposta italiana, della borghesia italiana che aveva solidarizzato intorno a sé il ceto medio urbano e la piccola e media proprietà agricola, a questo genere di problemi, il modo di risolverli per nasconderli ideologizzandoli. Lo Stato del capitale, che liquidava la produzione bellica e l'ideologia bellica intorno alla produzione, cercava un nuovo collante, un surrogato al bellicismo e militarismo, che, però, parlasse già dell'epoca nuova, anzi che si presentasse come nuovo e moderno senza però affrontare fino in fondo la nuova sfida del lavoro che fa ragionare e dove non serve ragionare.
Lo Stato, in primo luogo, delega il militarismo a gruppi privati: negli Stati uniti e in Germania, ad esempio, le polizie private degli imprenditori, le guardie armate di fabbrica si affermano e moltiplicano. In Italia è un partito, quindi una funzione pubblica, a farsi carico della militarizzazione dello scontro e di avanguardia della controrivoluzione, il partito fascista. Questa funzione pubblica, però, si comporta come forza privata: è una forza privata che acquisisce un ruolo pubblico.
Si trattò di uno sforzo soprattutto repressivo, dell'uso della forza e delle armi, ma anche di una nuova ideologia.
Di fronte al crollo del controllo espresso attraverso l'ideologia del lavoro, cerca di nascere un controllo dall'esterno del rapporto di produzione, che faccia riferimento ai valori passati della produzione, al lavoro umano, anche in forme mitologiche: in alcune aree furono sindacati e organizzazioni storiche del proletariato a farsi carico di questo controllo dall'esterno, in altri casi nuove forme politiche o si affiancarono o si sostituirono ai sindacati, ma il processo fu univoco: controllare il lavoro da di fuori.
Fascismo e nazismo si fecero carico di questa sostituzione, per quei casi, però, la novità inespressa si tradusse in un vero problema di forme costituzionali, di sostituzione della democrazia di massa appena nata - il suffragio universale maschile appena ottenuto - con una nuova forma dittatoriale, una dittatura di massa o meglio in forme che richiamavano la democrazia di massa appena sotterrata. Fascismo e nazismo cercarono di dare una risposta squisitamente ideologica al vuoto ideologico che la nuova forma produttivo provocava.


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