Discorsi e ragionamenti (1985)


1 - Del problema dei mezzi e dei fini

L'esposizione di questo problema ha da iniziare con la sua origine storica: il '500 e il pensiero di Macchiavelli. Allora il fine giustificava i mezzi. Compariva il fine definito razionalmente, come obiettivo politico e sociale. Si perseguiva il fine della edificazione di uno stato accentratore e accentrato intorno a una figura monarchica e ogni espediente sociale ed economico era valido per ottenerlo. Si aveva il fine di costruire un'organizzazione sociale stabile e di garantirla con ogni strumento: ogni strumento politico era valido, fosse esso il principato o la repubblica.
Questo ragionare di Machiavelli era talmente radicato che si può scrivere che nel suo mondo politico ideale tra il fine e il mezzo non esiste rapporto alcuno, cioé che essi vivono di vita loro e di luce propria, che non siano affatto cosostanziali, che il fine in quanto elemento del futuro che si progetta nel presente non nasca dal presente in maniera integrale, non si ramifichi in esso, non ne sia quasi parte, e che, infine, l'azione dell'oggi non debba fare i conti con il fine da raggiungere domani se non in modo superficiale, se non a partire da un rapporto causale, da un meccanismo di causa - effetto estremamente semplice e lineare. Allora si dice: il re è ingiusto, io uccido il re e instauro la giustizia pur compiendo un atto ingiusto nei confronti del re. Machiavelli insegna e afferma che dall'ingiustizia può nascere la giustizia, che dalla guerra civile può venire fuori uno stato forte.
Il '500 è il secolo della formazione definitiva delle grandi dinastie europee. La lotta della monarchia contro la feudalità fu lotta tra ceti privilegiati, svolta soprattutto nei corridoi dei palazzi attraverso faide, scontri di armati selezionati e di eserciti ancora feudali e mercenari. Fu gioco di scacchi. Le grandi masse quasi non vi entrarono e si vi entrarono lo fecero solo incidentalmente. Fu gioco machiavellico poichè il gioco politico di Machiavelli ben si adatta a una minoranza politica e sociale in lotta contro un'altra minoranza politica e sociale per una parziale riforma dei meccanismi di potere.
È stato scritto che Machiavelli fu l'inventore della scienza politica e il primo grande pensatore borghese in materia, il rappresentante intellettuale di un mercante da poco arricchito, oculato, attento ma sempre adombrato dal grande potere feudale. Fu colui che scoprì la politica, individuò, cioé, un terreno sul quale sarebbe stato necessario  seminare intellettualmente. Il fine giustifica i mezzi è una grande verità della scienza politica ma è una verità ancora artigianale e come il lavoro dell'artigiano non si spiega da solo e non si riduce all'intelletto compiutamente. In politica i mezzi hanno subito una trasformazione graduale e costante e mai casuale, una trasformazione guidata da una logica di fondo. Quindi Macchiavelli aveva torto: nella storia i mezzi si sono adeguati ai fini davvero casualmente. ma si sono adeguati, hanno subito l'attrazione dei fini. Quindi Machiavelli aveva anche ragione: i mezzi si sono adeguati ai fini ma lo hanno fatto casualmente, poichè i fini ponevano nuovi casi, nuove situazioni, alle quali gli uomini erano costretti ad adeguarsi, proprio individuando nuovi mezzi, spesso nuovi mezzi per vecchi fini. Dunque biasimo e onore per Macchiavelli.

Dirò ora qualcosa di più: nella storia insieme con l'evoluzione dei fini è stata un'analoga evoluzione dei mezzi. La scienza politica borghese si rivolge a un nuovo costitutore di mezzi, durante la rivoluzione inglese e quella francese, il popolo. Il popolo è la sanculotteria di Parigi e non solo: il popolo, eletto a costitutore di mezzi, si trasforma proprio per l'intervento nel mezzo politico. La scienza politica borghese matura (quella del XVIII secolo) comprende la necessità, attraverso il popolo, di commisurarsi con i suoi strumenti, di stabilire con quelli delle interazioni e di dialettizzarsi con quelli. La borghesia, individuando lo strumento nel popolo, costituisce il concetto stesso di popolo, come idea di 'tutto il popolo', come idea onnicomprensiva e contemporaneamente, consapevolmente o no, cambia il popolo. Il popolo del XVIII secolo non è lo stesso popolo del XVI: prima di tutto è diverso il peso della borghesia medesima in seno al popolo e contemporaneamente nel popolo emergono nuovi soggetti e nuove classi. Dopo il XVIII secolo non possono servire a nessuno scopo politico serio e determinato l'intrallazzo, il colpo di mano militare. Congiure, colpi di stato e putch possono avere esecutività politica solo con l'intervento o quantomeno il consenso costruito nel popolo proprio perché la società che si intende edificare e strutturare è nuova, perché la rivoluzione borghese non è solo una trasformazione politica ma sociale ovvero deve quantomeno innescarla.
Non si tratta più, dunque, della ristrutturazione dello stato teorizzata da Machiavelli, si tratta, invece, di una ristrutturazione della società.
In questo caso il fine risulta evidentemente legato al mezzo: non si sono mai vedute rivoluzioni borghesi (inglese, olandese, americana, francese, il risorgimento italiano e greco, e via discorrendo) risolversi con tre colpi di cannone, ma, spesso, si sono invece visti scorrere fiumi di sangue. Si è trattato, pur sempre, di una minoranza che costruendo il concetto di maggioranza (il popolo), usandola concretamente e responsabilizzandola sul suo progetto, eliminava un'altra minoranza.
Tutto questo determinò la necessità di un uso molto ampio della forza e della violenza perché bisognava esercitare un severo controllo sulla minoranza battuta e una fidelizzazione della maggioranza illusa e conquistata. La forza, nelle rivoluzioni borghesi, divenne un valore ideologico. Anche qui i mezzi si adeguarono ai fini, perché si trattava di una minoranza contro una minoranza e quindi di una lotta necessariamente violenta e non democratica, ma acquisirono un significato nuovo perchè una delle due minoranze aveva scoperto il concetto di maggioranza e l'aveva concretamente chiamata in causa.
Vorrei soffermarmi maggiormente su questo aspetto e cioè sulla estrema sanguinarietà delle rivoluzioni borghesi e anche sul fatto che sia quelle inglesi che quella francese si siano rapidamente trasformate in dittature. Per la borghesia la dittatura fu un buon mezzo per avviare, controllandole, le trasformazioni sociali. La dittatura è solitamente espressione del dominio di una minoranza su una maggioranza attraverso l'uso della forza militare e qua, in questa definizione, daremmo ragione a Machiavelli e al suo schema che sarebbe applicabile perfettamente all'affermazione politica della borghesia. Le dittature rivoluzionarie borghesi (quella del new model army e quella giacobina) furono esercitate con il consenso e spesso la partecipazione attiva di larghi strati della popolazione, il cosiddetto popolo, appunto. La vecchia legge della 'volpe e del lione', in un contesto simile, non può bastare e funzionare fino in fondo, ma si istituisce una nuova legge nella scienza politica che è quella del coinvolgimento emotivo e psicologico delle masse urbane e agricole. Il mezzo dittatoriale borghese è perfettamente conforme e coerente con il suo fine: a una società di massa, una dittatura di massa, a una società popolare una dittatura popolare.
Dunque non ci fu, come il pensiero macchiavellico più superficiale poteva lasciare intendere, una sostituzione semplice e meccanica della dittatura dell'aristocrazia con la dittatura della borghesia.

Si è scritto a lungo, molto a lungo, dei grandi rapporti  esistenti tra lo sviluppo delle forze produttive e la forma dello stato borghese, secondo gli immancabili abbinamenti di rito. Queste tesi sono spesso scolastiche e meccanicistiche ma contengono un elemento di verità. È vero che a determinati stadi dello sviluppo capitalistico corrispondono tendenzialmente forme di organizzazione dello stato e di creazione del consenso; questo non fa che avvallare l'ipotesi  dello stretto legame tra fine e mezzo, tra strumento politico e situazione sociale: il fine è anche il mezzo e il mezzo si riconosce attraverso il fine, lo strumento politico governa la situazione sociale e la situazione sociale elabora lo strumento politico.
Mai si è scritto in modo serio sullo stretto rapporto che deve esistere tra fine e mezzo per chi si pone in maniera rivoluzionaria nei confronti della società borghese.
A tal proposito si è quasi sempre affermato che non è affatto corretto definire aprioristicamente un insieme di comportamenti ed etiche da tenera nella lotta, di mezzi da utilizzare. Ma se il fine è cosostanziale al mezzo (e lo è almeno fino dai tempi storici della borghesia matura) , non sarà anche il mezzo a qualificare, e non solo, a garantire per il fine? Questo fatto non deve avere delle conseguenze sul nostro modo di agire? Rispondo che le sue conseguenze questo fatto le avrà naturalmente nel processo storico. Poiché nel comunismo e nella tendenza storica al comunismo l'identità tra fini e mezzi  è naturale anche se non spontanea. È naturale perchè essendo una tendenza espressa dalla maggioranza della società, esige immediatamente di adeguare i suoi mezzi a questa sua natura; ma non può essere spontanea perché non sempre questa tendenza appartiene alla maggioranza del proletariato  e quindi viene avvertita correttamente. Spesso, al contrario, in ragione del fatto che è patrimonio di una minoranza o che appartiene, ineluttabilmente, a una situazione politica e sociale (la medesima che la genera e la matura) è avvertita in maniera distorta, ancora carica di minoritarismo e quindi di riferimenti ideologici borghesi, o di velleitarismo e di riferimenti all'eredità delle ideologie e organizzazioni della borghesia, proprio  sul campo della relazione tra mezzo e fine. D'altronde non bisogna stupirsi, né tanto meno scandalizzarsi: quanti borghesi, nel 1789, avranno immaginato la rivoluzione come un semplice 'golpe di palazzo' e movimento dell'aristocrazia più illuminata! Quanti proletari, oggi, immaginano ancora la rivoluzione nel modo borghese, come presa del potere da parte di una frazione armata con l'appoggio esterno e passivo della maggioranza del proletariato o, secondo altre versioni 'democraticiste', come un irrealizzabile 'golpe elettorale' (ammesso che continui a esistere chi abbia lo stomaco per digerire quest'idea).
Il mezzo proletario si definisce, invece, quotidianamente, articolatamente, attraverso continui e grandi dibattiti, con battaglie limitate e locali ma continue; il mezzo proletario e comunista si definisce come pratica di negazione, mattone dopo mattone, dello stato di cose presenti: un mezzo completamente sociale per un fine completamente sociale.

2 - Dell'amore giorno per giorno

Di tutte le cose, ma più che mai dell'amore, si può parlare in due modi diversi: con distacco o con partecipazione.
Questi due modi non sono opposti ma complementari, poiché non si può parlare del fuoco e sapere cosa è solo con il gergo del fisico, senza averlo mai visto. Quando si tratta dell'amore è prassi comune, al contrario, considerare queste due maniere antagoniste e quasi ostili. Perché mai? Sarà giusto dare una risposta a questa domanda, sarà giusto cercare di illuminarci sulla conoscenza dell'amore. L'amore, bisogna ammettere, non è uno stato d'animo conosciuto a sufficienza, l'amore stesso disorienta la conoscenza perché smaschera e stravolge gli stati d'animo e la conoscenza. L'amore stravolge, facendo rotolare l'anima sul corpo, la fa soccombere davanti al corpo, è, fondamentalmente, il corpo in ogni sua manifestazione; il corpo, nell'amore, prende sempre il sopravvento sull'anima. Non a caso è proprio con il corpo che si comunica l'amore, senza il corpo non è possibile nè l'amore nè la sua comunicazione nè la sua propagazione. Qualunque affinità accenda l'amore, anche la più alta e apparentemente incorporea, è il corpo che la comunica, è il corpo che decide per l'incorporeo e lo spirituale. L'amore è anche codice, non è solo un evento, ma un complesso di eventi codificati e trasmessi con il corpo.

3 - Della poesia contemporanea

Da dove nasce la poesia contemporanea? Dalla chiara consapevolezza che ogni cosa può essere ridotta a finzione e immagine e che si può solo riflettere e analizzare gli schemi e i valori di questa immagine. La realtà può essere imitata, come nella poesia precedente, ma ora, addirittura, inventata nell'imitazione o meglio inventata mentre la si imita, inventata nella sua imitazione. Allora accade che la poesia si ritrae su sé stessa, riconoscendosi e ammettendo di essere nulla più che realtà riprodotta, e finisce per analizzare sé stessa, lavorare su sé medesima, valorizzare il suo componente fondamentale, ogni sua singola scena: la parola.
Questo è un giusto punto di partenza e presupposto. Se non operasse così, si addosserebbe la responsabilità di essere caduta anch'essa, insieme con il resto dell'arte contemporanea, nella trattazione assoluta, come termine assoluto di una realtà che, invece, continua a essere storicamente determinata; l'arte contemporanea, la pittura contemporanea, pretende, invece, di dare un valore metastorico al suo conclamato relativismo, ad ogni singola scena, in poesia, alla parola. La poesia contemporanea è supina: accetta. Indaga sulle parole e, come in un gioco di specchi, non potra che ritrovarvi la continua, infinita, poiché riproducibile indeterminatamente e fino, dunque, all'assurdo logico, giustificazione di sé stessa, che esiste proprio perchè non esiste, che è logica proprio perché assurda. Questa è la quintessenza dell'accademia, noi siamo con tutti i beni e tutti i mali di un'accademia assoluta. È un fine accademico quello dell'attuale poesia e questo significa molte cose: la poesia è passiva rispetto alla realtà presente, ne accetta le intime leggi solo dopo, però, averle attentamente studiate. Essa è conservativa: assolutizza il valore di queste leggi, non in ragione della loro validità ma in ragione del suo studio.
È inutile scrollarsi di dosso queste leggi attraversando una nuova e ipotetica avanguardia poetica, perché la poesia contemporanea ha anche ragione: queste leggi, vere o false, sono in noi. Bisogna usufruire di queste leggi, ma non come fa la cosiddetta transavanguardia per istituire un mescolamento accademico e una nuova avanguardia da accademia, ma, invece, per superarle in una nuova drammatica negazione delle leggi. La negazione delle leggi implicherà la conoscenza delle leggi e forse un nuovo uso di quelle leggi: non sarà un'avanguardia artistica e poetica e non si presenterà come tale. Avanguardia, oggi, è nostalgia e sterilità.
La poesia contemporanea non sta facendo questo, non si sta muovendo in quella direzione, nonostante la scoperta nuova della parola, della voce e del suono. Si crogiola e addormenta nelle sue conquiste e facendo così cede terreno e alla fine perde le sue stesse conquiste ed entra nell'ufficialità, diventa parte della patinatura sociale che ogni stato ha sempre richiesto: diventa pubblicità, strumento di pubblicità, tecnica pubblicitaria. La poesia contemporanea è intelligente perché serve una patinatura intelligente, una patinatura produttiva e l'intelligenza della produzione.

4 - Della parola

La parola è l'immagine più colorata e colorabile che si possa concepire; ha perso, oggi, gran parte della sua funzione in ragione del fatto che non serve a determinare un concetto ma è sempre più relativa al contesto. La parola è sempre più relativa ai rapporti che si hanno in una situazione e non spiega più la situazione ma si fa sempre di più spiegare dalla situazione. La parola, quindi, poiché è sempre stata colorabile, oggi diviene scolorabile. Questo è un dato incontrovertibile, almeno per me. Oggi lavorare sulla parola è lavorare sul suo contrario genetico, vale a dire lavorare sull'ineffabile, il non definito, l'indeterminato, la finzione estrema. Si possono costruire mondi inesistenti con le parole e aggettivi nuovi con vocaboli vecchi.
Ma soprattutto la parola è da sempre legata all'immagine, non poteva esistere immagine senza parola, come parola senza immagine. Ma l'immagine oggi ha cambiato natura: è diventata un fenomeno visivo, sensoriale, il sensoriale sovradetermina la sensibilità. È l'immagine visiva il grande conduttore sociale dell'attualità, di fronte a questo nuovo conduttore le parole, spodestate, si sgretolano, eppure, così sgretolate, continuano a formare immagini, nuovi frammenti di immagini e in una rivolta decisa di questi frammenti di immagini avremo poesia.

5 - Della grandezza del linguaggio scientifico

La scienza è un'attività umana che va analizzata dal punto di vista morfologico, linguistico, con grande attenzione poiché è l'unica attività umana capace di mettersi continuamente, secondo procedure intrinseche, in discussione. Sotto questo punto di vista la scienza è un'attività rivoluzionaria. La scienza è un'arte profondamente umana, esclusivamente umana, l'esemplificazione in forme chimicamente pure delle potenzialità della nostra specie. La scienza si distingue da ogni altra attività sotto due punti di vista: per aver seguito puntualmente lo sviluppo storico ed esserne stata funzionale e per essere stata autocritica e, quindi, non solo storicamente determinata ma anche autocosciente, capace di ragionare su sé stessa, sui suoi strumenti analitici e quindi sostanzialmente cosciente, in verità più della politica, del suo ruolo storico. Grazie a queste sue caratteristiche la scienza è stata capace, anche, di anticipare la storia, vale a dire di prevedere i suoi stessi sviluppi.
La scienza, dunque, non è libera, se è scienza non può essere libera, in quanto è legata alle esigenze della storia è un elemento direttamente proporzionale dello sviluppo sociale e ne è anche un diretto catalizzatore. La scienza non è libera e non può essere libera nella misura in cui è un elemento astratto e logico che si vincola e si svincola al contempo dall'interazione con la vita sociale. La scienza, così concepita, è stata l'unico fenomeno intellettuale autenticamente astratto e quindi non direttamente, ma solo per una specie di proporzione geometrica, legato alle categorie della politica e del sociale, ben diversamente da come lo furono letteratura e filosofia. La scienza ha una regola che prescinde dal sociale e dal politico, anche se è anche una regola che si può tradurre in sociale e politico proprio attraverso filosofia e letteratura.
La scienza non è libera, non solo perchè, secondo la vulgata e la banalità imperante, la sua schiavitù è dimostrata dalla sua applicazione, dalla tecnologia, dalle armi che produce e dalle macchine con le quali produce; la tecnologia è stata direttamente sussunta alle esigenze del dominio, coessenziale a quello, senza nessuna proporzione geometrica, ma attraverso una relazione diretta chiara, smascherata. Lo sviluppo tecnologico non è spontaneo, neppure in apparenza, mentre la ricerca scientifica appare spontanea e libera. Eppure, non seguendo una relazione diretta, ma un'interazione, una proporzione appunto, il pensiero scientifico avanza dove il dominio sociale gli richiede di avanzare e lo strumento per la costituzione di questa interazione è proprio la tecnologia, con i suoi feed - back sulla società, poi sull'immaginazione e infine sul pensiero scientifico.
La forma del rapporto tra dominio sociale e scienza non è affatto immediata e semplice, in quanto si tratta di due entità che si sviluppano in assoluta autonomia, sciolte l'una dall'altra, ma che stabiliscono una relazione reciproca, dentro la quale lo strumento dell'interazione è la tecnica. La tecnica è l'inveramento nel dominio sociale della scienza.
La scienza, però, è un soggetto molto particolare in questa relazione perchè, al pari del dominio sociale, o meglio di un'organizzazione sociale complessa e coordinata attraverso strumenti linguistici e intellettuali, è l'elemento distintivo di più alta qualità che la nostra specie ha offerto alla storia del pianeta. Dunque il rapporto tra potere e dominio sociale e scienza si dà, come si può facilmente dedurre, a un livello altissimo, il più alto e il più sostanziale che nella storia si possa immaginare: un rapporto che alla fine ripete quello, a un tempo contraddittorio ma complesso e ricco, tra umanità capitalista e umanità in generale, umanità nella storia e in tutte le epoche, tra idea borghese di uomo e tutte le altre idee di uomo concretizzatesi nella storia.
La scienza non è libera, quindi, anche per un altro motivo ed aspetto: la scienza non è libera nella misura in cui l'umanità nel suo complesso non lo è stata e le possibilità della scienza sono diminuite nello stesso modo e nella stessa misura di quelle dell'umanità. La scienza, come l'uomo, ha delle enormi possibilità conoscitive e creative. La scienza, come l'uomo, ha delle possibilità oggettive, delle possibilità logiche di sviluppo, che non si sono mai linearmente e compiutamente espresse, ma, anzi, si sono sviluppate in forma compressa, come l'economia mondiale porta il segno dei dazi doganali e delle frontiere e come gli interessi generali portano le cicatrici di quelli individuali.
Come si danno oggi i presupposti a più vaste conoscenze scientifiche, embrioni di un sapere che, spesso, può rimanere ghettizzato nel campo del futuribile, così l'umanità ha in sè tutti presupposti per la sua liberazione, per il suo ricongiungimento con sé stessa, dopo millenni di separazione. Un esempio: la scienza relativistica è rimasta una scienza nucleare, uno studio sulla struttura della materia, non mi pare si sviluppi autenticamente il discorso sul tempo e lo spazio come elementi intersecati, conseguentemente c'è estrema timidezza a formulare ipotesi sul cosmo, sulla sua logica e sulla natura delle cose. Eppure la scienza rimane potentemente autocritica e consapevole dei suoi strumenti e delle sue potenzialità, rimane, quindi, progressiva.
Se da una parte la scienza è progressiva perché l'input della tecnologia, il bisogno tecnologico, risente della progressività del dominio sociale ed economico, della necessità di sviluppo del capitale, e dunque assolve al compito di sopperire alle necessità materiali del sistema economico e sociale dominante, dall'altra parte è costretta dalla sua stessa natura a sviscerare contenuti gnoseologici che sono indifferenti alle necessità materiali e concrete della società e a compiere, in autonomia, delle vere e proprie rivoluzioni di linguaggio al suo interno. Certamente, come scritto, esiste una relazione di proporzione tra l'ordine sociale e anche questo livello della produzione scientifica, ben oltre alla mediazione bidirezionale offerta dalla tecnologia; la rivoluzione copernicana, newtoniana e galileiana furono delle rivoluzioni borghesi e materialistiche nel pensiero scientifico. Contemporaneamente, però, pur sviluppandosi entro gli schematismi del buon senso comune e cercando di non mettere in discussione il concetto di razionalità e buon senso, costruendo e propagando un nuovo buon senso e una nuova razionalità altrettanto accettabili, esse hanno avvicinato il pensiero umano alla realtà delle cose, a una più approfondita realtà delle cose, perchè quelle nuove regole facevano funzionare molte più cose che non le vecchie regole premoderne.
Se è vero che la rivoluzione relativistica è perfettamente spiegabile con la cultura del primo quarto del XX secolo e con lo sviluppo capitalistico dell'epoca e che in quelli trova la sua 'materialità', è anche vero che la scienza post relativistica ha messo in luce la problematica della relazione, base della razionalità tradizionale e del buon senso, tra causa ed effetto, ha messo in crisi il valore assoluto dello spazio, dello strumento e della misurazione e dell'assolutezza del dato 'oggettivo', fino al punto di rompere tutta la catalogazione positivistica che aveva dominato le scienze naturali. È stata, allora, messa in discussione la divisione autoritaria tra generi e non ultima la rigida divisione tra discipline scientifiche, tra fisica e chimica, tra biologia e chimica, tra psicologia e antropologia e, ancora di più, tra discipline scientifiche e umanistiche.
Il significato ultimo della scienza è doppio: la scienza è ambivalente, ha due facce, le due facce dello scienziato. Lo scienziato è un uomo dello stato, stipendiato, coinvolto nell'accademia statale, un uomo che ha lungo studiato e che si distacca dal resto dell'umanità anche solo per il privilegio lui riservato del conoscere e conoscerà in funzione delle ricerche che gli sono state commissionate, ma come uomo, in quanto appartenente alla nostra specie, potrà trarre dall'esperienze maturate in questo isolamento e separazione dal resto della società leggi universali, superiori a questa separazione e isolamento.

6 - Manifesto

A favore di un arte slegata dalla forma - oggetto di rappresentazione ma legata alla forma in sè, al segno senza significato contenutistico preciso, che sia esterno al segno, e perciò plurisignificante. Nulla a che vedere con l'arte astratta ma esplicativa ed espressiva del significato del segno. A favore dell'arte come ricerca della propria posizione nel mondo: lo scritto fissa il sapere.
L'illuminazione primordiale è terreno fecondante della creazione e costruzione poetica. Questa è la sacrosanta fase che ha contraddistinto cubisti e astrattisti e in quella si rivendicava la libertà assoluta da ogni tessuto razionale, da ogni logos borghese. Ma bisogna andare avanti e per andare avanti bisogna essere avanti con tutte le difficoltà che ne conseguono e dare alla produzione tutte sue potenzialità e quindi liberarla ulteriormente. Nessuna arte è libera come nessun pensiero lo è e mai lo sarà in una società organizzata. È, però, sicuro che l'arte, come campo del lavoro mentale, ha delle capacità conoscitive e comunicative profonde che vanno completate e che sono analoghe a quelle di alcune scienze.
L'arte deve viaggiare a fianco della linguistica, della psicologia, della semiologia ma ancora di più a fianco della fisica, della chimica, dell'antropologia, della sociologia. L'arte avanti è l'arte che precorre i linguaggi di una nuova totalità e come tale non si può rinchiudere in un'accademia linguistica.
L'arte intesa come organica espressione di una particolare società umana non è mai esistita se non forse nel suono gutturale del primitivo e già era morta nel neolitico. Quando la vita sociale ha cessato di essere una forma spontanea di organizzazione, l'arte non era più arte (almeno l'arte globale come la intendono gli idealisti dell'arte) e all'artista rimase solo una radiazione di fondo.
L'arte oggi: quella che si è liberata non era arte, non era niente, solo un'espressione: il concetto di arte non si risolve in nulla di conosciuto. Quella forma espressiva che l'idealismo imperante chiama arte ha, in sé, dei presupposti interessanti che bisogna sviluppare a ogni costo: sono un regalo involontario di un'epoca di abbrutimento. Questa forma espressiva può divenire  ed in parte è già conoscenza immediata dello stato di cose presenti e anche un modo di pre - parare lo stato di cose futuro. Pre - parare a che livello? Senza livello.
L'arte come la scienza non è affatto una categoria del pensiero ma è un'invenzione, vera ma non reale. Esiste ma è fittizia, è il risultato dell'affossamento e abbrutimento della creatività generale umana. L'arte odierna nasce da ciò che proprio secondo la definizione idealista dell'arte sarebbe la sua negazione ed è intimamente legata alle culture del potere, sempre, irrimediabilmente. Per fare un'altra arte bisogna distruggere l'arte.

7 - Della stupidità

La stupidità è la facoltà (che non mi risparmia affatto) di dare grande peso alle stupidità che ci circondano. Il carattere stupido osserva e rispetta gli stupidi, li ritiene oggetti privilegiati di relazione e non ne capisce la stupidità.
La stupidità ama fare la caricatura della profondità di pensiero e all'intelligenza, giusto per ingannare gli altri stupidi, meno spesso gli intelligenti. La stupidità si manifesta nelle relazioni umane, non è un evento solitario, tramite esse si diffonde e diviene fenomeno collettivo, perché non può essere un fatto personale: un'intera società può essere stupida, non un singolo uomo. Gli stupidi, quando sono tra di loro, si prendono sempre sul serio.
Quali sono le caratteristiche assolute della stupidità, dove sta la stupidità e cosa è la stupidità in sé? Ammesso, ma non concesso completamente, che possa esistere un singolo stupido per intero, uno stupido in sé (poiché egli si realizza solo in mezzo agli altri e da solo, nella solitudine della sua stanzetta, nella notte, egli non è stupido e ragiona e comprende la sua stupidità, anche se le dà nomi diversi, in ragione del suo orgoglio: solitudine, angoscia, timore, paura) egli è un individuo non stupido in sé, ma stupido proprio perché ha bisogno di coordinate alle quali ancorarsi intellettualmente. Egli ha bisogno di un metro di giudizio eterno e indissolubile, con cui analizzare sé e gli altri, in modo di avere la sensazione di avere sia sé che gli altri in mano o in tasca. Lo stupido, così, distrugge la realtà esterna per ricomporla in una serie di rappresentazioni unitarie, in un'unica scena teatrale. La realtà straripante scivola sopra la sua intelligenza, la travolge e quindi la nega. Lo stupido è l'uomo del potere, poiché il potere è la quintessenza della stupidità, della distruzione e della ricomposizione in chiave unitaria, della rappresentazione della realtà, poiché il potere è esattamente ciò che lo stupido si aspetta dalla vita e dalla realtà.
Lo stupido non ha colore politico, può essere reazionario o rivoluzionario, l'importante per lo stupido è che si intraveda sempre la possibilità di una rappresentazione teatrale della realtà, l'importante è che ci si sia sempre e in ogni modo un potere.

8 - Sul potere

Dal potere non si esce finché esiste il potere. Il potere ti rappresenta, ti fa dire cose anche quando non le hai dette, ti fa fare cose anche quando non le hai mai fatte. Il potere è molto semplice, è lì, guarda, tu non puoi non essere giudicato.

9

La stupidità si manifesta nei fenomeni di relazione, nessuno è stupido con sé stesso. Non è un caso che al potere interessino i fenomeni di relazione e su quelli si fonda. Si deve essere anche con gli altri come con sé stessi, parlarsi dentro parlando agli altri e si sarà imboccata la via dell'abolizione del potere

10

L'Art nouveau amava tutto quello che oggi chiameremmo porcheria ridipinta, tanta pochezza si nascondeva dietro quelle seggiole piegate alla ricerca di qualcosa di artistico, che alla fine era bizzarria firmata da artista. L'art nouveau è il cuore stesso borghese che suggella con l'argento i suoi bisogni e interessi, i più banali e da buon borghese, privo di estro creativo, cerca la mano dell'artista. La bizzarria quando è costruita per nascondere la realtà è e rimane bizzarria. 

11 - Dell'arte e dello sviluppo della società

L'arte è forma sociale per eccellenza, l'attività più sociale dell'uomo, un'attività che è per di sé stessa di comunicazione. L'arte raccoglie le tre caratteristiche fondanti ogni umana società, quindi dell'uomo in comunicazione: ideazione, lavoro, comunicazione. Queste tre caratteristiche hanno fatto dell'arte, in qualsiasi epoca, un elemento di cultura superiore. L'arte è stata vista come la quintessenza del suo protagonista, la quintessenza dell'attività umana, quasi carattere qualificante dell'uomo. Molto spesso, in questa concezione dell'arte, è stato ingigantito l'elemento ideativo e sminuito l'aspetto manuale del lavoro insieme con quello comunicativo: manualità e propaganda, artigianato e politica. L'arte, allora, si valorizzava per il genio creativo superiore a qualsiasi altra attività umana. L'arte partecipa a tutte le attività umane che sono volte a trasformare o intervenire sulla realtà, sulle cose e sugli oggetti, e che sono destinate a dare loro un senso e una funzione diversa da quella originaria.
L'arte fa parte della categoria lavoro. L'arte è lavoro e lavoro non solo intellettuale ma anche esecutivo e progettuale. L'artista davanti alla tela: quanto l'artista influenzerà la tela e quanto la tela influenzerà l'artista? La pennellata iniziale ritorna al pittore come esperienza dura e solida, sensoriale, che ne genera altre e influenza, quindi, la successiva ideazione che diventa un processo in divenire.
La critica dell'arte ha scelto alcune fasi inscindibili in questo divenire.
Quando scrive di artisti medioevali, di architetti medioevali soprattutto, scopre con sorpresa che non è possibile dividere il progettista dal capomastro e il capomastro dall'operaio. Abituata a ingegneri e architetti progettisti, reclama la coscienza dell'artista e retrocede il progettista medioevale ad artigiano.
La preminenza del momento creativo, della libera coscienza, o meglio della libera coscienza dell'artista, è modello. Il lavoro del vero artista, della coscienza libera, cioè, non è un lavoro, è pura creazione, è creazione libera, è un'altra cosa rispetto al lavoro perché non si sporca mani e piedi con la materia, non comporta la fatica e il sudore. Oggi è, in effetti, così, ma non è sempre stato così e bisognerebbe chiedersi come mai non è più così.
L'arte medioevale è legata alle regole feudali, è codificata, immersa in una cultura che lavora intorno a un testo fondamentale, quello religioso, e in una società regolata su un insieme di testi non scritti che compongono la legge consuetudinaria feudale; il testo religioso è la cultura, la legge consuetudinaria è la società. L'arte medioevale si fonda sul contenuto, sul messaggio, non sulla creatività, che è un valore accidentale in quella, dell'artista; si fonda su un contesto di segni in cui è inserita e in quanto vi si inserisce. Il rapporto ideazione - lavoro - comunicazione è ben regolato da questa intelaiatura e l'artista è solo un capo bottega inserito nel sistema produttivo feudale, parte integrante e non particolare del tessuto produttivo della società. La sua immaginazione è strettamente regolata, codificata, dal rapporto di committenza, vale a dire dal desiderio del committente, dal testo religioso e dall'ambiente sociale nel quale si rappresenta il testo. L'opera è già pensata nei codici e nelle regole, si tratta solo di organizzare al meglio il lavoro.
Intorno al XIII secolo la società cambia: il danaro del mercante conquista spazi di potere economico, sociale e politico. La codificazione feudale non scompare, rimanendo valida, regola il flusso del danaro e di queste nuove energie economiche, ne regola l'uso, ma non riesce a disciplinarne il principio originario, cioè l'accumulazione attraverso lo scambio di merci; lo scambio di merci e la relativa accumulazione, infatti, sono liberi e rispondono a delle leggi che sono estranee alla codificazione feudale e che le sono, in realtà, nemiche. Il danaro non si muove e non si distribuisce secondo codici, ma secondo leggi generali, secondo assiomi e conseguentemente il potere che da esso deriva è cosa non codificabile. Il danaro introduce dinamiche generali, leggi generali, che investono direttamente gli uomini senza essere trasportate da altri uomini, mentre accadeva il contrario nella società feudale e anche in quella classica. Le dinamiche del danaro e del mercato non si affermano attraverso le relazioni umane e culturali, o attraverso la coercizione politica e statale, ma, invece, rispondono a motivazioni materiali che stanno tra gli uomini.
Il danaro è libero e materialista, è un'energia immanente che trascende l'umanità, è un odore di libertà che rende tutti gli uomini uguali e tutti i luoghi uguali.
Il testo religioso subisce frequenti confronti e la necessità della spiegazione continua e viene spesso puntellato, aiutato, completato. Spesso, altre volte, il testo è contaminato da presenze estranee, che vengono dal passato, tratte dal paganesimo e dall'epoca romana e greca; è questa l'epoca di Dante. La codificazione dell'arte è mantenuta, il corpo dell'opera rispetta ancora determinate regole, ma gli esiti e l'origine cambiano: entra prepotentemente, come fatto visibile, la personalità e le scelte dell'artista, la creatività diviene non più un accidente ma un componente fondamentale dell'opera. L'artista crea nel codice, ma lo fa a partire da un principio che è al di fuori di quello, dall'interpretazione della coscienza religiosa, dalla libertà di usare le immagini del testo. L'artista medioevale poteva scegliere brani del testo, seguendo le sue inclinazioni e preferenze religiose, seguendo qualche eresia, magari, e manifestava la sua eventuale eterodossia con la riproduzione fedele di alcuni brani anziché altri: il ragionamento e la coscienza erano interni al testo sacro e al codice. L'artista del tardo medioevo scopre la coscienza distesa al di fuori del testo e del codice. Il codice, allora, scoppia di distinzioni, effetti, ed è rispettato anche da quelli nella forma, ma trasformato nella sostanza: è l'elaborazione continua del gotico.
Nel XIV secolo, per molti critici dell'arte, il tardo gotico è stato il colpo di coda culturale della società feudale ormai in palese crisi. No, niente affatto: il tardo gotico è, invece, stato la ricerca di un complesso di valori adeguati al nuovo mondo, che andavano ricercati dentro il vecchio. L'artista travolge ogni regola per ricostruirla con lo stesso nome e la stessa funzione in maniera nuova. Gentile da Fabriano offre un'immagine allucinata del vecchio modo di fare pittura. L'allucinazione sta tanto nel rimodellamento delle vecchie regole e nell'imprigionamento dei nuovi brani del testo e della cultura. Il testo cerca di conquistare l'esterno, il codice di comprendere la legge. La coscienza dell'artista sulla soglia della liberazione? Certo. Ma Gentile e il tardo gotico paiono avere consapevolezza del fatto che si tratterà di una liberazione allucinata. Liberazione dai codici feudali e dalla cultura codificata, certo, ma anche dal lavoro manuale, come elemento centrale dell'opera artistica, dall'opera come concretezza e unità produttiva.
La liberazione dai tratti allucinati del tardo gotico è l'affermazione dell'artista come figura sociale autonoma ed indipendente dalla società, dell'artista come imprenditore, come direttore, padrone e progettista del lavoro manuale, per primo del suo e nel caso di quello altrui.
Il nuovo imprenditore del XV e XVI secolo ricodifica sé stesso, ricodifica il lavoro intellettuale, incapace di  abbandonare una lettura
codificata della realtà  e di abbracciare regole generali, leggi, che sono disorientanti. La creazione, grande scoperta dei due secoli precedenti, non viene certamente lasciata da parte, anzi, ma viene legata al mito classicista: allontana sé stesso dalla bottega artigiana e si avvicina al potere del danaro, al materialismo che rende liberi, che sta al di fuori della realtà e che ricodificato diviene un feudalesimo del danaro, il danaro associato a un buon e bel nome, all'onesto ed esperto uomo, a un nuovo umanesimo. La ricodificazione classicista ha questo significato: codificare una cultura, come quella classica che, per sua natura e alla lunga, si dimostrerà incodificabile, proprio come il danaro. La commessa rinascimentale è tutta qui.
Dopo il rinascimento, il barocco torna ad assomigliare al tardo gotico, è il tardo gotico della società mercantilista. Siamo al XVII secolo e le rivoluzioni borghesi liberano l'artista anche dal classicismo, egli può vantare una coscienza libera senza la scorta di un codice, ma riprendendo la classicità come nuova misura, come base per una nuova libertà.
Dal XVII secolo l'epoca dell'occidente europeo ha iniziato a pensare sé stessa come la prima epoca libera della storia dell'umanità, secondo l'idea che un'epoca libera è contraddistinta dalla sua capacità di superare e riassumere al contempo tutte le epoche precedenti della storia dell'umanità; debitrice di questa presunzione, anche la nostra epoca ha la presunzione di possedere il metro di giudizio valido per tutte le altre, poiché il suo metro è libero e in quanto libero e incondizionato, eterno. La libera coscienza è una coscienza necessariamente eterna e assoluta e dal momento che la nostra epoca, dal XVIII secolo in poi, ha il vanto di essere scientifica, la libera coscienza oltre che assoluta ed eterna è anche scientifica. La legge è vera anche ribaltata: la scienza è libera ed eterna.
Quindi scienza, libertà ed eternità si fondono in un sistema intellettuale, e la creatività diviene espressione di questa triade e il livello artistico di un'epoca è valutato secondo la coerenza con questa triade contemporanea. In questo sistema intellettuale, la fase creativa nella produzione artistica è posta in primo piano e in base al ruolo che la fase creativa svolgeva si è valutato il livello artistico delle diverse epoche, si è tracciato, cioè, il giudizio critico - storico. Sempre, quindi, il critico moderno si è messo alla ricerca dello spirito libero nelle epoche precedenti, che potesse funzionare da ideale conferma del sistema intellettuale moderno, che non poteva presentarsi come un'assoluta novità, pena la perdita di credibilità, pena l'insinuazione del dubbio sulla sua validità universale. Così è stata inventata tutta una fioritura di spiriti liberi nel passato, spesso incompresi, in disaccordo con i contemporanei e in una terrificante sofferenza.
Ma cos'è uno spirito libero? E in che ragione sarebbe libera la coscienza dell'artista moderno? Probabilmente libera in quanto separata dalla materialità del processo produttivo artistico? No. Questa libertà è una finzione.
Il lavoro dell'artista, cacciato dalla porta attraverso la sua libertà, rientra dalla finestra, deve, infatti, continuamente rapportarsi con gli strumenti del suo lavoro, qualsiasi essi siano, computer, penna, sacchi di plastica, pennello, scalpello e con la materia, anche quando è immateriale, anche quando è un documento elettronico, anzi in quella è la fase centrale del suo mestiere.
Libero in quanto separato dal contesto sociale nel quale guarda e prende appunti? Direi di no, perché non prenderebbe nessun appunto.
Libero in quanto capace di pensare la realtà? Ci sono milioni di persone che pensano la realtà, con sbagli, errori e correzioni, precisamente come un artista. Ci sono milioni di persone che pensano la realtà liberamente.
La libertà ideativa e creativa dell'artista è una chimera, non esiste, non c'è pensiero che sia libero dalla realtà che produce la sua libertà. L'artista può giocare ogni sua libertà molto meno nel momento della creazione, ideazione e progettazione, che nel creare, produrre, lavorare secondo schemi 'liberi'. Procedere da un'idea è scomporla liberamente, analizzarla. Anche le idee rivoluzionarie non sono libere, sono prodotti organizzati (anche liberamente, anche nella negazione della libertà apparente) e non dicono niente di nuovo sull'arte, perché non possono dirlo, dovrebbero sposarsi con un agire rivoluzionario al di fuori dell'arte per essere arte rivoluzionaria, e introdurrebbero una dimensione di negazione dell'arte stessa; magari continuerebbe a essere chiamata arte, ma non sarebbe più arte.
In verità, da qualche parte, qualcuno ha iniziato a capire questo: c'è stato un Picabia contro un Breton. L'arte rivoluzionaria, l'arte delle avanguardie, anche se in larga consapevole della trappola, ha rinverdito, proprio quando veniva criticato più profondamente, il tema della libertà dell'arte, offrendo, non casualmente, un buon servizio alla borghesia, ai suoi galleristi e al mercato artistico.
La borghesia ottocentesca ha inverato la libertà artistica, che è diventata un plusvalore, un valore aggiunto al prodotto artistico, un valore sul quale fondare un mercato che si distendeva, ovviamente, anche sulle opere del passate, nate sotto un altro segno e concezione, in onore all'universalità del sistema intellettuale. La libertà artistica, oltre che essere una buona confezione per il plusvalore dell'arte, è stata anche una scimmietta pazza che, facilmente ammaestrata, danza davanti al mercato. Questa libertà dell'artista, premiata dal mercato e perfettamente inserita in quello, ha dimostrato la possibilità della libertà in generale e che quella era l'epoca della realizzazione della libertà in generale.
L'artista ribelle è diventato un vero plusvalore, per poi essere surclassato dall'artista scientifico ed erudito, ragionato, consapevole della sua storicità, integrato, sereno, dipendente di qualche giornale, redattore di rivista, collaboratore universitario etc. etc. Ma non è che prima c'era libertà (nel romanticismo) e dopo meno.
Della coscienza dell'arte, della coscienza artistica non è il caso di parlare.

12 -

L'artista attuale rivendica la sua diversità attraverso la critica dell'arte, non più in forza dello spirito romantico e del mistico slancio, che faceva il verso di ignorare la critica mentre la costituiva, invece, ma con il plusvalore del sapere, della conoscenza. Questo plusvalore, come ogni altro plusvalore, è il prodotto di generazioni artistiche che hanno operato espropri illeciti, non chiamandoli espropri, ma riletture e nuove interpretazioni. In quest'epoca non ci deve affatto stupire la nuova ondata barocca del cosiddetto post moderno e della transavanguardia: perfettamente in linea con i tempi.

13 -

Se l'artista è lo scimmiottamento dell'uomo libero, un uomo libero che vive solo sul palcoscenico dell'arte, quando ha simulato tanto bene da ottenere oggettive conquiste e da vedere il suo palcoscenico finalmente da lontano, allora il palcoscenico dell'arte diviene l'ultimo codice, il codice postumo, che gli viene imposto e della cui imposizione può simulare la denuncia, sulla quale irrimediabilmente capitalizzare il suo lavoro. Avete visto dada e avete visto action painting?

14 -

L'impegno ideologico e l'impegno artistico si assomigliano. Si dà, in entrambi i casi, produttività all'improduttivo, si inventa produttività nell'antiproduzione. Si lavora per la produzione senza produrre. Si rappresenta il mondo, gettandolo sul palcoscenico, come se si succhiasse l'essenza delle cose e la si digerisse. Per prima cosa l'artista, e noi insieme con lui, succhiamo e digeriamo noi medesimi. Poi, solo dopo questa digestione, si recita un copione: quello della nostra complessità perduta. Ci si reprime gioiosamente (la digestione è piacevole e questa è l'essenza dell'arte) e per mascherare la nostra repressione si enfatizza quella esistente nella realtà, quasi non ci riguardasse ma riguardasse gli altri, il mondo, non noi. L'arte è stata questo, almeno fino a dada; l'arte ha cercato di andare avanti e per andare avanti ha dovuto superare sé stessa e quindi la sua maschera: ha conosciuto dada. La politica non ancora: l'ideologia deve conoscere dada per liberarsi ed essere funzione di liberazione e organizzazione del mondo e non strumento di liberazione e organizzazione sul mondo. La politica e l'ideologia per essere in sé tutto il mondo e per produrre liberazione devono abbandonare quello che  è sempre stato specifico e connaturato in esse, devono, sotto un certo punto di vista, scomparire. Le politiche e le ideologie non hanno fatto altro, dal seicento in poi, che riempirsi la bocca di libertà e liberazione, della rappresentazione scenica della libertà e della liberazione, che, polarizzate in alcuni attori e scenografie, non si realizzano mai, che divengono l'attualità inattuale. Dada era funzione agente, non analizzava la realtà, l'aveva in sè solo cambiandola, obliterandola. La nuova politica deve essere questo: avere la realtà che si libera, produrre hic et nunc pensiero dell'oggi (e non sull'oggi), modi di affrontare la vita e i suoi problemi, modi di affrontare sé stessa, quindi la collettività e la vita collettiva. È solo la realtà che può fornire alla politica questa energia e non viceversa, anzi la realtà si deve trasformare in politica e non, come avviene da secoli, teatralizzarsi in quella. L'attore di teatro, proprio perché è solo strumento passivo dei contenuti dell'autore, è sempre pronto a cambiare ruolo, parte e recita. È solo un caso fortuito e miracoloso se si trova a recitare nel teatro della vita (che non è un teatro) e a produrre cultura anziché interpretarla.
Non si tratta, dunque, per la politica e l'ideologia, di scegliersi dei buoni attori e di cacciare via i cattivi, è il caso invece di negare la rappresentazione alla quale le ideologie, tutte le ideologie, si sono condannate. È tra l'altro una rappresentazione che prevede spettatori e attori, che divide l'umanità in due parti: la parte cosciente che sa recitare e l'altra parte, quella incosciente, che simula le contraddizioni della prima, ingigantendone alcune più funzionali al processo teatrale e alla recita.
È così che l'ideologia rivoluzionaria, per come è stata organizzata e strutturata fino a oggi, ha avuto sempre una funzione di recupero e di allontanamento dalla realtà dei soggetti ribelli che producevano, al di fuori di quella, nei loro desideri, nella loro prassi, nel ragionamento, liberazione. L'ideologia rivoluzionaria era costretta, in quanto ideologia, a collocare questi desideri, pratiche e ragionamenti sul piano del simbolico, del rappresentativo, dalla realtà all'idea sulla realtà, dall'oggi al domani. Ogni logos principiava con il rituale riassunto delle tipologie del capitalismo ("è tipico del capitalismo"). La società non può che difendersi con le sue tipologie universalizzate, con la sussunzione della libertà e della liberazione in un contesto simbolico, perché come valori, libertà e liberazione, non le appartengono autenticamente, ma le appartengono solo come blasoni e stemmi araldici.

15 -

L'ideologia rivoluzionaria richiede la trasformazione della realtà. Ma la realtà si trasforma da sola, motu proprio, ed è proprio così che individua gli antidoti: non è la repressione ma la produzione e il cambiamento a garantire la conservazione. Il pensiero scientifico offre la forza e la possibilità alla società capitalista di andare avanti come un diverso dall'umanità (in quanto separato da essa) ma che dall'umanità e dalle potenzialità degli uomini è stato emesso.
La repressione interviene solo in quelle situazioni che pregiudicano l'avvio di una nuova produzione, di una nuova trasformazione, la repressione si abbatte sui soggetti politici e sociali arretrati, legati al passato. Allora la repressione riesce a essere vincente. Chi invece non si oppone alla nuova linea produttiva ma cerca di renderla produttiva in modo nuovo, come se fosse davvero emessa dall'intelligenza collettiva e dall'umanità nel suo complesso, è difficilmente colpito dalla repressione e se viene esercitata è, solitamente, perdente. Accade, però, raramente.

16 -

Il metodo del potere ricorda quello delle donne del passato che erano terrorizzate dalla tentazione della carne: "Vai avanti e troverai un altro uomo a cui pensare e un'altra carne da desiderare, ma tienilo ben nascosto".

17 - Della poesia e della sua attuazione

Poesia, mistica madre, quando guardava tutte le epoche realizzarsi; parlava a quelle e diceva: "in me sapete trovare il vostro slancio vitale, la vostra natura". Poesia, generata da un parto dolorosissimo e con gran fatica da ogni epoca. C'è un uomo a generarla, un uomo al centro d'essa, al centro di tutte le sue diramazioni; ognuna di esse parlava della difficoltà ch'egli aveva a guardarsi intorno, a capire quello che stava accadendo.
Poesia così affascinante poiché limitata e come tale indefinita, sempre generata dall'ansia della comprensione, da un respiro affannoso dietro alla realtà. La poesia è già di per sé stessa inattuabile, un frutto moscio, una difficoltà esplicitata.
Oggi parlare di poesia: ci sarebbe da ridere molto e di gusto, ma non alla maniera del saggio indiano lontano e distaccato, tutt'altro alla maniera del folle piantato sulla colonna a predicare al deserto.
La poesia è stata un'astrazione, astrazione di procedimenti mentali - psicologici (fino al romanticismo), una sorta di poesia 'mitica' e poi astrazione di procedimenti di ricerca. L'individuo ha sempre cercato nella poesia il modo di travalicare la sua epoca, di creare, costruire, valori universali, metastorici. Nell'abbruttimento del contingente la poesia ha significato la rapida aviolinea verso l'incorruttibilità, verso tutto quello che nel contingente deperiva o veniva sentito come deperibile. La paura della morte è uno dei motori della produzione poetica.
Il parto poetico è doloroso poiché è smaliziato e cinico; il poeta conosce i limiti del suo prodotto ma alla fine non sfugge e rimane lì a crogiolarsi nel paradosso.
Oggi, nell'epoca terminale, l'epoca nella quale tutti i nodi vengono al pettine, ma sul binario peggiore che si possa immaginare, nella forma più assurda e mistificata (eppure ci siamo arrivati, comunque, a questo termine), anche la poesia è stata costretta a tastare questi nodi, a prendere il pettine, ad indagare il linguaggio e ha fatto di questa esigenza epocale, del pettine, un feticcio, come sempre, ed è rimasta poesia, così.
Poesia, categoria a sé stante, si è mantenuta come categoria a sé stante, mentre basta osservare la gente che cammina per strada per comprendere che la poesia si è rapidamente distribuita come sotto prodotto del mondo televisivo, cinematografico e radiofonico, ma si è distribuita.


pagina precedente